mercoledì 1 dicembre 2010

Contro-inchiesta/4 - Il ruolo della politica nei rifiuti

Quando si parla del ruolo della politica, nell'emergenza rifiuti in Campania, e del comodo uso della criminalità organizzata per diluirne le responsabilità davanti all'opinione pubblica, bisogna essere particolarmente attenti a non aderire, in maniera preconcetta, al falso sillogismo che recita: se la camorra fa affari con l'immondizia, e l'immondizia invade le città, allora quella è l'immondizia della camorra. Piuttosto, sarebbe corretto dire che quella è l'immondizia che fa gola alle cosche. Perché, come dimostrato da tante indagini della magistratura, la camorra approfitta dello stato di crisi, non lo genera. Paradossalmente, la camorra offre soluzioni con impianti di stoccaggio, discariche e camion per il trasporto. Il tutto, naturalmente, ben nascosto dietro società, carte protocollate e fatture al di sopra di ogni sospetto. E, quando non lo sono, al di sopra di ogni sospetto, una robusta bustarella aiuta aiuta a digerire tutto. A generare l'emergenza, sono sempre e comunque le inefficienze della politica e delle Amministrazioni locali, a tutti i livelli. Come dimostra la circostanza, riportata non senza clamore dalla stampa cittadina, che nel 2009, erano ben sessanta i Comuni della Campania (di cui venti solo nella provincia di Napoli) inadempienti sul fronte della raccolta e dello smaltimento della differenziata. E si tratta di una statistica che, nel 2010, sarà sicuramente peggiorata. La raccolta differenziata, si sa, è uno dei punti cardine di una corretta e funzionale gestione del ciclo dei rifiuti, perché se non si riesce a selezionare e limitare all'origine, dunque, nel cestino di casa, la quantità e la qualità dei rifiuti che poi dovranno finire in discarica, allora c'è ben poco da fare. Il capoluogo, su questo punto, versa in una situazione disastrosa, con il 18 per cento appena, ben lontana dagli standard richiesti dalla legge (65% entro il 2012) e sventolati, come miracolosamente raggiungibili dal centrosinistra napoletano.
D'altronde, che al Comune di Napoli – retto dall'ex ministro dell'Interno, Rosa Russo Iervolino – ci sia un inquietante livello di superficialità e di pressappochismo, nell'affrontare tematiche legate all'ambiente e alla sanità, lo dimostra il fatto che tra Amministrazione comunale e Asìa, la società che si occupa, in città, della raccolta e dello spazzamento, non è mai stato formalizzato un contratto di servizio, ovvero quel documento che mette, nero su bianco, gli obblighi dei contraenti e le relative sanzioni. Se, ad esempio, il Comune di Napoli decidesse di contestare all'Asìa un qualsiasi disservizio, non ci sarebbe alcuna multa da pagare perché il contratto non esiste. C'è solo una bozza che non è mai stata portata in consiglio comunale e votata. E questo da un bel po' di anni, almeno dal 2003. In pratica, siamo davanti a una società che opera, nel settore dei rifiuti, per il terzo Comune d'Italia in maniera più o meno abusiva.
Sarà stata una dimenticanza? Mah, diciamo di sì. Diamo credito a chi, centrodestra e centrosinistra napoletani, ammette di non aver dato il giusto peso a questa inspiegabile dimenticanza. Che cosa dire, però, del caso di Camigliano, un paesino di 2mila anime in provincia di Caserta, dove il Comune è stato sciolto malgrado avesse raggiunto il 65 per cento di raccolta differenziata? L'unica risposta è l'ottusità della burocrazia e la miopia della politica, perché punire un Ente virtuoso che sa difendere il suo territorio, che cerca – e ottiene – la collaborazione unanime della cittadinanza e, soprattutto, riesce laddove tutti gli altri, o quasi falliscono, significa non avere le idee chiare su come si amministra una comunità. Camigliano è stata commissariata, perché il suo sindaco non ha voluto consegnare alla Provincia di Caserta i ruoli della Tarsu, l'imposta comunale sui rifiuti. E non li ha voluti consegnare perché sapeva, benissimo, che ubbidire alla legge sarebbe stato il primo passo verso il baratro. Morale della favola: sono arrivati i commissari prefettizi, e il sindaco è stato costretto a sloggiare. Che bella figura.
(Pubblicato su "Il Tempo", 27 novembre 2010)

venerdì 26 novembre 2010

Rifiuti, la contro-inchiesta/3

Caro Direttore,

in questi mesi, ha trovato giustamente spazio sui quotidiani locali napoletani e, in alcuni casi, anche sulla stampa nazionale, la notizia dell'avvio della collaborazione con la giustizia di Gaetano Vassallo, l'ex ministro dell'Ambiente del clan dei Casalesi. Una collaborazione che ha consentito l'avvio di importanti inchieste contro l'ecomafia casertana e lo scoperchiamento di quel verminaio immondo in cui faccendieri di ogni risma vanno a braccetto con amministratori locali e criminali per insozzare il nostro territorio. C'è un particolare, però, che purtroppo non viene sottolineato a sufficienza a proposito delle organizzazioni criminali che si occupano di rifiuti. E cioè le difficoltà che gli organi inquirenti e la magistratura si trovano ad affrontare quando s'imbattono in un filone investigativo particolarmente interessante, vuoi per mancanza di adeguati strumenti legislativi, vuoi per una condizione di sostanziale isolamento rispetto agli altri attori in scena (politica, imprenditoria, alta burocrazia).
Prendiamo il caso di Vassallo, ad esempio. Il colletto bianco dei clan ha indicato i luoghi dove i tagliagole casertani hanno sversato migliaia di tonnellate di rifiuti, ha fatto i nomi dei suoi complici, ha denunciato i suoi dieci fratelli, colpevoli – come lui – di aver avvelenato ettari ed ettari di campagna, ha tirato in ballo l'ex sottosegretario Nicola Cosentino nell'affaire, indicandolo come uno dei capi della cricca che, attraverso la politica e la camorra, fa soldi con la monnezza, ha raccontato (e questo fa bene Roberto Saviano a ricordarlo) come finanche i topi morissero in prossimità dei siti illegali di sversamento, ha alzato il velo sulle ricchezze accumulate dalla holding rifiuti spa, qualcosa come quaranta milioni di euro. Tutto questo ha detto, Vassallo, nei suoi interrogatori tra 2008 e 2009, sollevando un coro unanime di indignazione e di incredulità nell'opinione pubblica locale e nazionale. Possibile che Vassallo sapesse tutto questo? Possibile che in Campania accada tutto questo? Possibile che nessuno prima se ne sia accorto?
Eppure, Gaetano Vassallo non è un nome nuovo per chi si occupa di inchieste giudiziarie e non avrebbe dovuto esserlo nemmeno per quelli che, per almeno venti anni, lo hanno lasciato libero di pascolare su e giù per Caserta a seminare morte e malattie.
Di lui si sa parecchio. E già da tempo. Nel giugno 1992, Vassallo viene arrestato nell'ambito di un'inchiesta su trafficanti di droga e di armi. A parlare di Vassallo ai pm, a quel tempo, è proprio un pentito che lo accusa di avere rapporti malati con alcuni sindaci del Casertano, rapporti confermati anche da alcune intercettazioni telefoniche che lo dimostrano in ottimi rapporti con i politici locali. Un anno dopo, e siamo al 1993, la maxi-inchiesta Adelphi apre uno squarcio sul business delle discariche abusive. E chi finisce diritto diritto nelle 4mila pagine dell'informativa dei carabinieri? Proprio Gaetano Vassallo, indicato – già allora – come trait d'union tra la politica e la criminalità organizzata. Tre anni dopo, Vassallo viene condannato a due anni e sette mesi di reclusione, a fronte di una richiesta di sette anni avanzata dal pm. Ovvio che, uscito dall'aula di tribunale, il ministro dell'Ambiente dei Casalesi ritornasse in gioco; e ci vorranno altri quindici anni perché venga messo all'angolo, e con lui smantellato l'impianto infernale messo in piedi dietro il paravento della gestione di una discarica a Cesa, un paesino dell'hinterland casertano, dove lo stesso Vassallo è stato per lungo tempo consigliere comunale.
Questo che cosa significa? Che l'intuito investigativo aveva visto giusto, e lungo, e che – forse forse – si poteva risparmiare alla martoriata Campania (in)felix un decennio e passa di avvelenamento, e che non sarebbe male ascoltare l'appello che il procuratore nazionale antimafia, Piero Grasso, ha rivolto al mondo della politica: prevedere il reato associativo ambientale. Una richiesta che il capo dei pm antimafia italiani ha esplicitato, ufficialmente, il 17 giugno 2009 nel corso di un'audizione davanti alla Commissione d'inchiesta sul ciclo rifiuti, e che prevede di far rientrare il traffico di rifiuti nella competenza della Direzione distrettuale antimafia una modifica dell'articolo 51, comma 3bis, del Codice di procedura penale. Si tratta di una modifica capace di attribuire ai pm antimafia la competenza sui reati connessi al ciclo dei rifiuti, mentre gli altri reati resterebbero attribuiti alle singole procure. In questo modo, si consentirebbe anche di recuperare alle indagini l'uso delle intercettazioni telefoniche in materia, che non sempre è possibile utilizzare, se non si riesce a dimostrare la riconducibilità dei traffici alla criminalità organizzata. E – l'esperienza dimostra – che quasi mai i camorristi gestiscono in prima persona un affare tanto grosso, su cui tanti, troppi hanno costruito fortune personali ancora oggi invisibili.
(Pubblicato su "Il Tempo", 26 novembre 2010)

Rifiuti, la contro-inchiesta/2

Caro Direttore,

la questione rifiuti in Campania, e su questo non si può non essere d'accordo con Roberto Saviano, non è certo un'emergenza, ma – purtroppo – una condizione di (a)normalità, che si trascina secondo la vulgata comune, cui lo stesso Saviano attinge per dare forza alla sua narrazione, da almeno sedici anni, da quando cioè è stato decretato per legge lo stato d'allarme.
In realtà, senza scomodare Il ventre di Napoli di Matilde Serao o i racconti tardo ottocenteschi sulla Napoli umiliata dal colera e dalla sporcizia, basterebbe soffermarsi sulle poche frasi seguenti per comprendere quanto il problema igienico-sanitario, nella nostra città, sia tutt'altro che storia recente. Flash nr1: “La mancata consegna dei sacchetti per la raccolta della spazzatura sta causando notevoli disagi tra la cittadinanza. Molti abitanti sono costretti a gettare i rifiuti nelle strade, avvolti in carta straccia. E ciò con grave pericolo per l'igiene pubblica. Stamani, alcune strade del quartiere Chiaia – tra i più noti ed eleganti della città – sono apparsi imbrattati di cumuli di spazzatura in ogni angolo”.
Flash nr 2: “Tonnellate di rifiuti solidi urbani sono rimasti abbandonati nelle strade, in seguito all'astensione dal lavoro degli addetti all'autoparco di via Gianturco. La mancata uscita degli autocarri, la notte scorsa, ha provocato in mattinata grave disagio agli abitanti del centro storico, di quelli della zona nord e della parte orientale della città. A Secondigliano, a Marianella i cumuli di rifiuti hanno raggiunto in alcuni casi il metro d'altezza. L'autoparco di via Gianturco è dotato di oltre 100 autocarri che compiono il servizio di raccolta su un'area molto vasta […] in serata sono aumentati i disagi perché – anche in occasione della festività di Sant'Antonio Abate, protettore degli animali – è stato appiccato il fuoco a numerosi contenitori per immondizia sulle strade cittadine e periferiche. Le fiamme, che in alcuni casi hanno raggiunto notevole altezza, hanno causato situazioni di pericolo. In una strada della periferia, i vigili del fuoco sono stati contrastati nella loro opera da gruppi di scalmanati che hanno preso a sassate, danneggiandole, alcune autobotti. La polizia ha fermato alcune persone, che ha poi rilasciato. Per la situazione venutasi a creare in città per le tonnellate di rifiuti solidi sulle strade in molti hanno telefonato ai giornali e ad altri organi di stampa e alle televisioni, chiedendo, come per il traffico, l'intervento del prefetto”.
E, per concludere, flash nr 3: “Anche oggi la rimozione dei rifiuti a Napoli procede a rilento a causa dell'alto numero di automezzi, circa duecento, fermi per guasti meccanici. I contenitori, posti in tutte le strade di Napoli, sono ancora per la maggior parte pieni di spazzatura”.
Sembra la descrizione della città oggi, o una settimana fa. Al più, potrebbe sembrare la descrizione della città di sedici anni fa, quando è esplosa l'emergenza immondizia a Napoli. In realtà, si tratta di tre stralci di altrettanti articoli, pubblicati dai quotidiani partenopei, rispettivamente il 19 febbraio 1981, il 17 gennaio 1982 e il 4 marzo 1984. Occhio e croce, almeno trent'anni fa. Ieri come oggi, nulla è cambiato. Dunque, questo che cosa significa? Che l'affaire rifiuti ha radice antiche e profonde, di cui la camorra è soltanto uno degli aspetti deteriori e, sicuramente, tra i più pericolosi.
Se in Campania siamo arrivati a coprirci di spazzatura e di vergogna, davanti al mondo intero, è perché chi doveva controllare, chi doveva programmare, chi doveva gestire, chi doveva assicurare la funzionalità dei meccanismi non l'ha fatto. Per dolo, o per colpa. Poi, è arrivata la camorra. Poi, il crimine organizzato è subentrato, insinuandosi nei sinuosi e peccaminosi risvolti della burocrazia e dell'amministrazione pubblica che, con la Bestia, sono scese a patti. Ma se non si distingue, nettamente, la responsabilità politica da quella dei tagliagole della camorra, allora non si va lontano. O si rischia, al più, di generare confusione, anche se in buonafede.
Certo, fa bene Saviano a parlare dell'ecomafia casertana davanti a milioni di telespettatori e nei suoi splendidi reportage su “la Repubblica” e “L'Espresso”, ma la contaminazione tra verità storica e giudiziaria e fascinazione letteraria, in una materia così delicata, con tutti i risvolti di ordine pubblico e sicurezza che ne derivano, rischia di generare atmosfere immaginifiche che non hanno alcuna aderenza con la realtà. Penso, ad esempio, a quando lo scrittore cita – e lo fa con una certa frequenza – la leggenda che vorrebbe la carcassa di una balena sepolta nella discarica di Pianura, un quartiere della periferia di Napoli. I toni che usa Saviano sono davvero molto suggestivi e sembra quasi di vederlo questo novello Capitano Achab che, in una fetida bettola del porto, contatta camorristi e faccendieri perché facciano sparire quella montagna di grasso e di carne putrescente, rimasta impigliata in una rete da pesca, che ondeggia – cullata dalla marea – al largo del golfo di Napoli. Ma come, ci si chiede alla fine della storia, a Napoli pure le balene finiscono nelle discariche? E se ci finisce Moby Dick figuriamoci cos'altro nasconde lo stomaco di madre natura, in quelle zone...
La vicenda – a ben vedere – è un po' meno fantasiosa, ma non per questo meno drammatica di come la racconta Saviano: c'è davvero una balena nella discarica di Pianura. Non è una leggenda, né un racconto passato di bocca in bocca tra gli abitanti del quartiere, come si faceva tra gli indiani d'America. Il cetaceo – lungo 7 metri e pesante otto tonnellate, arenatosi al largo dell'isola di Ischia – viene interrato nel sito perché l'operazione la autorizza l'allora assessore comunale alla Sanità, Giuseppe Scalera. L'ordinanza municipale è del 17 luglio 1989. E, a quell'epoca, questa soluzione la condividono Comune, Regione e Prefettura.
La domanda, allora, non è: davvero c'è una balena nella discarica? Ma: perché c'è una balena nella discarica?
(Pubblicato su "Il Tempo", 25 novembre 2010)

