sabato 28 febbraio 2009

La latitanza di Pasquale Scotti


Di sicuro c’è solo che non è morto. Almeno, non per i familiari. Lui, Pasquale Scotti, l’imprendibile super-latitante della camorra cutoliana degli anni Ottanta, ha lanciato nella confusione generale un impercettibile segnale a chi sa leggere la filigrana sottile del codice della malavita, testimonianza di vita nascosta tra le righe del manifesto funerario del fratello Giuseppe.
L’uomo, 51 anni, è morto il 27 giugno scorso a Casoria, stroncato da una malattia. Le vecchie indagini sulla Nco ne hanno descritto, in più di un’occasione, il ruolo di gestore occulto e attento degli affari (illegali e non) del più famoso fratello, costretto a una fuga senza fine dopo la rocambolesca evasione dall’ospedale civile di Caserta, la notte del 24 dicembre 1985.
Da allora, di Pasquale Scotti non si sono più avute notizie: si è ipotizzato, addirittura, che potesse essere rimasto vittima – lui che ne era il maestro – della lupara bianca, inghiottito da qualche tonnellata di cemento armato utilizzata per lastricare sperdute autostrade della provincia partenopea, o ucciso dal peso dei segreti di quella sciagurata stagione di connivenze tra politica, servizi segreti e criminalità organizzata.
Invece, non sarebbe così: perché a Caivano e a Casoria, dove sono comparsi poco più di due settimane fa i manifesti funerari, c’è un particolare che non è passato inosservato alle centinaia di occhi che li hanno letti e alle centinaia di bocche che ne hanno parlato e alle centinaia di orecchie che hanno ascoltato.
Poco sotto la notizia della scomparsa di Giuseppe Scotti, infatti, c’è scritto: “Ne danno il triste annuncio la moglie, il figlio, le figlie, la mamma, il fratello, la sorella, i cognati i nipoti e i parenti tutti”. E in paese si sa che Giuseppe Scotti aveva un solo fratello: Pasquale.
Fare domande in giro è impossibile, cercare di comprendere che cosa significhi questo messaggio offre, nella migliore delle ipotesi, un’unica risposta: sguardi nervosi e carichi di paura. Gli anziani che trovano ristoro nei pressi della chiesa di San Benedetto, a Casoria, dove si sono svolte le esequie, voltano la faccia dall’altro lato. Tranne uno, che quasi si arrabbia perché, a distanza di così tanti anni, ancora si parla di “Pasqualino”, come lo chiama quasi con affetto. La sua spiegazione è questa: “Forse per il resto della famiglia non è morto e scriverlo sul manifesto è un segnale di speranza”.
Ma se non fosse così e fosse davvero vivo, bisognerebbe forse riscrivere gli ultimi venti anni di storia criminale napoletana e rimettere le mani in quel cesto di vipere popolato da spioni, killer, terroristi e politici privi di scrupoli che – racconta il libro pubblicato recentemente da Tullio Pironti, I misteri della camorra – “lasciarono morire nella prigione del popolo il presidente della Dc Aldo Moro per salvare un discusso assessore regionale di nome Ciro Cirillo”.
E proprio la turpe storia di Ciro Cirillo – sussurrano in paese – potrebbe essere stata la condanna a morte di Pasquale Scotti. O la sua assicurazione sulla vita.

Pubblicato su "Il Roma", 11 luglio 2008