Per il clan Licciardi, così come per talune realtà camorristiche che hanno raggiunto dimensioni e organizzazione non più da banda rionale, ma da network criminale internazionale, valgono poco o nulla le categorie di “territori controllati” e “affari gestiti”. Lo spiega bene Filippo Beatrice, attuale sostituto procuratore alla Direzione nazionale antimafia, con un passato alla Dda partenopea, e titolare dell’inchiesta sui “magliari” di Secondigliano: «Quell’indagine dimostrò come l’Alleanza di Secondigliano avesse non solo una spiccata capacità militare, ma anche una dirompente forza economica, in Italia e nel mondo. Partendo dalla conquista dei mercati dell’est europeo, arrivò a controllare l’intera rete dei “magliari”, che prima era più o meno autonomamente organizzata».
Di quel filone investigativo, sfociato nel luglio del 2004 in decine di arresti e sequestri per centinaia milioni di euro, Beatrice ricorda un particolare specifico, che offre ben più di un indizio della potenza finanziaria della cosca: «Gli affiliati, che operavano negli Usa, e in particolare negli Stati di New York e della California, godevano di una speciale rete di protezione, che assicurava loro assistenza legale e copertura per determinate operazioni. Intuimmo che la cosca stipendiava anche alcuni poliziotti americani per lavorare in tranquillità. Segnalammo la traccia agli agenti dell’Fbi, ma non so, in concreto, se la pista sia stata sviluppata in seguito».
L’ULTIMA INCHIESTA – Gli arresti dei capi rimasti in libertà (i fratelli Pierino, Maria e Vincenzo) e l’evoluzione del quadro criminale cittadino (la scomparsa di vecchi alleati e la formazione di nuovi gruppi, come gli “scissionisti” guidati da Raffaele Amato e Cesare Pagano) hanno ridimensionato molto la sfera d’influenza dell’Alleanza di Secondigliano, sfrondata degli ultimi rami da una robusta azione di contrasto sviluppata dalla magistratura partenopea e dalle forze dell’ordine, sia sul fronte patrimoniale che su quello militare.
L’ultima inchiesta, risalente al luglio del 2008, ha portato in galera ciò che restava del vecchio sodalizio, compresi fiancheggiatori e “colletti bianchi”. Un’inchiesta nata grazie alle intercettazioni attivate per la cattura di Vincenzo Licciardi, che ha squarciato il velo di connivenze e complicità che hanno permesso alla famiglia malavitosa di accumulare un vero e proprio impero economico del valore, approssimativo, di oltre 330 milioni di euro. Gli interessi commerciali erano i più svariati: dal settore calzaturiero al tessile, con imprese operanti tra Casoria e San Pietro a Patierno, nonché decine di negozi di abbigliamento individuati a Napoli e a Roma, in Basilicata e in Toscana.
Il vero “core business” del clan Licciardi consisteva, però, nel riciclaggio di denaro sporco nel comparto immobiliare, nel quale i padrini hanno operato indisturbati per anni. È stato accertato, nel corso delle indagini, che la famiglia malavitosa, attraverso un gioco di scatole cinesi, avrebbe controllato l’“Immobiliare San Salvatore srl”, con 43 immobili a Casoria; la “House & House Immobiliare srl”, titolare di un deposito e sei appezzamenti a Foiaino della Chiaia (Arezzo), quattro appartamenti e quattro garage a Montignoso (Massa Carrara); la “Rocap spa”, titolare di due immobili a Roma; la “Immobiliare Amica srl” a Casavatore e l’“Immobiliare Stadera srl”, proprietaria di 43 negozi, per 2mila e 600 metri quadrati di superficie complessiva, e sei appartamenti a Casoria.
PENTITI PREZZOLATI – Le indagini sul clan rivelano anche i tentativi, incoraggiati dai capi detenuti, di bloccare le collaborazioni con la giustizia, vera e propria ossessione della criminalità organizzata. Un risultato che i Licciardi raggiungono sia assicurando la copertura delle spese legali agli affiliati finiti in carcere, sia arrivando a contrattare – quando possibile – il prezzo del silenzio direttamente con il pentito. È il caso di Costantino Sarno, alla cui moglie – si legge nelle carte processuali – «la famiglia Licciardi corrisponde mensilmente…. la somma di dieci milioni di lire».
La circostanza emerge nel colloquio intercettato in carcere, nel 2001, tra Maria Licciardi e il marito, Antonio Teghemie, allorquando la prima, avuta notizia dell’interruzione del pagamento alla donna, «sollecitava» il secondo «che sembrava non essere al corrente della questione… a contattare Edoardo Contini, il quale evidentemente contribuiva al sostegno economico della famiglia di Sarno, avendo processualmente tratto un indubbio e personale vantaggio dalla ritrattazione». Maria Licciardi, al riguardo, è lapidaria: «Evidente nun ’o pensa, che è sciuto pe l’omicidio. E Custantino nun parla». Edoardo Contini, a quell’epoca, infatti, era stato scagionato da un’accusa di omicidio proprio perché le prime dichiarazioni di Costantino Sarno non avevano avuto seguito a livello processuale.
E PENTITI DISSOCIATI - In un successivo brano, tratto sempre dall’inchiesta sui magliari, il gip scrive dei «riferimenti degli interlocutori a un loro importante affiliato, Luigi Esposito… capozona per conto della famiglia Licciardi nel rione Berlingieri» che «dopo l’omicidio del fratello Carmine, avvenuto il 14 gennaio 1997, aveva iniziato a collaborare con l’autorità giudiziaria, indicando in Gaetano Bocchetti uno dei probabili mandanti. Dopo la sua scarcerazione, Esposito aveva cessato ogni attività di collaborazione, rendendosi irreperibile». Esposito, conosciuto con il soprannome di “Nacchella”, però, «aveva fatto pervenire una duplice dichiarazione di fedeltà alla famiglia e di disponibilità ad offrire il suo contributo per la realizzazione di azioni militari… egli, infatti, aveva sminuito il suo contributo collaborativo, da un lato asserendo di esservi stato costretto in ragione della sua pesante situazione processuale (“chilli me stevano affunnanno”), dall’altro di aver proceduto a dichiarazioni accusatorie, il cui contenuto non era compromettente per la famiglia Licciardi, come si sarebbe potuto facilmente verificare, leggendo le carte processuali (“Io nun aggio ritto niente ’e straordinario… prova a leggere ’ngoppa ’e carte… io aggio fatto finta)».
Antonio Teghemie conclude la discussione ricordando alla moglie che l’ex collaboratore di giustizia aveva ribadito, ancora una volta, la sua fedeltà all’organizzazione della Masseria cardone, con queste parole: «Si caso mai che serve pe cocche battuta…». Paragonando l’omicidio di un cristiano a una battuta di caccia.
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