Rifiuti, contro-inchiesta/1

Caro Direttore,

l'ultima puntata della trasmissione “Vieni via con me” e, in particolare, il lungo monologo di Roberto Saviano sull'emergenza rifiuti in Campania possono essere riassunti secondo questo semplice schema: Napoli sta soffocando nell'immondizia perché le discariche sono state saturate dai clan, che le hanno riempite col pattume del Nord. A sostegno di questa tesi, che in realtà pare molto di più un assioma, Saviano snocciola dieci inchieste della magistratura che, dal 1993 al 2009, hanno dimostrato la responsabilità del sistema industriale settentrionale nella crisi ambientale che, a mesi alterni, infuria alle nostre latitudini. Inchieste note a chi fa il mio mestiere, di cui i giornali si occupano da tempo e che non dicono nulla di nuovo. Inchieste che in alcuni casi (vedi Cassiopea, iniziata nel 1999 e nel 2010 ancora ferma all'udienza preliminare) sono tuttora in corso, o che – addirittura – sono state ridimensionate nell'impianto accusatorio.
La “narrazione” televisiva di Saviano assomiglia molto a ciò che descrive Umberto Eco nel suo bellissimo “Il Cimitero di Praga”: basta prendere un po' personaggi loschi e misteriosi e farli radunare in un luogo oscuro ed ecco pronto un Complotto utile ad ogni esigenza.
Il Complotto descritto da Saviano è un triangolo formato da massoni, imprenditori (possibilmente del Nord) e camorristi. Purtroppo, la storia non è così semplice. E, forse, qualche dato in più aiuterà a completare quella parte di storia che Saviano non ha avuto modo di raccontare lunedì sera.
È vero che le grandi aziende del Settentrione hanno spesso utilizzato la Campania come pattumiera, ma forse – per amore della verità e per non lasciare un alibi a quella indecente classe dirigente che ci ha governato negli ultimi venti anni – sarebbe doveroso ricordare che esiste anche un altro circuito ecomafioso che nasce e si sviluppa interamente all'interno dei confini campani. Prove? Eccole: il 21 febbraio del 1996, la polizia scopre che nella zona di Acerra sono state sversate tonnellate di resine e di altri rifiuti tossici provenienti dalle aziende della provincia di Napoli. Il 4 novembre 2005, i carabinieri si accorgono che nelle campagne dell'agro-aversano e del litorale domizio sono stati interrati i rifiuti pericolosi prodotti dagli impianti di depurazione di Capri e della penisola sorrentina, oltre che dai siti di Salerno e Acerra. L'11 maggio 2006, la procura di Benevento indaga su 50mila tonnellate di scorie pericolose, provenienti dalle province di Avellino e Salerno, smaltite nelle campagne e nei fiumi del Sannio. Si replica il 4 luglio dello stesso anno, con un blitz dei carabinieri del Noe in provincia di Caserta, dove 4 aziende nascondevano sotto terra i fanghi dei depuratori di Licola, Orta di Atella, Marcianise e Mercato San Severino. E ancora: l'11 settembre 2007, la magistratura s'imbatte in un traffico di rifiuti di inerti e materiale di risulta e amianto e sostanze bituminose, prodotti nel Napoletano, “occultati” nei cantieri della Tav. In tutte queste operazioni, il Nord non c'entra nulla. Perché non se ne parla? Anche questi signori sono dei delinquenti e anche loro hanno contribuito ad avvelenare il nostro territorio. Anzi, non solo il nostro, perché – sempre spulciando tra le inchieste di questi ultimi dieci anni – emerge chiaro un altro dato, di cui non si è parlato a “Vieni via con me”: anche dalla Campania sono partite decine, centinaia di camion carichi di rifiuti pericolosi da nascondere nelle pance delle altre regioni, vicine e lontane. Ecco un po' di esempi: in Abruzzo, tra il 1992 e il 1998, vengono denunciate 34 persone per traffico illegale di rifiuti dal Napoletano e dal Casertano; in Puglia, invece, nel blitz del 13 maggio 2002, di indagati, ce ne sono due dozzine. E non è tutto: il 23 marzo 2006, il gup di Milano condanna otto persone per traffico illecito di rifiuti dalla Campania alla Puglia, con pit-stop in Lombardia e in Emilia Romagna. Sempre dal Napoletano, è l'inchiesta del 10 marzo 2007 a dirlo, provengono i rifiuti tossici che sono stati rivenduti e smaltiti illecitamente da tre aziende di Brescia e di Udine. E altre 100mila tonnellate di pattume campano vengono fatte ingoiare alle campagne delle Marche (inchiesta “Ragnatela” del 17 luglio 2007, 21 indagati a piede libero). Anche queste sono notizie.
Altro dettaglio: pure al Nord ci sono discariche abusive di rifiuti tossico-nocivi. Lo dice, nel 1995, il secondo rapporto Legambiente sulle ecomafie: bubboni mefitici vengono individuati in Piemonte (Ciriè, Piossasco e Tortona) e in Lombardia (Dredano e Lacchiarella).
Dire che è tutta colpa del Nord in combutta con la camorra non aiuta a capire le dimensioni del fenomeno, perché poi – alla fine – i vari Bassolino e Iervolino (di cui Bertolaso lasciò questa “meritoria” immagine, quando si ritrovò da solo nel 2007 a fronteggiare un'ondata di spazzatura sulla Campania: “Nessuno mi aiutava, Bassolino e la Iervolino si erano sfilati e io avevo solo due interlocutori: il cardinale Sepe e la Procura”) sono autorizzati a sostenere di non aver avuto alcuna colpa, in tutta questa schifezza.
Certo, non è colpa della camorra se la differenziata non decolla, non è colpa dei clan se il Commissariato per l'emergenza rifiuti ha bruciato due miliardi di euro, senza risolvere nulla. Forse, parlando di rifiuti, più che incolpare Sandokan o i Casalesi (che pure hanno le loro colpe, per carità...) sarebbe più utile fare riferimento alle parcelle d'oro e ai milioni a palate che sono stati distribuiti dal Commissariato per consulenze e incarichi esterni, come il super-stipendio da 413 euro al giorno corrisposto a un ragioniere non iscritto all'Albo.
Forse, sarebbe il caso di ricordare che il procuratore di Napoli, Giovandomenico Lepore, il 16 novembre scorso, davanti alla commissione parlamentare d'inchiesta sulle ecomafie ha detto, a proposito dell'emergenza di queste settimane: “In questo caso non si tratta di camorra, è una inefficienza della gestione del ciclo dei rifiuti che dura ormai da venti anni”.
Forse, sarebbe il caso di fare qualche nome e, soprattutto, qualche cognome.
(Pubblicato su "Il Tempo", 23 novembre 2010)

venerdì 19 novembre 2010

Antonio Iovine, in trappola il boss dei boss

E' il sorriso – amaro – della sconfitta quello che il boss della camorra, Antonio Iovine, ostenta all'uscita della Questura di Napoli, circondato dai poliziotti e da decine di fotografi e cameraman, un'ora appena dopo la cattura, avvenuta in una villetta di Casal di Principe, in provincia di Caserta. Iovine – soprannominato “'o ninno”, “il poppante”, perché fin da giovanissimo destinato dalle insondabili ragioni del potere mafioso alla successione di una delle “famiglie” più temute del panorama criminale italiano – si è arreso agli investigatori da vero capoclan, dopo aver tentato la fuga da un terrazzo. Agli agenti che lo hanno circondato, ha confermato le proprie generalità e ha chiesto di non voler perdere tempo a mostrare loro i documenti. “Sono io, è inutile che me lo chiediate”, ha detto ai poliziotti. Insieme a lui è finito in manette per favoreggiamento anche un incensurato, Marco Borrata, che ne avrebbe curato la latitanza, ospitandolo nella sua abitazione.
Condannato all'ergastolo nel maxiprocesso Spartacus, Iovine è considerato la mente finanziaria dei Casalesi, il boss-imprenditore, capace di movimentare e di gestire affari da decine e decine di milioni di euro all'anno, in collaborazione con l'altro superlatitante casertano, Michele Zagaria, con cui fu protagonista di un clamoroso episodio finito agli atti di un'inchiesta antimafia. I due boss telefonarono infatti a un giornalista di un quotidiano locale per chiedergli di smentire alcune notizie di cronaca nera a loro dire calunniose.
Originario di San Cipriano d'Aversa – uno dei tre paesi, insieme a Casapesenna e Casal di Principe, appunto, dove secondo la leggenda bisogna essere nati per aspirare al ruolo di boss dei boss della camorra casertana -, Antonio Iovine era ricercato da oltre quattordici anni ed era inserito nell'elenco dei trenta latitanti più pericolosi d'Italia, al pari di Matteo Messina Denaro e dei grandi capi della 'Ndrangheta calabrese.
Il suo ruolo di stratega economico-finanziario della cosca è stato ricostruito dalle inchieste condotte dalla magistratura napoletana e dal pool anti-casalesi guidato dal procuratore aggiunto Federico Cafiero De Raho. Un lavoro inquirente fatto in silenzio e con grande professionalità, che a poco a poco ha indebolito il sistema di protezioni e connivenze di cui il malavitoso si era circondato. L'ultima sciabolata è stata inferta il 26 maggio 2008, con un maxi-blitz che smantellò la rete di porta-ordini del boss, in cui rimase coinvolta anche la moglie, Enrichetta Avallone. Nell'abitazione di Iovine, gli investigatori trovarono pellicce, mobili di lusso, orologi e gioielli di valore che non fu possibile però sequestrare perché ogni oggetto era accompagnato da un bigliettino di auguri che ne dimostrava la lecita «provenienza». Erano regali di amici e conoscenti per “'o ninno”.
Sulle modalità della cattura, si è espresso il procuratore della Repubblica, Giovandomenico Lepore, sottolineando nel corso di un'apposita conferenza stampa la copertura offerta a Iovine dalla gente del posto, mentre il capo della Squadra mobile, Vittorio Pisani, ha spiegato che gran parte del lavoro investigativo si è basato su pedinamenti e intercettazioni ambientali e telefoniche. Per il procuratore nazionale antimafia, Piero Grasso, “il prestigio di Iovine è crollato e adesso la sua organizzazione perde credibilità”.
La notizia dell'arresto del padrino, giunta nel giorno della polemica a distanza tra Roberto Saviano e il ministro dell'Interno Maroni sulle dichiarazioni dello scrittore riguardo ai rapporti tra Lega Nord e 'Ndrangheta durante la trasmissione “Vieni via con me”, è stata salutata anche dal mondo politico con unanime parole di grande apprezzamento per l'operato delle forze dell'ordine e della magistratura. Per il titolare del Viminale, si “tratta di una bellissima giornata per la lotta alla mafia”, mentre il presidente del Senato e quello della Camera hanno inteso soffermarsi sui risultati raggiunti nella lotta alla criminalità organizzata. “Anche questa ulteriore cattura dimostra che lo Stato c'è e che le Istituzioni sono unite nella lotta al crimine”, ha detto Renato Schifani, mentre Gianfranco Fini ha ribadito che “la lotta alla criminalità organizzata è uno degli obiettivi primari cui tendere, senza mai abbassare la guardia”.
Il Guardasigilli, Angelino Alfano, ha invece annunciato di essere pronto, fin da subito, a firmare la richiesta di regime di carcere duro nei confronti del capo-camorra: “Una ulteriore conferma - ha aggiunto il ministro della Giustizia - che la squadra Stato vince e l'antimafia giocata batte quella parlata”.
(Pubblicato su "Il Sole24Ore" del 18 novembre 2010)

mercoledì 11 agosto 2010

Vita violenta del boss Paolo Di Lauro


Il primo capitolo tratto dal mio libro "L'impero della camorra - Vita violenta del boss Paolo Di Lauro", in uscita in autunno in versione economica per i tipi della Newton Compton

«Aniello, scendi, c’ho quella roba per te».
«Va bene, aspettami vicino al cancello. Ma è sicuro che è roba buona?».
«Gioielli, oro, brillanti… è un affare. Muoviti, sto qua sotto…».

