martedì 19 gennaio 2010

Arrestato il "Pablo Escobar" di Secondigliano

Dieci persone sono state fermate a Napoli per traffico di droga aggravato dalla partecipazione al clan camorristico degli 'scissionisti'. Gli arresti sono stati eseguiti dai carabinieri di Castello di Cisterna. L'associazione gestiva una delle piu' importanti piazze di spaccio di Scampia ed i proventi venivano reimpiegati concedendo prestiti a usura. Sottoposti a sequestro preventivo beni riconducibili agli indagati: un centro scommesse, una caffetteria ed un complesso immobiliare.
Tra le dieci persone legate alla cosca degli Scissionisti e che facevano parte di una fiorente organizzazione per lo spaccio di diversi tipi di droghe, anche Paolo Gervasio, ritenuto nel quartiere il 'Pablo Escobar' di Secondigliano, perché controllore dell'intero mercato della cocaina nel territorio oltre che gestore della piazza di spaccio '33', smantellata oggi. Dall'attività investigativa emerge - secondo l'accusa - che 'zio Paolo', questo il soprannome con cui era conosciuto, che gestisse un giro di usura applicando tassi usurai tra il 200 ed il 300%.

Accusato di false perizie, torna in libertà

Torna in libertà il prof. Fichera, docente presso la facoltà di Ingegneria dell’Università di Catania, agli arresti domiciliari per l’accusa di falsa perizia e corruzione nell’ambito delle indagini giudiziarie su un duplice omicidio per cui è coinvolto il clan dei Casalesi.
Accusato di aver falsificato delle intercettazioni telefoniche per scagionare noti esponenti della camorra campana, quali Aniello Bidognetti, esponente del clan dei Casalesi, il boss Luigi Cimmino dell’omonimo clan napoletano e il partecipe di quest’ultimo Vincenzo Tammaro, l'ingegnere Alberto Fichera è stato liberato. Lo conferma l’avvocato della difesa, Giovanni Avila, che aggiunge: «Le accuse non sono decadute, ma attendiamo risvolti eclatanti nei prossimi giorni».
Il professore ha già espresso la volontà di tornare alle attività didattiche non appena possibile.

venerdì 15 gennaio 2010

Sequestrati beni a clan Ruocco-Somma

Beni per tre milioni di euro sono stati sequestrati dagli agenti del centro Dia di Napoli al clan Ruocco-Somma. Tra i beni sequestrati vi e' anche un edificio, ancora in costruzione a Saviano (Napoli) e due aziende agricole, una situata a Piazzolla di Nola, con migliaia di piante di nocciole e una a Latina.
Il sequestro e' stato disposto dai giudici della Sezione Misure di Prevenzione presso il Tribunale di Napoli ed eseguito dalla Dia a carico di Aniello Ruocco, 47 anni, capo dell'omonimo clan, attivo nel nolano, attualmente detenuto e ritenuto a sua volta un affiliato alla cosca che fa capo al boss Mario Fabbrocino.

Cinque arresti nel clan De Luca Bossa

Cinque arresti quelli eseguiti dai carabinieri di Napoli contro il clan “De Luca-Bossa”, operante nel quartiere di Ponticelli.
Le accuse, per i destinatari dei provvedimenti emessi dal tribunale di Napoli su richiesta della Dda partenopea, sono di associazione a delinquere di stampo camorristico finalizzata ad estorsioni, rapine, danneggiamenti e violazione in materia di armi e stupefacenti.
Le indagini dei militari sono partite lo scorso dicembre dopo la scarcerazione di Teresa De Luca, ritenuta la reggente del clan, nuovamente arrestata la notte di San Silvestro per estorsione e tra i cinque destinatari delle ordinanze. Secondo gli inquirenti, la donna, per riattivare il sodalizio criminale, decimato dagli arresti, aveva ingaggiato nuovi elementi grazie ai proventi delle estorsioni.