Tutto inizia così. Con uno squillo al citofono e una sventagliata di mitra. Aniello La Monica ha poco più di quarant’anni quando viene ammazzato all’uscita di casa. È il boss di Secondigliano, fa parte della Nuova famiglia, il cartello che si oppone all’“esercito” di Raffaele Cutolo. Ma non è il padrino di Ottaviano, che pure ne avrebbe tutti i motivi, a spedirlo al camposanto. La Monica è la prima vittima di un nuovo gruppo criminale che ha lanciato la scalata ai vertici della camorra. Viene assassinato da quelli che considerava i suoi figli, tradito da quelli di cui più si fidava, perché anche un camorrista si deve fidare di qualcuno. E La Monica si era fidato delle persone sbagliate.

«Dottore, se non ricordo male, La Monica venne prima investito e poi ucciso con pistole e kalashnikov. Mi raccontarono che dopo avergli dato la prima botta, uscirono tutti e quattro dalla macchina e iniziarono a sparare mentre ancora stava barcollando. Non gli diedero il tempo nemmeno di cadere a terra…». A distanza di vent’anni, un pentito sta raccontando che cosa avvenne quel giorno a Secondigliano, in una filiera di ricordi che lo avrebbero portato a ricostruire, in una stanza insonorizzata all’ottavo piano della Procura della Repubblica di Napoli, le fortune e i misteri del padrino più enigmatico della malavita partenopea: Paolo Di Lauro.
«Ma chi lo uccise e perché?», gli domandò il magistrato, sedendogli affianco e porgendogli un foglio e una penna per fermare sulla carta le immagini che la memoria non sarebbe riuscita, dopo così tanto tempo, a far affiorare.
«Dottore, statemi a sentire, che la storia è lunga. Chiamate il brigadiere e ditegli di portarmi un bel caffé, che dobbiamo parlare parecchio. Oggi e domani e pure dopodomani. Mettete una cassetta nuova nel registratore e ascoltate quello che vi dico, perché non so se avrò la possibilità di ripeterlo».
Il magistrato si alzò e si diresse verso la porta. Lanciò uno sguardo lungo il corridoio su cui si affacciavano gli uffici della Direzione distrettuale antimafia e si assicurò che la porta fosse ben chiusa. Poi si sedette di nuovo. Chiamò a verbalizzare un agente di polizia di cui si fidava. Questi inserì il foglio nella macchina da scrivere elettronica e – con i due indici – iniziò a battere freneticamente, sotto dettatura, la formula iniziale del verbale di collaborazione: “Immediatamente dopo la mia cattura, a seguito del provvedimento emesso da codesto Ufficio, avuta contezza del livello elevato delle conoscenze al quale erano giunti gli organismi investigativi, ho trovato la necessaria determinazione per rompere in maniera definitiva con l’ambiente criminale nel quale sono vissuto fin dai primi anni Ottanta”.
Inizia il racconto.
***
«Ha visto che dice il giornale oggi?», domandò l’ispettore capo del commissariato di Secondigliano al suo dirigente, appoggiandogli la copia del Mattino sulla scrivania piena di carte e pacchetti di sigarette semivuoti. Erano i giorni della paura a Napoli, i giorni della furia omicida delle batterie di fuoco della Nco e delle condanne del tribunale del popolo delle Brigate rosse contro giudici e politici.
«L’ho letto stamattina, tre giorni di lutto nel quartiere per la morte del padrino che odiava la droga. Bella figura che ci facciamo. A proposito, le indagini a che punto stanno? La Procura ha fatto sapere qualcosa?»
«Dicono che è un regolamento di conti interno, ma su La Monica procede la squadra mobile. Tutto come al solito, nessuno ha visto. Nessuno si è accorto di niente. Teniamo gli occhi aperti, perché qua ho l’impressione che succede la terza guerra mondiale».
Erano da poco passate le settimane convulse del sequestro dell’assessore regionale Ciro Cirillo, cassiere democristiano dei fondi del dopo-terremoto, rilasciato grazie alla mediazione di Cutolo e al pagamento di un ricco riscatto ai terroristi, e il clima era peggiorato, se possibile, con la pubblicazione sull’Unità del falso documento del ministero dell’Interno che riportava i termini della trattativa tra Stato e camorra per la liberazione del politico dc. Documento falso nella forma, ma verissimo nella sostanza.
«Adesso ti compri pure i giornali comunisti? Ma tu non votavi a destra…», scherzò l’ispettore quando il collega tirò fuori da un cassetto dell’armadietto la copia del quotidiano.
«Tu devi sapere che i comunisti le notizie le sanno in anticipo e poi hanno agganci dovunque…», rispose l’altro sorridendo. In quel momento, entrò nella stanza un poliziotto con il mattinale, l’elenco delle denunce raccolte nel week-end precedente. Era un lunedì mattina. Un paio di paginette dattiloscritte, piene zeppe di furti, rapine, scippi, aggressioni. Finanche un tentato omicidio: un uomo aveva tentato di stuprare la vicina a colpi di spranga.
A Secondigliano e Scampia gli echi dei grandi fatti di cronaca arrivavano attutiti, come se i due rioni non avessero titoli per partecipare a ciò che di importante avveniva in città. In effetti, a quel tempo la grande criminalità organizzata considerava i quartieri della cinta extraurbana partenopea un po’ come un vivaio di giovani delinquenti al quale attingere in caso di necessità per i lavori sporchi. I secondiglianesi non avevano pedigree criminale, erano un po’ come i corleonesi di Totò Riina e Bernardo Provenzano, “viddani”, gente di campagna. Spietata, ma con il cervello di una gallina.
«Che cosa abbiamo oggi?», riprese a parlare l’ispettore, prendendo la copia del mattinale dalla scrivania.
«Guarda tu stesso, è una carneficina. A proposito, domani andiamo a fare qualche domanda in giro per il fatto di La Monica, cerchiamo di capire», tagliò corto il dirigente, mettendo di nuovo a posto la copia dell’Unità.

In quelle stesse ore, in via Cupa dell’Arco, a poche centinaia di metri in linea d’aria dal presidio di polizia, era stata convocata una riunione. Uno degli invitati, Domenico Silvestri, detto “Mimì ’a svergognata”, fece per prendere posto a capotavola, quando una mano gli avvinghiò il braccio e glielo strinse. Era Raffaele Prestieri, che gli ricordava che quel posto era occupato.
«Ti devi sedere tu?», rispose sorpreso Silvestri.
«No, ma è meglio che ti metti qua, affianco a me. Là no», disse Prestieri spostandogli la sedia sul lato lungo del tavolo.
La porta di ingresso del salone si aprì lentamente. Il padrone di casa entrò e si sedette al posto d’onore. Accese una sigaretta e chiamò la cameriera, che subito dopo gli portò una bottiglia di champagne Veuve Cliquot e una manciata di bicchieri di cristallo. Al piano di sotto, nella villetta, c’era una bella cantina con tanti vini e liquori raffinati, alcuni dei quali fatti arrivare direttamente da Parigi. La pressione delle bollicine spinse fuori il tappo di sughero che finì contro le tende e rimbalzò a terra, fin sotto il tavolo.
«Pace all’anima di Aniello La Monica. Speriamo che da lassù ci assista e ci aiuti», dissero in coro. Poi tutti brindarono guardandosi negli occhi.

***

Il solito giro di perlustrazione, i soliti controlli. Via Bakù, i Sette Palazzi, la villa comunale: la volante del commissariato quella sera avanzava con la seconda marcia innestata e il lampeggiante che proiettava un fascio di luce azzurra sulle aiuole e sulle saracinesche dei negozi chiusi.
«Guarda quel ragazzo là, sta correndo. Ha buttato un sacchetto di plastica sotto la macchina. Raccoglilo e poi inseguilo», urlò all’improvviso il capo-turno al poliziotto alla guida, che accese la sirena e inserì la terza.
Ormai di scene simili ce n’erano a decine ogni giorno, in ogni angolo del rione; Secondigliano e Scampia, se non conosci le strade, sono peggiori dei labirinti. Incroci, scorciatoie, passaggi nascosti da un vicoletto all’altro e poi paletti installati dovunque, come a voler disegnare una mappa nota soltanto a pochi, agilissimi corridori.
L’inseguimento era durato non più di una manciata di secondi, perché il giovane, convinto di trovarla aperta, era andato a sbattere contro una porta di ferro che chiudeva l’entrata secondaria di un condominio. La sua corsa era terminata lì, con una spalla indolenzita e un paio di manette ai polsi.
La volante era tornata in commissariato con il nuovo “ospite” a bordo a fine turno.
«Come ti chiami?», gli chiese l’ispettore, mettendosi a sedere alla scrivania nel suo ufficio, dove la relazione di servizio aspettava soltanto la sua firma.
«Che vi interessa? Chiamatemi l’avvocato, che con voi non parlo più. Qua sta il numero», rispose spavaldo il ragazzo. Aveva circa venticinque anni. Corporatura slanciata, con il giubbotto imbottito, su una polo verde con il coccodrillo, e il jeans stracciato. In tasca gli avevano trovato cinque dosi di eroina confezionate con la carta stagnola e duecentomila lire in banconote di piccolo taglio. Era il terzo arresto della giornata. Uguale al secondo e al primo.
Gli agenti chiamarono il legale indicato dal giovane, il quale spedì negli uffici della polizia un collaboratore a sbrigare le formalità della nomina. Il ragazzo si rimise in tasca il pezzo di carta stropicciato su cui qualcuno gli aveva scritto il numero di telefono del penalista e si avviò, sotto scorta, a Poggioreale. Ridendo.
«Hai notato che chiamano tutti gli stessi avvocati?», domandò il dirigente del commissariato all’uomo che aveva arrestato lo spacciatore.
«Sì e che significa, secondo te?», gli rispose l’agente, rovistando nella busta che aveva recuperato sotto l’auto. All’interno c’erano altri soldi, circa cinquantamila lire, un paio di accendini e delle cannucce, di quelle utilizzate per le bibite in lattina. Bisognava aggiornare la relazione di servizio.
«Significa che stiamo davanti a qualcosa, o a qualcuno molto più grande di quanto immaginiamo. Teniamo gli occhi aperti», chiuse la discussione il dirigente.
Tra il 1982 e il 1984 avviene la trasformazione che segnerà per sempre il destino di Secondigliano e di Scampia: i terremotati, centinaia di famiglie che avevano perso il tetto a causa del sisma, vengono stipate nelle Vele, gli alveari-dormitorio progettati dall’architetto Franz Di Salvo con l’intento di favorire l’integrazione tra i nuclei familiari ma che diventeranno, invece, l’incubatrice di un’illegalità feroce e assassina. Il sogno utopistico di un quartiere modello, a misura d’uomo, con grandi parchi e spazi verdi a dividere le aree abitate, rappresentò in realtà la conformazione urbanistica perfetta per il crimine organizzato.
Subito dopo l’uccisione di La Monica, il sismografo dell’ordine pubblico a Secondigliano aveva subito un’impennata: erano aumentati scippi, rapine e casi di estorsione ai negozianti. L’ufficio denunce del commissariato, che prima era frequentato poco, molto poco dai residenti, era diventato d’un tratto affollatissimo e dalla questura di via Medina avevano dovuto inviare uno dei primi modelli di macchina da scrivere elettronica per velocizzare il lavoro.
Si stava sviluppando la più grande trasformazione economico-criminale della storia della camorra; il contrabbando di sigarette – fonte inesauribile di ricchezza per migliaia di manovali dell’illegalità – era sul punto di cedere il passo al traffico internazionale di stupefacenti. Accanto alle bancarelle con le stecche di Marlboro e di Merit in bella mostra, poco più in là, a poche decine di metri, iniziavano a comparire i primi spacciatori, pronti a rifornire di eroina e marijuana i giovani in cerca di emozioni forti. E con loro apparvero pure le vedette e i guardiani.
La faida tra Raffaele Cutolo e la Nuova famiglia aveva portato alla distruzione di un modello criminale feudale, incapace di proiettarsi nell’economia nazionale e internazionale, confinato ancora negli angusti steccati del racket e del traffico di armi. Un modello al quale sarebbe presto subentrato una organizzazione nuova nella struttura e nelle finalità, fluida, pronta a insinuarsi lungo le feritoie del tessuto socio-economico legale per distorcerne le dinamiche e per indirizzarne i meccanismi.
Allora però nessuno se ne accorgeva, perché quello era il periodo della guerra e non degli affari. Bisognava soltanto eliminare il nemico, infliggergli più male possibile. Non soltanto impedirgli di riprendere le armi, ma annientarlo.
«Ma quelli erano altri tempi, dottore. Ogni giorno un cutoliano ammazzava uno dei nostri e noi rispondevamo con due dei loro. Aniello La Monica, non so perché, ma ce l’aveva a morte con i cutoliani. Se avesse potuto buttare una bomba atomica su Ottaviano, l’avrebbe fatto. Ogni mattina, ci incontrava davanti al bar e ci diceva: “Ragazzi, ricordatevi di colpire i nemici ovunque vi troviate. Non gli dobbiamo dare il tempo di respirare”. Addirittura aveva intitolato un negozio di abbigliamento, vicino casa sua, con il nome della sua pistola preferita: Pyton. La Monica era proprio come un serpente. Un pitone, appunto. Faceva paura solamente a guardarlo». Il pentito non aveva smesso un attimo di ripercorrere con la mente i suoi trascorsi criminali, gli inizi del clan; di tratteggiare la figura delle persone con cui era cresciuto e con cui aveva conosciuto la galera.
Il magistrato ascoltava in silenzio e ogni tanto annotava una data, un nome sull’agendina Moleskine che custodiva nella tasca interna della giacca. «Ma come campava La Monica? Quali erano le sue fonti di reddito, anche lui gestiva il traffico di droga?», chiese al collaboratore, interrompendolo giusto il tempo per cambiare lato alla cassetta.
«Campava come tutti, a quel tempo. Faceva il contrabbando di sigarette con Michele Zaza, di cui era fraterno amico, e con Fiore D’Avino, uno di Nola mi sembra. Non era una cattiva persona, era un padrino vecchia maniera: non ha mai mandato indietro nessuno che volesse lavorare per lui. Poco prima di morire, pagava lo stipendio a ottanta famiglie, compresa la mia. Fu lui a inventare la vendita porta a porta delle lenzuola per i corredi nuziali, affidandola alla rete di magliari che partiva da Secondigliano e arrivava fino in Germania e in Francia. Con questo sistema, faceva un sacco di soldi puliti. Ma pure quell’idea gli hanno rubato, oltre al comando. La droga non la voleva nel suo territorio, anche se era consapevole che per quella polverina bianca ci avrebbe rimesso la pelle, prima o poi. E su questo punto, molto spesso si scontrava con gli altri del gruppo di Paolo Di Lauro».
Il contatore riprese a girare e il pentito dovette fare uno sforzo di memoria per riprendere il filo del discorso dove l’aveva lasciato prima dell’interruzione. Ma prima di continuare a parlare delle origini del clan Di Lauro e della malavita a Secondigliano negli anni Ottanta, pensò bene di arricchire le sue confessioni con un episodio che conoscevano in pochi.
«Ora vi racconto una cosa, dottore», proseguì, dopo aver bevuto tutto d’un sorso il caffè che gli avevano portato. Guardò negli occhi il magistrato e sorrise di un sorriso amaro. «Però dovete credermi sulla parola, perché alcune cose che vi dico non le posso provare».
«Dimmi, ti ascolto», ribatté il magistrato, approfittandone per segnare un altro paio di righe di appunti sull’agendina.
«Lo sapete che un giorno Di Lauro disse vicino a uno dei Giuliano, mi sembra Guglielmo, se voleva giocare a poker?».
«E qual è il problema, che c’è di strano?»
«Il piatto di apertura lo sapete di quant’era?». E si mise ad attendere la risposta che, sapeva, non avrebbe mai potuto essere quella giusta.
«No», rispose incuriosito il pm.
«Due miliardi di lire. In contanti». E stette con l’aria soddisfatta ad attendere il ghigno di incredulità sul volto del suo interlocutore, come ben si aspetta chi fa partecipe un altro di una confidenza che, altrimenti, gli sarebbe stata sempre negata.
«Queste cose non mi servono per il processo», tagliò corto il magistrato, «e poi nel mondo della malavita molto spesso si esagera nei racconti e un granello di sabbia diventa una slavina. Continuiamo con l’interrogatorio».
«Due miliardi in contanti», ripeté il pentito, come se il richiamo del magistrato non ci fosse mai stato, «due miliardi contenuti in una borsa di tela rossa. La posò sul tavolo e disse a Giuliano: “Se proprio vuoi giocare, fatti una partita con me…”. Comunque, ho capito che queste cose non vi interessano, ma per me sono importanti. Dove eravamo rimasti? Ah, sì…»

Erano passate già un bel po’ di settimane dall’omicidio di La Monica, quando a Secondigliano arrivò un messaggio da Poggio Vallesana, la tenuta terriera dei Nuvoletta, una delle famiglie malavitose più potenti della Campania, soci in affari con i mafiosi palermitani.
«Paolo, i maranesi ci hanno chiesto se possiamo andare a trovarli», disse Mimì Silvestri con un pizzico di soddisfazione, perché era il segnale che il giro grosso stava iniziando a interessarsi di loro. «Ci devono parlare di una cosa importante, importante assai…».
«Va bene, organizza un’auto e ci andiamo», gli rispose Di Lauro, accendendosi l’ennesima sigaretta, sprofondato sul divano di casa.
«Come la vogliamo organizzare, chi chiamiamo?»
«Non voglio nessuno armato, sia chiaro. Andiamo io, tu, Rosario, Raffaele ed Enricuccio. E una macchina di appoggio».
«Va bene». Silvestri uscì dalla stanza al piano terra della villa in via Cupa dell’Arco e iniziò a contattare gli altri. Ci mise poco, perché li trovo all’incrocio con corso Secondigliano a parlottare. Erano tutti amici di infanzia di Di Lauro; erano cresciuti con lui e con lui si erano sbarazzati dell’ingombrante presenza di La Monica.
Appena seppero della convocazione, risalirono in auto e si diressero a casa del boss. Dal cancello sbucarono poco dopo una Lancia Delta integrale e una Mercedes, dove sedeva – sul lato posteriore destro – il padrino. L’altra macchina stava davanti a fare strada. Da Secondigliano a Marano saranno stati, sì e no, dieci minuti di viaggio, ma sembrava di non arrivare mai. L’emozione tradiva anche quelli più freddi, perché loro erano una piccola formazione, senza santi in paradiso, con tanta buona volontà e poca esperienza nel settore degli stupefacenti. Avevano iniziato a guadagnare qualcosina con una paranza di una decina di spacciatori, ai quali affidavano dosi di eroina e hashish a cadenza settimanale. Un giro di affari rionale, niente di più. La droga la compravano attraverso i trafficanti del rione Traiano e di Ercolano – le due piazze di spaccio più importanti di Napoli – e la rivendevano a prezzo maggiorato nelle stradine del quartiere, lucrando una piccola percentuale.
Le due auto con a bordo Di Lauro e gli altri imboccarono una stradina sterrata, che si apriva sulla destra della via principale. Percorsero quasi cinquecento metri prima di arrivare a un grande cancello, dove – ad attenderli – c’erano le sentinelle del boss.
«L’avete risolto quel problema, eh?», disse il capo-decina di Marano, andando incontro agli ospiti. Il “problema” a cui si riferiva era Aniello La Monica. «Sì, per fortuna», rispose sbrigativamente uno di loro. Parcheggiarono le vetture poco distante l’ingresso e si incamminarono.
«Don Lorenzo, abbiamo fatto il prima possibile», annunciò Raffaele Abbinante, baciandogli le due guance appena entrato nella villa del boss. Abbinante era nato a Marano ed aveva iniziato a lavorare nel crimine proprio con la famiglia Nuvoletta, con i quali – nel tempo – aveva mantenuto stretti rapporti.
«Dobbiamo parlare di cose importanti, seguitemi», rispose il vecchio padrino, attraversando un corridoio su cui campeggiavano quadri dell’Ottocento napoletano. Uno in particolare attrasse l’attenzione di Paolo Di Lauro, che sostò a guardarlo. «Anche a me piacciono i quadri», aggiunse, riprendendo il passo.
La delegazione del clan di Secondigliano e don Lorenzo Nuvoletta uscirono dal retro dell’abitazione, circondata dalle campagne, e si addentrarono su per un viottolo che portava a una masseria. Lì si accomodarono, attorno a un tavolo, per discutere. In passato doveva essere stata una stalla, perché c’erano ancora gli abbeveratoi.
«Il contrabbando di sigarette è il passato», disse l’anziano mafioso. «Quel mondo non è più il nostro. Ci dobbiamo aggiornare. Ma in grande stile. E io so come».
Paolo Di Lauro osservava in silenzio ogni parola scandita da quella bocca rigata dai segni del tempo. Ascoltava e rifletteva, perché il vecchio boss stava per rivelargli la chiave per diventare i nuovi padroni della città. Mangiarono un po’ di pane cotto a legna e del formaggio, conservati in una dispensa poco distante. Un pasto mafioso, come quelli che si consumavano in qualche sperduto podere nel cuore della Sicilia, a Corleone o a Bagheria.
«E questo è l’accordo, però io pretendo una sola cosa», disse il capo dei maranesi, guardando diritto in faccia ognuno dei suoi interlocutori.
«Sulla nostra lealtà possiamo giurare con il sangue», rispose Di Lauro. Gli altri stettero in silenzio. E annuirono. «Don Lorenzo, quello che ci dite di fare, faremo».
«Questo volevo sentirvi dire. Ci vediamo la settimana prossima, vi faccio arrivare io l’“ambasciata” e ci organizziamo». La seduta fu tolta all’istante. Il gruppetto uscì dalla masseria e si avviò lungo la strada che tagliava a metà la proprietà terriera dei Nuvoletta, mentre le vedette del clan – nascoste chissà dove, tra i cespugli o affianco alle rocce – si lanciavano fischi l’un l’altra per segnalare il passaggio del padrino. Di Lauro e Nuvoletta si salutarono con il bacio sulle due guance. Il vecchio padrino gli batté una mano sulla spalla e gli ricordò il prossimo appuntamento.
«Quello è uno che farà strada», si lasciò andare don Lorenzo con il suo “consigliori”, appena gli ospiti furono andati via. «E’ intelligente, ha ascoltato ciò che dicevo senza battere ciglio. È serio, mi piace».
In auto, tutti parlavano e discutevano di ciò che avevano appena ascoltato. Solo Di Lauro non aprì parola per tutto il tragitto di ritorno, quando – giunto sotto casa – invitò gli altri a salire.
Davanti al tavolo dove avevano brindato alla memoria di Aniello La Monica, li guardò negli occhi e li fece promettere che nessuno al mondo avrebbe rotto il patto che stavano per fare.
«D’ora in poi siamo una sola famiglia. Da oggi, siamo fratelli. Il sangue di uno è il sangue di tutti». Gli altri ripeterono la formula.