Arrestato Antonio Zaccaro, reggente dei Bocchetti

Gli agenti della Squadra Mobile della Questura di Napoli hanno arrestato Antonio Zaccaro, 45 anni, attuale reggente del clan Bocchetti, attivo, a Napoli, nella zona compresa tra Secondigliano e San Pietro a Patierno. L'uomo, latitante dallo scorso dicembre in quanto colpito da un provvedimento cautelare emesso dal Tribunale di Napoli, è stato rintracciato in un appartamento in via Enrico de Nicola, a Melito, nella disponibilità di Giuseppe Sbarra, napoletano di 48 anni, arrestato per favoreggiamento aggravato.
Bloccato a Melito - Il pregiudicato Antonio Zaccaro, 45 ani, ritenuto l' attuale reggente del clan Bocchetti attivo a San Pietro a Patierno, è stato arrestato dalla polizia. Zaccaro è stato bloccato nel pomeriggio di ieri a Melito dagli agenti della squadra mobile nell' appartamento di un incensurato che lo ospitava. L' uomo, che lavora in una ditta di pulizie, è stato arrestato per favoreggiamento aggravato. Zaccaro era latitante dal 4 dicembre, quando era sfuggito all' operazione disposta dalla Procura antimafia al termine delle indagini sul duplice omicidio di Gennaro e Carmine Sacco, padre e figlio, dell' omonimo clan avvenuto il 24 novembre. Nell' operazioneche furono arrestati 13 esponenti del clan Bocchetti. Il pregiudicato deve rispondere di associazione per delinquere di stampo camorristico finalizzata al traffico di droga.

mercoledì 13 gennaio 2010

Casalesi incendiano l'auto della sorella di un pentito

Hanno incendiato una vettura di proprieta’ di una sorella di un esponente del clan dei Casalesi che sta collaborando con i magistrati della Direzione
distrettuale antimafia di Napoli da qualche mese, e sono stati arrestati.
Massimo Pezzella, 39 anni, e Francesco Verazzo, 23 anni, entrambi di Casal di Principe hanno dato fuoco alla vettura della sorella di Raffaele Piccolo, l’uomo che ha svelato che Nicola Schiavone, figlio del boss Francesco, e’ l’attuale reggente del clan, lanciando una tanica di benzina sul motore della Volkswagen parcheggiata in via Marsala e dando fuoco al liquido infiammabile.
La donna ha assistito alla scena ed e’ scesa in strada, ma i due erano fuggiti. Le forze dell’ordine, dopo una breve indagine, hanno bloccato Verazzo e Pezzella, fratello tra l’altro di Nicola, genero di Carmine Schiavone, cugino del boss diventato collaboratore di giustizia. I due devono rispondere di danneggiamento aggravato e incendio doloso e sono stati anche identificati dal bersaglio del loro raid punitivo.

Preso a Napoli l'ultimo cutoliano in libertà

È tornato nel carcere di Poggioreale Andrea ‘o Chiattone Vitagliano. Il latitante, affiliato alla Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo, aveva fatto perdere le sue tracce lo scorso 15 dicembre. Le autorità l’hanno rintracciato domenica scorsa in via Caracciolo, all’altezza della Rotonda Diaz. La misura cautelare è scattata su impulso della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma. L’uomo dovrà scontare una pena di 7 anni, 7 mesi e 6 giorni di reclusione.

CURRICULUM CRIMINALE – Nato a Napoli 62 anni fa, sin da giovanissimo Andrea Vitagliano entra ed esce frequentemente di galera per furto o ricettazione; la prima volta dietro le sbarre a 17 anni per furto d’auto. Negli anni ‘80 viene arrestato anche per atti osceni, violenza carnale, tentato omicidio (nei confronti di Mario Lenti) ed omicidio volontario (vittima Antonio Calone). Successivamente si affilia alla Nuova Camorra Organizzata e viene sottoposto a misure restrittive della libertà personale, violandole più volte. Tra la fine degli anni ‘90 e i primi del 2000, viene arrestato per aver messo a segno una serie di rapine come quella presso l’agenzia di Brusciano del Banco di Napoli e alla Cassa di Risparmio di Civitavecchia. Dopo il declino della Nuova Camorra Organizzata, entra a far parte della cosiddetta Nuova famiglia.