«I Nuvoletta non sono camorristi, non so se mi spiego. Dottore, è una cosa diversa. Marano è come Corleone, come Palermo. È la Sicilia a Napoli. Con quelli non si scherza, sono pericolosissimi. Mi ricordo, addirittura, che tentarono di uccidere il comandante della Stazione di Marano, che rimase ferito, perché stava iniziando a dare troppo fastidio con le sue domande in giro. Ma questo non è niente, sapete che ci stanno i poligoni di tiro nascosti tra le montagne per far allenare i killer? A Marano, tanto tempo fa, venne pure quello che uccise il dottore Falcone, come si chiama, Brusca…». Il pentito riprese il filo dei ricordi, cercando di inserire quante più informazioni possibile in quel verbale.
«Giovanni Brusca, il capo dell’ala militare dei corleonesi…», aggiunse il magistrato, che ben conosceva i brutali metodi di occultamento dei cadaveri praticati dalla cosca di Poggio Vallesana e che, per un certo periodo, tempo addietro, aveva pure indagato sui Nuvoletta. Poi aveva dovuto abbandonare, perché la sua inchiesta era stata accorpata a quella sull’uccisione del giornalista del “Mattino”, Giancarlo Siani. Ricordava ogni dettaglio dell’indagine sull’omicidio del giovane cronista, ogni verbale di interrogatorio, ogni passaggio di quella intricatissima vicenda, che sembrava non finire mai tanti erano i tasselli da dover sistemare. In particolare, gli era rimasta impressa la frase di apertura della requisitoria del pm Armando D’Alterio nel processo di primo grado, che recitava: «Poggio Vallesana è il regno del male, pregno degli umori dei cadaveri dissolti nell’acido». Un attacco sbalorditivo e carico di un simbolismo, che ora gli ritornava in mente a sentir parlare di Lorenzo Nuvoletta e dei suoi affiliati.
«Esatto», riprese il collaboratore di giustizia, «Brusca venne chiamato dalla Sicilia perché doveva insegnare ai maranesi come si sciolgono i cadaveri nell’acido solforico. Se vi recuperate il giornale, lo potete pure leggere. Oppure, telefonate a qualche vostro collega di Palermo. Là pure sanno tutto di don Lorenzo e della famiglia».
Il gruppo di Poggio Vallesana, infatti, è stato al centro delle inchieste di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino per i suoi contatti con Totò Riina, Michele Greco e Leoluca Bagarella: in pratica, dicono le indagini, Lorenzo Nuvoletta era l’unico non siciliano a sedere nella commissione regionale di Cosa nostra, al pari di boss del calibro di Stefano Bontade, Luciano Liggio, Gaetano Badalamenti e Salvatore Inzerillo. I maranesi trafficavano in sigarette di contrabbando con Cosa nostra, sul finire degli anni Settanta, ma non solo: la loro grande intelligenza criminale è stata la capacità di riciclare il denaro sporco, investendolo in società “pulite” per immettersi nel mercato legale, soprattutto nel campo dell’edilizia abitativa e del commercio all’ingrosso. Il loro impero economico è cresciuto a dismisura negli anni, fino a rappresentare una seria minaccia per Cutolo prima e per Bardellino e Alfieri poi, con i quali hanno ingaggiato sanguinose battaglie.
«Perché, dottore, vi dovete mettere in testa una cosa. Il clan di Marano era organizzato come una cosca mafiosa. Avete mai visto il Padrino, il film? Ve lo ricordate quello che stava sempre al fianco di Marlon Brando, l’avvocato? Ecco, quello era il “consigliori”. In America era laureato, faceva l’avvocato ed era una persona istruita. A Marano, forse, il “consigliori” la laurea non ce l’aveva, ma contava parecchio lo stesso. I Nuvoletta erano temuti perché si comportavano da mafiosi, oltre ad avere amicizie tra i mafiosi. Ma voi ve l’immaginate una mezza chiavica di camorrista che si fa a cocaina e che tiene il consigliori? Non è credibile, perché gli manca la stoffa. A Poggio Vallesana, invece, c’era grande rispetto per il ruolo, proprio come a Palermo, a Catania, a Trapani. E il capo-decina dei Nuvoletta fungeva pure da “consigliori”». Ormai il pentito non aveva più bisogno di segnare su carta le parti importanti dei suoi ricordi, quelle su cui sarebbe dovuto tornare per aggiungere qualche particolare utile alle indagini. La sua memoria era di ferro: non gli sfuggiva un fotogramma di quegli anni ormai avvolti dalla nebbia del tempo. E raccontava con grande partecipazione, come farebbe chi prova ancora adrenalina per quello che ha avuto la fortuna di vedere con i propri occhi.
«E qual era il suo ruolo, il ruolo di questo capo-decina, intendo. Che faceva?», s’informò il magistrato, incuriosito dal parallelo con “Il Padrino” di Francis Ford Coppola, il suo film preferito.
«Era l’anello di congiunzione tra il boss e gli affiliati. E dava i consigli al padrino su come comportarsi in certe situazioni. Quando bisognava fare la guerra e quando no, in che cosa investire, cose del genere. E quei consigli erano molto ascoltati», ribadì il pentito.
Era quasi sera, ormai. Il parcheggio della procura al Centro direzionale si stava lentamente svuotando. Il pm si avvicinò alla finestra e scrutò l’orizzonte colorato dall’arancione del tramonto. L’interrogatorio andava avanti da tempo, ormai: c’era ancora il tempo per un’ultima domanda, poi il collaboratore di giustizia sarebbe tornato in carcere.
«Ma ora dimmi una cosa, perché decisero di eliminare La Monica? Mi devi spiegare punto per punto», iniziò a parlare il magistrato, «poi interrompiamo e riprendiamo domani pomeriggio, perché di mattina sarò impegnato in udienza».
«Ora vi spiego, con un po’ di calma. Mi dovete solo ascoltare…» replicò il pentito, chiedendo un bicchiere d’acqua. «Dobbiamo soltanto tornare indietro di qualche mese».

«Hai ricevuto l’“imbasciata”? Stasera ci dobbiamo vedere a casa di Paolo. Ci deve parlare di una cosa molto importante», disse Paolo Micillo a Raffaele Abbinante. Erano fermi al Quadrivio di Secondigliano, vicino a un bar.
«Lo so di che ci deve parlare. La Monica sta rubando dalla cassa comune, si sta prendendo i soldi del contrabbando che gli passa Zaza e non li sta mandando ai carcerati», gli rispose l’altro, intento a guardare se arrivava la polizia. Non erano armati, ma due pregiudicati fermi in strada attirano comunque l’attenzione.
«E tu ci credi? Io no», riprese Micillo.
«Me l’ha confermato Paolo l’altro giorno. Ha fatto i conti e non si trova».
«E Mimì Silvestri che ne pensa?».
«Niente, che deve pensare: quello che dice Paolo per lui è legge. E me l’ha confidato personalmente: “Se Paolo ha fatto i conti, non ha sbagliato lui. Sono i conti che sono stati sbagliati. E Aniello li sta sbagliando apposta”. A proposito, ora lo vado a prendere sopra la Vanella. Ci vediamo più tardi…».
Finita la conversazione, Raffaele Abbinante salì in auto e si avviò all’appuntamento con Paolo Di Lauro. Non sapeva che appena mezz’ora prima, Aniello La Monica aveva decretato la loro morte, ormai convinto che non ci fossero più margini di trattativa con quel gruppetto di giovani assetati di soldi e di potere, che volevano a tutti i costi costringerlo a inondare di droga i suoi territori. Lui, questo, non l'avrebbe mai permesso. A Secondigliano, finché aveva respiro, avrebbe comandato solo e soltanto lui.
«Oggi pomeriggio saranno insieme a via Cupa dell’Arco. Me li dovete togliere da mezzo, stanno diventando giorno dopo giorno sempre più pericolosi. Questo è il numero di targa dell’auto di Abbinante e il modello. E ora muovetevi», aveva ordinato il padrino, trincerato nel suo appartamento. I killer - due giovani di Caserta - lo avevano tranquillizzato sull'esito della spedizione e, incassati i soldi, erano saliti in sella. La caccia era aperta. Su una moto Henduro, i sicari avevano iniziato a perlustrare il vialone che costeggia, parallelo, via Cupa dell’Arco. Come gli squali che chiudono a cerchio la preda in spirali sempre più piccole, così i due assassini prezzolati, incaricati dal vecchio padrino di abbattere i traditori, si avvicinavano alle vittime. Incrociarono l’auto dove viaggiavano Abbinante e Di Lauro da lontano. La riconobbero e ne seguirono la tracce fin sotto la casa di La Monica, per poi tornare indietro. A distanza di tiro, il conducente diede una boccata di carburante al motore della Henduro, perché il rombo dei pistoni coprisse il rumore dei colpi di pistola. Ma qualcosa andò storto. Abbinante si accorse appena in tempo dell’agguato, lanciò uno sguardo nello specchietto retrovisore e imboccò una scorciatoia. I killer accelerarono e iniziarono a sparare in strada, all'impazzata. A quell’ora, via Cupa dell’Arco era quasi deserta per fortuna. L’auto sbandò, ma Abbinante riuscì a tenere fermo il volante e a scappare verso corso Secondigliano, dove lui e Di Lauro si sarebbero sentiti al sicuro tra la gente. Il rumore delle detonazioni aveva attirato una volante in perlustrazione in zona, che accese la sirena e raggiunse il luogo dell’agguato. Troppo tardi. I sicari erano già fuggiti, ma i proiettili, comunque, avevano raggiunto l’abitacolo.

Il sole era tramontato e il parcheggio vuoto. Il magistrato ordinò al poliziotto di sospendere la verbalizzazione e di sistemare le audiocassette nella cassaforte. Avrebbero continuato l’indomani.
«Si salvarono per miracolo. Di Lauro rimase illeso. Abbinante, invece, dovette essere ricoverato al Cardarelli. Era stato ferito», tagliò corto il pentito, stanco. Aveva parlato per più di cinque ore, senza fermarsi mai, bevendo solo un bicchierino di caffè.
Il giorno dopo, il collaboratore di giustizia si era attrezzato, a suo modo: aveva chiesto un paio di panini e una bottiglia d’acqua minerale in vista della lunga giornata di confessioni. Alle 14.30 precise, il pubblico ministero entrò nella stanza con il pc portatile e il registratore per riprendere l’interrogatorio. Prima di partire, però, lanciò uno sguardo ai titoli del giornale che aveva comprato l’agente, che lo stava attendendo per riprendere l'interrogatorio. C’era scritto, a caratteri cubitali, “Mattanza a Secondigliano”. Tre morti in un giorno: una passante, soltanto grazie alla fortuna, non era rimasta coinvolta nella sparatoria.
Il collaboratore incrociò lo sguardo del magistrato e disse: «Con Paolo Di Lauro una cosa del genere non sarebbe mai accaduta». E scosse il capo, come a rimpiangere i bei tempi andati.
Il magistrato sistemò tutto e aprì di nuovo l’agendina Moleskine. Sfogliò le ultime pagine, su cui aveva annotato le proprie riflessioni, e fece segno al poliziotto di iniziare. «E poi che cosa successe dopo l’agguato?», chiese, mentre il contatore del registratore riprendeva il suo lento giro.
«Che l’appuntamento di quella sera saltò, naturalmente», rispose il collaboratore di giustizia, che si era appuntato sul foglio di carta da dove riprendere il discorso. «Ma nessuno aveva il coraggio di accusare l’altro né dell’agguato né della questione dei soldi mancanti. Ognuno fingeva, dal lato suo, e si dimostrava amico con tutti. La Monica era convinto che la prossima volta sarebbe andata meglio e che i killer non avrebbero sbagliato mira, Di Lauro sapeva che la prossima volta per La Monica non ci sarebbe stata. Ormai uno dei due era di troppo a Secondigliano».
«Ma realmente La Monica rubava dalla cassa comune?»
«Mah, questo io non lo so. Si diceva che non mandava più i soldi ai carcerati coi vaglia postali. E questo era un compito di Paolo, i soldi passavano tutti per lui, quindi solo lui può confermare, o smentire. Posso dirvi quello che penso io, dottore: sono convinto che fu più la paura a far uccidere La Monica che la voglia di potere. La Monica era sospettosissimo e più di ogni altro temeva proprio Di Lauro, perché era il più intelligente tra di noi. Di Lauro l’aveva capito e, forse, agì prima che finisse lui sotto terra. Era un gioco di velocità».
«Perché La Monica temeva Di Lauro?», si incuriosì il magistrato.
«Lo sapete come si dice: il coraggioso teme il furbo e il furbo teme il violento. Paolo era quello che La Monica voleva essere: freddo, calcolatore, astuto e capace di tenersi lontano dai guai. Di Lauro non lo hanno mai sorpreso con una pistola, non girava armato. Non partecipava alle risse, non era un attaccabrighe. Sempre educato, sempre con la sigaretta tra le mani. La Monica lo sapeva che Mimì Silvestri, quando si incazzava, era incontenibile. Di Lauro non si incazzava mai, ma era molto più pericoloso, perché navigava sott’acqua e anche la storia dei soldi che mancavano potrebbe essere una sua invenzione. Perché era cosciente del fatto che solo puntando sul denaro avrebbe potuto convincere gli altri affiliati ad ammazzare La Monica, o - in alternativa - a non vendicarlo».
«Ho capito, riprendiamo il racconto».

Il giorno dopo il fallito attentato, Di Lauro convocò i suoi amici più fidati e mandò un’“imbasciata” ai Nuvoletta. Abbinante non c’era, perché si trovava ancora in ospedale. Una pallottola gli aveva trafitto la spalla e necessitava di almeno una settimana di riposo. Il messaggio di ritorno da Marano arrivò direttamente in serata. Era l’autorizzazione che Di Lauro attendeva, da parte dei Nuvoletta, per poter uccidere La Monica; una precauzione necessaria a causa dei legami del vecchio boss con Michele Zaza e, tramite questi, con la famiglia Gambino di New York.
Erano tutti nella villa di Di Lauro, in via Cupa dell’Arco. Ormai era in atto una faida. E di questo avevano consapevolezza. Il più deciso era Mimì Silvestri. «Allora è tutto pronto, dobbiamo soltanto decidere chi viene con me», prese a parlare all'inizio della riunione.
«Ma non credi che è pericoloso? E poi mica Aniello sarà così stupido da cadere in trappola? Ci sarà sicuramente un guardaspalle con lui», intervenne Raffaele Prestieri, che in quel momento più degli altri cercava di mantenere la calma e di capire quali potevano essere le alternative al sangue e ai proiettili.
«Sì, ci sarà Enzo», rispose Di Lauro. «Ma io non me ne preoccupo. Già me lo sono comprato. Rosario, domani mattina una persona ti aspetta dietro al Monterosa per consegnarti le armi. E ora non pensiamoci più e beviamo», troncò il discorso il giovane padrino.
La mattina dopo, il gruppo di fuoco composto da Paolo Di Lauro, Domenico Silvestri, Raffaele Prestieri e Raffaele Abbinante entrò nell’auto e si nascose a poche decine di metri dall’abitazione di La Monica. Un affiliato, che era passato dalla loro parte, fece da esca. Per tradire il padrino volle un milione di lire. I soldi li anticipò Di Lauro.
Citofonò a La Monica e gli chiese di scendere, perché voleva mostrargli della refurtiva che avrebbe potuto interessargli. Fu convincente, perché molto spesso – in passato – gli aveva proposto oro e diamanti da acquistare, provento delle rapine nelle gioiellerie del nord Italia. E poi era insospettabile, perché tutti nel rione sapevano che aveva paura del boss.
Quando La Monica riattaccò la cornetta, era comprensibilmente nervoso. Titubante sul da farsi: accettare l’offerta, oppure no. Il suo dubbio era anche di natura psicologica: un capo non può rinchiudersi in casa, pensava, e se oggi non esco, non avrò più la possibilità di farlo per il resto della mia vita. Sarà la mia condanna.
«Dammi la pistola», disse al guardaspalle che era con lui in casa.
«Aniello, la mantengo io. Se ci fanno un controllo, è meglio che prendono me che te. Non credi?», gli rispose pronto il “gorilla”.
«Hai ragione, scendiamo e facciamo presto che non voglio dare a nessuno l’occasione di colpirmi. Enzo, ci sono i proiettili nel tamburo?».
«Stai tranquillo, è tutto a posto».
Dopo due rampe di scale, La Monica era sul ciglio della strada. Urlò il nome del giovane che lo aveva cercato al citofono, ma non ce n’era traccia. Mosse qualche passo al centro della carreggiata, voltando le spalle alla traversa da dove sbucò a folle velocità l’auto con i killer a bordo. La Monica fece appena in tempo ad accorgersi della sgommata che si girò verso il guardaspalle. Ma Enzo, ormai, era dietro il cancello chiuso ad osservare la scena, con la pistola in pugno.
Un impatto tremendo lo travolse mentre tentava di tornare sul marciapiedi. Il muso della macchina lo tramortì, ma La Monica non cadde. Restò stordito, camminando come camminano gli ubriachi. A zigzag. Si mosse da destra a sinistra, maledicendo il nome del guardaspalle. Il commando uscì dalla vettura e finì la missione. Il primo a sparare fu Paolo Di Lauro, ma con una pessima mira.
«Tu devi fare il capo, mica il killer», scherzò qualche ora dopo Silvestri, battendogli una mano sulla spalla.
«Infatti non prenderò mai più una pistola in mano», ribatté pronto l’altro.
Così moriva Aniello La Monica, il primo capo dei secondiglianesi.
«Sono convinto di una cosa». Il dirigente del commissariato di Secondigliano ruppe il silenzio all’improvviso. Era stato il primo ad accorrere sul posto, dopo una telefonata anonima al 113 che avvertiva di una sparatoria con un morto. A terra c'era una macchia di sangue che sembrava pomodoro, tanto era denso: il corpo di La Monica era stato straziato dai proiettili. Aveva il braccio proteso verso il cancello di casa, come in un ultimo - disperato - tentativo di arrivare al sicuro.
«Sono convinto che la morte di La Monica è funzionale a un progetto, perché già da un po' di tempo avvertivo che nell’aria qualcosa stava cambiando. Sono scomparse le bancarelle dei contrabbandieri. Passa per corso Secondigliano, non ce n’è più nessuna in giro. Ora, secondo te, tutte queste persone che fine faranno?», si interrogava ad alta voce, mentre camminava lungo il marciapiedi su cui giaceva, supino, il corpo senza vita del vecchio padrino.
«Si troveranno un’altra attività, è logico», rispose un agente che veniva dalla Sicilia e che era abituato a ragionare immedesimandosi nei delinquenti a cui dava la caccia. L'ufficiale se l'era portato appresso perché si riconosceva in lui, molto intuito e modi spicci. I due poliziotti sapevano che l'esecuzione di un capoclan può segnare la fine, ma anche l'inizio di una organizzazione malavitosa. E ora osservavano quella scena straziante con tanti dubbi e una grande paura in fondo al cuore. «Il problema è capire quale sarà quest'altra attività... Non stanno nemmeno più facendo le estorsioni. I negozianti sono terrorizzati. Non sanno a chi devono rivolgersi. Hanno paura che succeda qualcosa. Due giorni fa un mio informatore mi ha chiesto se c’era in previsione qualche scarcerazione. Voleva sapere se, finalmente, qualcuno tornava a chiedere il pizzo. Perché, finora, nessuno si sta muovendo», aveva concluso il pensiero il più giovane, iniziando a raccogliere le notizie per la relazione di servizio sull'agguato.

Il giorno 1 maggio dell'anno 1982, in questa via Cupa Vicinale dell'Arco, in Secondigliano, personale della stazione dei carabinieri di Secondigliano, intervenuto a seguito di una telefonata anonima, ha rinvenuto il corpo privo di vita di La Monica Aniello, in atti generalizzato, attinto mortalmente da numerosi colpi di arma da fuoco esplosi da ignoti. Il La Monica, pregiudicato per contrabbando, reati contro la persona e il patrimonio, porto e detenzione illegale di arma da fuoco, già denunciato per il reato di associazione per delinquere e omicidio, era da considerarsi il capo-zona di Secondigliano per conto dell'organizzazione camorristica nota come "Nuova famiglia", facente capo ai noti pregiudicati Zaza Michele, Bardellino Antonio e Nuvoletta Lorenzo.
Non è stato possibile rintracciare alcun testimone, né ottenere informazioni di natura confidenziale, perché dei residenti nessuno era presente in strada al momento dell'agguato. E' probabile che il commando assassino sia giunto sul posto a bordo di un'auto, stante il ritrovamento di alcune strisce sull'asfalto provocate da una brusca frenata. A sparare sono state diverse armi da fuoco, almeno tre di calibro differente.

Pochi istanti dopo arrivò anche il capo della squadra mobile, Antonio Ammaturo, il coraggioso poliziotto che stava indagando sul sequestro Cirillo e sui rapporti tra camorra e politica. Lesse la relazione di servizio e si fermò a osservare la scena del delitto: notò che La Monica non era armato e che non c'erano i suoi uomini di fiducia in giro. Quest'assenza lo incuriosì molto, perché per gli affiliati a un clan è un dovere vegliare il cadavere del boss caduto sotto il piombo nemico. Raccolse un altro po' di materiale, utile per le indagini, e ordinò di perquisire l'abitazione di La Monica. Poi, tornò in ufficio.Il questore dell'epoca aveva un nome letterario, quasi epico, ma scarsa dimestichezza con i fatti di camorra: Walter Scott Locchi si sentiva franare sotto i piedi il terreno ogni volta che dalla squadra mobile gli telefonavano per avvisarlo di un omicidio "importante". Quello di La Monica, oltre ad essere importante era anche "anomalo". Una doppia preoccupazione per il capo della polizia napoletana omonimo dello scrittore scozzese creatore di Ivanhoe, il cavaliere senza macchia e senza paura.

martedì 20 luglio 2010

La storia di Cesare "Paciotti" Pagano

Detto “Paciotti” per la sua sfrenata passione per le scarpe, in particolare quelle fabbricate dal suo omonimo, Cesare Pagano, 42 anni, il capo del clan degli “scissionisti” arrestato stamane dalla polizia di Napoli dopo una latitanza durata circa un anno, era nascosto in una villa in compagnia del nipote, soprannominato “Angioletto”, e del genero. Al momento dell’arresto, i tre non hanno opposto resistenza.

Iscritto nella lista dei 30 ricercati più pericolosi d’Italia, Cesare Pagano aveva assunto la leadership assoluta del clan dopo l’arresto, nel 2009, del cognato, Raffaele Amato, finito in manette nell’ambito dell’inchiesta C3 che portò in carcere una sessantina di esponenti degli Amato-Pagano. Fino a quel momento, Cesare e Raffaele avevano guidato insieme gli “scissionisti” dopo la vittoria nella cosiddetta “faida di Scampia” contro il clan Di Lauro che, tra il 2004 e il 2005, provocò una settantina di morti ammazzati.

Ma chi era davvero Cesare Pagano? Ne parliamo con uno scrittore-giornalista, Simone di Meo, autore di diverse pubblicazioni proprio su questa sanguinosa guerra, tra cui “Faida di camorra” e “L’impero della camorra – Vita violenta del boss Paolo Di Lauro”, nonché prossimo all’uscita, tra settembre e ottobre del suo ultimo libro “Napoli in cronaca nera” scritto a quattro mani con Giuseppe Iannini, investigatore di un gruppo inquirente della Polizia di Napoli.

Pagano aveva sempre ricoperto il ruolo di “ministro degli esteri” del clan – spiega Di Meo. Era, di fatto, l’ufficiale di collegamento tra tutti i gruppi criminali di Napoli e provincia, nonché garante del patto di non belligeranza. Di lui si è sempre saputo pochissimo, tanto che fino ad oggi risultava incensurato. Dal suo vecchio capo, Paolo Di Lauro, aveva ereditato la mania per la riservatezza. Dalle testimonianze di alcuni pentiti conosciamo la sua ossessione per le microspie, al punto che era sua abitudine far perquisire chiunque dei suoi affiliati camorristi volesse incontrarlo. Ogni qual volta doveva salire su un’auto, la faceva prima bonificare dai tecnici del clan. Era arrivato a spendere 250mila euro di apparecchiature come quelle in uso ai servizi segreti tedeschi e francesi

Qual’era la sua principale attività?
Pagano teneva le fila dell’intero traffico di cocaina dalla Spagna. Un affare che gli garantiva guadagni tali da permettersi nell’estate del 2006, dopo lo smercio di una partita di droga sulla piazza napoletana, di versare ai suoi affiliati un premio di produzione dell’ammontare di 300mila euro

Come è iniziata la sua ascesa?
Pagano era stato il braccio destro del boss Paolo Di Lauro fino all’inizio della latitanza dello stesso Di Lauro nel 2002. A quel punto il potere passò nelle mani dei figli i quali entrarono in conflitto con i vecchi soci del padre che accusarono di aver incassato tangenti su un carico di stupefacenti dalla Spagna. Costretti ad emigrare, questi si rifugiarono tra Madrid e Barcellona e proprio da qui decisero di muovere guerra alla vecchia organizzazione.

Una guerra che vinsero a colpi di esecuzioni pubbliche nelle strade, nei bar, nelle case. Quali sono state le “condizioni di pace” imposte dagli scissionisti?
Principalmente tre: divieto per i Di Lauro di uscire dal rione dei Fiori di Scampia, divieto di rifornire di droga le varie cosche cittadine, restituzione dei beni confiscati ai loro vari prestanome passati poi agli scissionisti
E di fatto, oggi, che fanno i sovrani spodestati, i Di Lauro?

I Di Lauro vivono oggi confinati nel Rione dei fiori di Scampia, il cosiddetto “Terzo Mondo” per via dello squallore dominante. Ma mentre questa zona, che comunque resta la più grossa piazza di spaccio d’Europa, è rimasta saldamente nelle loro mani, tutte le altre 25, sparse nei comuni confinanti con Scampia e Secondigliano, sono finite sotto il controllo degli “scissionisti” che si ritrovano così a gestire praticamente l’intero traffico di stupefacenti. I figli di Paolo Di Lauro, Cosimo, Nunzio, Ciro, Vincenzo e Salvatore sono stati tutti arrestati e condannati, a vario titolo, per associazione camorristica, omicidio e traffico internazionale di stupefacenti. Resta però in libertà Marco, 30 anni, latitante e indicato dai pentiti come il più simile al padre, il più furbo e capace, colui che, al momento, avrebbe ripreso in mano la gestione del clan nel “Terzo Mondo”

Quindi esiste la possibilità di una ripresa più vasta del controllo da parte dei Di Lauro, oppure no?
Al momento risulta improbabile. I Di Lauro sono pressocché estinti. La stragrande maggioranza è stata costretta a emigrare o a passare con gli “scissionisti”

Lo strapotere degli “scissionisti” fa pensare che anche la guerra portata avanti dallo Stato contro di loro sia destinata a fallire…
Niente affatto. Gli scissionisti hanno già assaggiato l’azione di repressione delle forze dell’ordine che ad oggi risulta fortissima. Non dimentichiamo che con l’operazione C3 del 2009, che ha portato in carcere circa 60 esponenti del clan, è stata di fatto squadernata sia la struttura commerciale dell’organizzazione che quella logistico-militare. Le forze dell’ordine stanno rifilando duri colpi non solo alla bassa manovalanza – spacciatori, vedette, killer – ma anche ai cosiddetti “colletti bianchi”, i capi, i lori nipoti. E ciò si vede con l’arresto, oggi, di Cesare Pagano, non un semplice camorrista, ma un vero e proprio mafioso

Al momento dell’arresto di Cosimo Di Lauro, figlio di Paolo, tutti i telegiornali mostrarono da una parte le immagini della folla inferocita contro i poliziotti, dall’altra i fuochi d’artificio sparati dagli scissionisti in festa. Sembrava che nessuno stesse dalla parte dello Stato. E’ così?
I napoletani non fanno tutti il tifo per la Camorra, no. E’ anzi largamente diffuso il desiderio di respirare l’aria libera degli uomini liberi. Ma non possono essere solo le forze dell’ordine a combattere una guerra del genere. Come disse tempo fa Beppe Pisanu la camorra offre “pane e companatico”, stipendi da 10mila euro al mese, bonus da 300mila. Di fronte a tutto ciò non basta un contrasto di tipo militare. Bisogna che lo Stato offra un’alternativa ai giovani. E bisogna continuamente mostrare loro che una scelta di legalità è preferibile a quella di vivere le misere esistenze, falsamente dorate, di tanti personaggi che finiscono la loro vita a 30 anni sepolti sotto le tonnellate di cemento armato dei penitenziari o, ancora peggio, in una bara
(tratto da www.panorama.it)

mercoledì 14 luglio 2010

Il terzo livello dei Casalesi

Mira al terzo livello l'ultima inchiesta della Dda partenopea (condotta dai sostituti Antonello Ardituro e Marco del Gaudio e coordinata dall'aggiunto Federico Cafiero De Raho) contro il clan dei Casalesi: un'indagine monstre con 73 indagati, 17 dei quali arrestati all'alba di ieri dai carabinieri del Ros, e beni per quasi un miliardo di euro finiti sotto sequestro. Il livello, inconfessabile, è quello in cui la criminalità organizzata entra in contatto con il mondo dell'imprenditoria e della politica e con l'alta burocrazia statale. Nella voluminosa ordinanza di custodia cautelare in carcere, infatti, il giudice delle indagini preliminari si sofferma diffusamente sui rapporti tra l'attuale prefetto di Frosinone, Paolino Maddaloni, indagato per turbativa d'asta in relazione all'installazione delle centraline per il monitoraggio della qualità dell'aria all'epoca della sua attività di subcommissario prefettizio presso Comune di Caserta nel 2008 (i pm ne avevano chiesto l'arresto, respinto però dal gip) e l'ex consigliere regionale dell'Udeur, Nicola Ferraro, finito invece in manette per il più grave reato di associazione camorristica, in quanto – secondo le accuse del pentito Luigi Guida – avrebbe favorito le ditte del boss Francesco Bidognetti in cambio di appoggi elettorali.
Nell'informativa del Ros c'è anche un esplicito riferimento al sottosegretario all'Economia, Nicola Cosentino, già indagato per concorso esterno in associazione camorristica e destinatario di un ordine di arresto della procura napoletana, respinto però dal Parlamento. Di lui parla il collaboratore di giustizia Raffaele Piccolo, a proposito delle connivenze con la famiglia di Sandokan: “Io so che Cosentino era favorito perché spesso, quale forma di estorsione nei confronti degli imprenditori, procedevano a dei cambi di assegni che portavamo agli imprenditori; soltanto alcuni assegni, però, potevano essere portati da Nicola Cosentino, ossia quelli per esempio dei soggetti apicali del clan come Nicola Panaro o Nicola Schiavone”.
Un altro pentito, Oreste Spagnuolo, ha rivelato che il killer Giuseppe Setola, nel corso di un incontro con Luigi Ferraro, fratello di Nicola, anch'egli arrestato, lo salutò ricordandogli di riferire al fratello “che di lì a qualche giorno avrebbe ricevuto un regalo”. Dopo pochi giorni Orsi fu assassinato a Casal di Principe. Per gli inquirenti sarebbe proprio questo il “regalo” cui faceva cenno Setola.

Il demanio della "camorra spa"

Nella pancia dei Comuni campani e di quello di Napoli, in particolare, c’è di tutto: negozi, ville, appartamenti, mezzanini, terranei e box auto. È il «demanio della camorra spa» che lo Stato ha strappato alle grinfie di killer, spacciatori e narcotrafficanti dopo lunghe e travagliate gestazioni nelle aule di tribunale, dove gente che non ha mai lavorato e che non sa cosa significhi la parola «dichiarazione dei redditi» si è trovata a giustificare (spesso, senza successo) la proprietà di dimore estive e palazzi d’inverno, abitazioni da centinaia di metri quadrati e super attici che si affacciano su rioni degradati e strade tappezzate di siringhe e immondizia.
Tesori oggi quasi dimenticati, che dovrebbero essere destinati ad attività di carattere sociale ma che, purtroppo, dormono i sonni inquieti dell’abbandono nei cassetti di burocrati e politici, perché non ci sono soldi per le ristrutturazioni e perché è molto più facile promettere che mantenere.
«L’ultima ricognizione, effettuata con l’assessore alla Legalità, Luigi Scotti, parla di 43 beni confiscati disponibili in città», commenta Sandro Fucito, presidente della commissione Legalità del Consiglio comunale di Napoli, «ma negli ultimi quattro anni, a voler essere generosi, ci sono state sì e no dieci assegnazioni definitive. Un numero insignificante». Colpa dei ritardi, ma non solo. «Al Comune arrivano gli “scarti”», continua Fucito, «perché gli immobili migliori, quelli cioè che non sono stati vandalizzati o addirittura distrutti prima della confisca, vengono opzionati dai livelli istituzionali superiori». Eppure, materiale su cui lavorare ce ne sarebbe: alla Direzione distrettuale antimafia ci sono tre sostituti procuratori che si occupano, in maniera specifica, di indagini patrimoniali e la lista di beni sequestrati e successivamente confiscati si allunga giorno dopo giorno.
«Aggredire i patrimoni è la chiave di volta per demolire il potere camorristico», commenta il procuratore aggiunto Alessandro Pennasilico, coordinatore della Dda partenopea, «anche se poi è necessario non abbandonare questi beni al loro destino, perché il rischio è che passi il messaggio che la camorra possiede una capacità di gestione più efficiente di quella dello Stato».
A Luigi Giuliano, l’ex boss del rione Forcella amico di Diego Armando Maradona, e ad un altro paio di pericolosi camorristi come Gennaro Mazzarella del rione Mercato ed Edoardo Contini, manager dell’Alleanza di Secondigliano, solo per fare un esempio, hanno confiscato nel giro di un decennio 35 appartamenti del valore complessivo di cinque milioni di euro. Soltanto tre sono stati riutilizzati per fini sociali, pur tra mille difficoltà. Il resto sta a marcire d’umidità e di ricordi macchiati di sangue e sopraffazione.
E laddove sembra che la destinazione sia stata individuata e risolto (quasi) ogni problema, arrivano i ritardi della Pubblica amministrazione a complicare tutto, come nel caso della villa hollywoodiana dell’ex contrabbandiere Michele Zaza, a Posillipo, che a distanza di cinque anni ancora aspetta di diventare la nuova sede del locale commissariato di polizia, a causa di una serie di mancate autorizzazioni.
Non bastano, naturalmente, i soldi stanziati dalla Regione Campania e quelli assicurati dai fondi del Piano sicurezza per rimettere tutto a posto: negli ultimi cinque anni, su 1276 beni immobili confiscati, ne sono stati ristrutturati solo 35 (appena il 2 per cento) con una spesa complessiva di 11 milioni e mezzo di euro. Ai quali, nel novembre 2009, la giunta dell’allora governatore Antonio Bassolino aveva promesso si sarebbero affiancati finanziamenti integrativi per ulteriori 150 milioni, che – fino ad oggi – sono stati diluiti nel «mare monstrum» delle buone intenzioni. E pensare che le idee (e gli esempi concreti) non mancano: a Contursi Terme si lavora per ripristinare un antico sito termale in una proprietà del clan Marrandino; a Pignataro Maggiore si punta sulla produzione agricola in un sito un tempo della famigerata famiglia Nuvoletta di Marano; a Casal di Principe potrebbe nascere un ostello della gioventù nella villa confiscata al boss latitante Mario Caterino e a Santa Maria Capua Vetere dovrebbe sorgere un’area museale. A Ercolano, un gruppo di coraggiosi studenti universitari ha dato vita a «Radio Siani», una stazione radio web che si occupa di legalità, in un appartamento confiscato al boss del rione, dov’è facile ancora oggi imbattersi in passaggi segreti e nascondigli dove un tempo trovavano ospitalità latitanti e partite di droga o di armi. «Quando andiamo al bar qui vicino, i camorristi ci guardano ancora come gli alieni», confida uno dei ragazzi, «ma ormai non ci facciamo nemmeno più caso».
L’ultimo dibattito sul tema dei beni confiscati alla criminalità organizzata ruota attorno alla proposta di venderli all’asta, col rischio – condividono magistrati ed economisti – che i padrini possano riacquistarli attraverso uomini di fiducia, riaffermando così il proprio potere e il proprio prestigio agli occhi degli affiliati e dimostrandosi, di fatto, superiori alla legge.
Per fortuna, c’è anche qualcosa di buono che funziona, come il progetto la «Vigna don Peppe», nel Casertano, che produrrà – grazie alla collaborazione con Coldiretti – il vino «Don Peppe», in memoria di don Peppe Diana, il sacerdote ucciso dalla camorra. Le vigne cresceranno nei terreni strappati ai tagliagole casalesi. Che sia il vino della rinascita?

mercoledì 16 giugno 2010

L'eredità del potere in terra di camorra

In terra di camorra, l'eredità del potere si tramanda anche con gli hobby (la pittura, come il padre), con il nome (Nicola, come il nonno) e, soprattutto, con il cognome: Schiavone. I quattro quarti di aristocrazia mafiosa casalese stanno tutti nello sguardo che Nicola Schiavone, figlio di Sandokan, il capo dei capi della malavita di Casal di Principe, ha lanciato ai fotografi che lo attendavano all'ingresso della Questura di Caserta, dopo l'arresto per triplice omicidio avvenuto all'alba di ieri in un anonimo villino messogli a disposizione da una coppia di amici. L'operazione, che ha riscosso il plauso del Procuratore nazionale antimafia, Piero Grasso, e del ministro dell'Interno Roberto Maroni, che ha sottolineato “l'efficienza e l'altissima professionalità della polizia italiana”, è stata coordinata dai pm della Dda partenopea Antonello Ardituro, Giovanni Conzo e Cesare Sirignano e dall'aggiunto Federico Cafiero De Raho. A Schiavone jr, primogenito della nidiata di sette figli del padrino, detenuto da anni in regime di carcere duro, gli inquirenti contestano le uccisioni di tre “picciotti” della cosca, Francesco Buonanno, Modestino Minutolo e Giovan Battista Papa, i quali intendevano abbandonare la famiglia Schiavone per passare a militare in quella dell'altro big boss del cartello casalese, Francesco Bidognetti.
Intercettazioni telefoniche e convergenti dichiarazioni dei collaboratori di giustizia hanno convinto gli investigatori che ad ordinare gli agguati sia stato proprio il figlio di Sandokan, la nuova mente criminale del cartello mafioso di Terra di Lavoro. Giovane schivo, raccontano le carte giudiziarie, con la passione per gli abiti firmati (nel covo, protetto da un imponente sistema di videosorveglianza, sono stati scoperti capi griffati e una robusta provvista di scarpe Tod's), Nicola Schiavone ha una sola condanna, in primo grado, a due anni e otto mesi di reclusione per intestazione fittizia di beni. Secondo i giudici del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, avrebbe tentato di eludere il sequestro e la confisca di una rivendita di auto, di cui sarebbe stato socio occulto, organizzando una finta vendita a compiacenti prestanome.
Schiavone jr si era reso irreperibile da circa un anno, pur non essendo formalmente ricercato, su suggerimento – ipotizzano gli 007 dell'Antimafia – dello stesso Sandokan, che aveva annusato nell'aria vento di tempesta, tanto da mimare una pistola con il pollice e l'indice, nel corso di un colloquio in carcere registrato dalle telecamere di sorveglianza. Un invito alla prudenza raccolto al volo dall'erede, che negli ultimi mesi aveva continuato a gestire dalla penombra gli affari leciti e illeciti della holding.
Nel rifugio di Nicola Schiavone, che si trova a non più di due isolati dal quartier generale della Squadra mobile di Casal di Principe, i poliziotti hanno trovato anche tele e pennelli e quadri raffiguranti donne stilizzate. Soggetti certamente meno impegnativi rispetto a quelli paterni, che nel bunker dove venne catturato, nel lontano luglio 1998, amava trascorrere le lunghe giornate di latitanza immortalando il Volto Santo e impegnandosi in barbuti autoritratti.
“La cattura di Nicola Schiavone rappresenta un durissimo colpo, anche psicologico, inferto dalla squadra Stato al clan dei Casalesi e all'intera organizzazione camorristica”, ha dichiarato il ministro della Giustizia, Angelino Alfano. Per il Questore di Caserta, Guido Lungo, che con i galloni di vice partecipò al blitz che portò alla cattura di Sandokan, “abbiamo colpito al cuore la potente organizzazione camorristica dei Casalesi”. Corsi e ricorsi storici in terra di camorra.

SCHEDA
Nicola Schiavone è considerato il reggente del clan dei Casalesi. Diplomato al liceo scientifico e studente di Giurisprudenza, è il primo figlio del boss Francesco Schiavone Sandokan, condannato a più ergastoli nell'ambito del maxi-processo “Spartacus” e attualmente recluso in regime di carcere duro.
Schiavone jr è stato condannato, nel gennaio scorso, per intestazione fittizia di beni, alla pena detentiva di due anni e otto mesi: secondo i giudici, avrebbe cercato di evitare la confisca della rivendita di automobili “Trident”, a Caserta.
(Pubblicato su "Il Sole24Ore")

martedì 15 giugno 2010

Arrestato l'erede di Francesco Schiavone

Agenti della Squadra Mobile di Caserta hanno arrestato alle 6 del mattino di oggi, a Casal di Principe, Nicola Schiavone, figlio di Francesco, detto 'Sandokan', uno dei capi storici del clan dei Casalesi, ritenuto ancora a capo di uno dei gruppi dell'organizzazione camorristica. Nicola Schiavone, considerato dagli investigatori attuale reggente della fazione della cosca, è accusato di essere il mandante del triplice omicidio di Francesco Buonanno, Modestino Minutolo e Giovan Battista Papa, tre affiliati al clan uccisi per uno "sgarro" a Villa di Briano.

domenica 9 maggio 2010

E la camorra va nel pallone

L’ultima mossa è stata il sequestro della società: per i pm anticamorra di Napoli, il «Giugliano calcio» è controllato dal potente clan Mallardo, che lo utilizza come «schermo» per la raccolta del pizzo e per accreditarsi, agli occhi della cittadinanza e del popolo dei tifosi, come «sistema di potere» alternativo a quello legale. Il club, precipitato nel giro di tre anni dalla serie C2 al girone A del campionato regionale di «Eccellenza», è stato tenuto in vita con i soldi delle estorsioni a imprenditori e commercianti dell’hinterland nord di Napoli su decisione del boss Giuseppe Dell’Aquila (inserito nell’elenco dei cento latitanti più pericolosi d’Italia), come racconta il pentito Gaetano Vassallo, ex «ministro dell’ambiente» dei Casalesi: «La raccolta della pubblicità veniva effettuata da una ditta, controllata direttamente da una persona di fiducia di Dell’Aquila, che “faceva il giro” di tutti i commercianti della zona imponendo agli stessi di dare un contributo per la sponsorizzazione della squadra di calcio». Per evitare le indagini, aggiunge il collaboratore di giustizia, l’agente pubblicitario del padrino rilasciava addirittura la fattura, «deducibile ai fini fiscali, in modo da limitare il danno all’azienda, ma anche e soprattutto per regolarizzare formalmente l’uscita di danaro dalla società e non creare un “nero”». Le tessere del mosaico che hanno reso più chiaro lo scenario di collusione sono state, però, le conversazioni intercettate tra il fratello di Dell’Aquila e il presidente del «Giugliano calcio», Filippo Di Nardo, indagato con l’accusa di essere il prestanome della cosca, e le telefonate allarmate delle vittime del racket che ricordavano ai kapò della malavita locale di «essere in regola con le rate».
«È la ricerca del consenso sociale che spinge i gruppi criminali a investire nel calcio», dichiara a Panorama il procuratore aggiunto Alessandro Pennasilico, coordinatore della Dda di Napoli. «Il controllo di uno strumento così potente serve ad affermare e consolidare la propria leadership sul territorio e a dimostrarsi superiori ai rivali». L’intreccio tra pallone e camorra è terreno ricco di sorprese per gli investigatori: qualche settimana fa, è stato scoperto nel covo di un latitante una foto ricordo tra un pericoloso narcotrafficante di Secondigliano e l’ignaro centrocampista del Napoli, Marek Hamsik. Uno scatto che ricorda quello celeberrimo tra Diego Armando Maradona e i fratelli Giuliano di Forcella, in una vasca da bagno a forma di conchiglia, e che serve ad alimentare il «culto della personalità» del boss.
I casi di infiltrazione camorristica nello sport sono tutt’altro che rari, nella storia giudiziaria napoletana: la «Caivanese calcio», il «Pomigliano calcio» e la «Virtus Baia», che vinse il campionato lo stesso anno in cui fu rilevata dal «capobastone» di Bacoli, Rosario Pariante. E ancora: l’«Albanova», la squadra di calcio di Casal di Principe di cui era tifosissimo Walter Schiavone, promossa fino alla serie C2, e la «Mondragonese», alla quale il clan dei Casalesi voleva a tutti i costi regalare l’ingaggio del brasiliano Toninho Cerezo. Soprattutto nelle serie minori, il livello di contaminazione è allarmante, anche a causa dei soldi che girano attorno al calcioscommesse, su cui sono tuttora aperti più filoni di indagine.
Le ultime inchieste rivelano anche altro, però: e cioè che la camorra, quando non riesce a contaminare la struttura societaria di una squadra di calcio, ripiega sul tifo organizzato. Lo spiega, in questo verbale inedito, il pentito Maurizio Prestieri: «Il tifo organizzato è sempre espressione della criminalità organizzata e ciò è testimoniato dalla indicazione degli striscioni». Basta dare uno sguardo agli spalti, per accorgersene: «Lo striscione “Masseria Cardone” è relativo al clan Licciardi, lo striscione “Teste matte” è relativo ad un clan dei Quartieri Spagnoli. I “fedayn” sono stati sempre i più aggressivi e rissosi. Il gruppo “Mastiff” mi risulta essere affiliato ai Licciardi e detto dato è confermato dal simbolo di questo gruppo, la testa di un cane, simbolo uguale a quello che hanno tatuato quasi tutti i giovani della Masseria Cardone».
Dichiarazioni che concordano con quelle di un altro collaboratore di giustizia, Giuseppe Misso jr che ha parlato della divisione dello stadio San Paolo di Napoli in zona di competenza criminale: «Sulla curva A esiste una vera e propria legge di camorra, tant’è che ricordo a un certo punto mio zio, Giuseppe Missi (uno dei principali boss della camorra napoletana, ndr), impose che il gruppo della Masseria Cardone dovesse uscire dalla curva A per problemi che si erano verificati tra i Misso e i Liccardi. Ed infatti la Masseria Cardone si dovette spostare nei distinti», salvo poi accasarsi in curva B, dopo aver ottenuto l’assenso dei gruppi che già occupavano quel settore.
(Pubblicato su "Panorama", 13 maggio 2010)

domenica 18 aprile 2010

Sequestro record ai Casalesi

L’uomo che aveva trasformato i Casalesi da banda di tagliagole di provincia a holding economico-criminale, con interessi leciti e illeciti in ogni parte d’Italia, morì a poche settimane dalla sentenza del processo «Spartacus», cadendo misteriosamente da una terrazza priva di recinzioni. Una tragedia per la famiglia, una fortuna per il clan che, con la sua provvidenziale scomparsa, salvò il tesoro affidatogli in gestione. Ieri, il patrimonio di Dante Passarelli è nuovamente finito sotto sequestro nell’ambito di un’inchiesta antimafia che il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, non ha esitato a definire «la più grande operazione mai fatta nella storia della Repubblica italiana». Un impero valutato (e la stima è prudenziale, spiegano gli investigatori) oltre 700 milioni di euro, che nel 2004 era già stato sequestrato, salvo poi essere restituito ai figli dell’ex riciclatore perché, secondo la legislazione dell’epoca, la confisca dei beni era comunque legata alla condanna del soggetto colpito dal provvedimento cautelare.
Una nuova normativa (la legge del 24 luglio 2008, che consente allo Stato di riappropriarsi dei beni ereditati dai familiari di affiliati) e un complesso lavoro d’intelligence, che si è avvalso delle risultanze processuali e delle dichiarazioni di numerosi collaboratori di giustizia, hanno però permesso di ricostruire, negli ultimi tempi, i flussi finanziari della famiglia Passarelli e di stabilirne la provenienza illecita.
Al blitz, che si è sviluppato tra Napoli, Caserta e Roma, hanno partecipato duecento uomini della Dia e dei carabinieri, chiamati ad apporre i sigilli a 136 appartamenti, 11 magazzini, 75 terreni, 8 negozi, 2 ville, 51 autorimesse, 2 società immobiliari, una società agricola (la Balzana, ex Cirio di Caserta) e un opificio. Una ricchezza che rappresenta il polmone finanziario della cosca, ora più che mai in difficoltà. Spiega il direttore della Dia, Antonio Girone: «I Casalesi hanno qualche problema con tutti questi sequestri, che indeboliscono anche il carisma del clan». Non solo: gli inquirenti ritengono che l’aggressione continua dell’autorità giudiziaria alle fortune dell’organizzazione di Casal di Principe stia addirittura mettendo in discussione il pagamento degli «stipendi» agli affiliati e degli onorari degli avvocati impegnati nei processi al gruppo dirigente della Cupola malavitosa. Una spesa che una precedente inchiesta contro il boss Sandokan aveva quantificato in circa 300mila euro al mese.
Il provvedimento di sequestro è stato firmato dai giudici della sezione Misure di prevenzione del tribunale di Santa Maria Capua Vetere su richiesta della procura antimafia di Napoli, guidata da Giovandomenico Lepore e coordinata dall’aggiunto Federico Cafiero De Raho. Commenti di grande apprezzamento sono giunti, tra gli altri, dal Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, che ha sottolineato l’importanza della collaborazione tra magistratura e forze dell’ordine, e dal Premier, Silvio Berlusconi, che ha rivendicato l’azione del Governo a fondamento dei successi antimafia degli ultimi mesi.
«Con l’operazione contro i Casalesi, il patrimonio sequestrato alla criminalità organizzata si sta avvicinando a 10 miliardi di euro. Si tratta di un patrimonio immenso che è impossibile pensare di gestire con gli strumenti ordinari. Ne servono di nuovi, dobbiamo fare una riflessione per capire come realizzare un sistema pubblico-privato che ci consenta di andare fino in fondo», ha infine commentato il ministro Maroni.

INTERVISTA AL PROCURATORE AGGIUNTO FEDERICO CAFIERO DE RAHO


«L’articolo 10 della legge n. 125 del 24 luglio 2008 consente la confisca delle ricchezze mafiose anche quando l’indiziato di mafia, cui esse appartenevano, è morto. Questa facoltà va esercitata nei cinque anni dal decesso nei confronti dei successori dei beni e amplia di molto la sfera d’azione del pubblico ministero, consentendo di intervenire laddove non esiste più la pericolosità della persone, ma solo il bene originato da attività illegali». Federico Cafiero De Raho, procuratore aggiunto della Direzione distrettuale antimafia di Napoli, è stato il pm del processo «Spartacus», il primo magistrato a mettere alla sbarra il famigerato clan dei Casalesi.
Dottor Cafiero De Raho, l’operazione di oggi riscatta l’amarezza del dissequestro di qualche tempo fa…
«È vero. Il patrimonio, infatti, era già stato sequestrato nel corso del processo Spartacus e per lo stesso Dante Passarelli era stata chiesta una condanna a otto anni di carcere per associazione camorristica. A pochi giorni dalla conclusione del dibattimento, però, Passarelli morì e così il suo tesoro passò nella disponibilità degli eredi. Da quel momento, non fu più possibile aggredire quei beni, pur avendo noi la consapevolezza, anzi la certezza, della loro origine criminale. La nuova legge ci offre, invece, uno strumento in più».
Qual era il ruolo di Passarelli nell’organigramma del clan dei Casalesi?
«Il suo legame con le organizzazioni del Casertano inizia già dagli anni Ottanta, con il boss Antonio Bardellino, e successivamente si consolida con l’ascesa del gruppo vincente di Casal di Principe, al punto tale da diventare gli stesso un obiettivo “sensibile” da parte delle organizzazioni rivali, che vedevano in lui la “mente” del riciclaggio di denaro sporco proveniente dalle estorsioni e dal traffico di droga e l’artefice della straordinaria forza finanziaria dei Casalesi».