sabato 9 gennaio 2010

Condannato il primogenito del boss Sandokan

E' stato condannato a 2 anni e 8 mesi di carcere per intestazione fittizia di beni Nicola Schiavone, il primo dei sette figli del boss del clan dei Casalesi Francesco Schiavone, detto "Sandokan". E' la prima condanna per il primogenito di "Sandokan" in primo grado. La sentenza e' stata emessa questa sera dalla Prima Sezione Penale del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, al termine di una camera di consiglio durata oltre 5 ore. Nicola Schiavone - definito dai nuovi collaboratori di giustizia, l'attuale referente del gruppo dei Casalesi - e' stato condannato per il reato di intestazione fittizia (con assorbimento dell'articolo 7) per sfuggire al sequestro e alla confisca, da parte dell'autorita' giudiziaria, di beni riconducibili alla camorra. La corte - presidente Raffaello Magi, a latere Valeria Bove e Rosa De Ruggiero - ha ritenuto che Nicola Schiavone fosse uno dei soci occulti della societa' di autosalone "Trident", inaugurata nell'aprile del 2003 a Casal di Principe con una festa alla quale erano state invitate le showgirls Natalie Caldonazzo ed Eva Grimaldi. Il tribunale ha condannato, inoltre, il presunto prestanome di Schiavone, Simone Alfonso Basco, alla pena di 2 anni. Assolto per non aver commesso il fatto Giancarlo Cordino.
L'affare girava attorno a fatture di 250mila euro, per l'acquisto di auto di grossa cilindrata che venivano rivendute nell'autosalone di Casal di Principe. Il Pm Marco Del Gaudio della Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli aveva chiesto una condanna per il figlio di "Sandokan" a 3 anni e 8 mesi di carcere con l'aggravante dell'articolo 7. L'indagine era iniziata nel 2003 grazie a un'intercettazione ambientale in carcere durante un colloquio tra il boss Francesco Schiavone e i figli Carmine e Nicola.

mercoledì 6 gennaio 2010

Accoltellato il figlio del boss Genovese

Il figlio 18enne del capo clan Modestino Genovese e' stato accoltellato davanti casa, a Sulmonte nell'avellinese. A trovarlo e' stata una vicina di casa. Il ragazzo e' attualmente ricoverato all'ospedale San Giuseppe Moscati di Avellino in prognosi riservata: e' sotto osservazione per due ferite, molto profonde, che ha riportato vicino al fegato. Il padre, capo dell'omonimo sodalizio camorristico, e' da anni in carcere.
(tratto da: www.ansa.it)

martedì 5 gennaio 2010

Blitz anticamorra, 29 arresti nella provincia nord

Dopo un’indagine durata dal 1997 al 1999, il gip del Tribunale di Napoli ha emesso un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di 29 persone, ritenute a vario titolo colpevoli di associazione per delinquere, traffico di stupefacenti, estorsioni e violazione delle norme sulle armi. A eseguire il provvedimento del gip sono stati i Carabinieri del nucleo di Castello di Cisterna (Napoli).
Con un vero e proprio blitz scattato prima dell’alba, i militari dell’Arma hanno definitivamente fatto scorrere i titoli di coda sulle carriere criminali di alcuni appartenenti a sei clan di paesi a nord di Napoli come: i Legnante-Pezzella e gli Iavazzo a Frattamaggiore e Frattaminore; i Natale-Marino e i Russo-Cicciarelli a Caivano; i Pezzella a Cardito e Carditello; i Cennamo a Crispano e Frattaminore. Nello stesso periodo delle indagini (1997-1999), i sei clan non disdegnarono il ricorso a kalashnikov e bombe a mano per determinare la propria supremazia.
Il risultato di quei sanguinosi scontri armati è riassumibile nei 16 omicidi avvenuti nei suddetti comuni a nord del capoluogo partenopeo. L’ordinanza emessa dal gip del Tribunale di Napoli segue la condanna comminata nell’ottobre scorso ai danni delle stesse 29 persone, tutte condannate a pene tra i 6 e i 21 anni.
Il blitz dei Carabinieri è servito anche a rinnovare il provvedimento di custodia cautelare nei confronti di 9 elementi coinvolti nella retata di questa mattina, per aver subito condanne per più di due anni. Costoro, infatti, per insufficienza di pesanti indizi o per mancanza di esigenze cautelari, erano stati scarcerati per decorrenza dei termini e rimessi in libertà.

Ecco i nomi dei 29 destinari dell’ordinanza di custodia del Gip del Tribunale di Napoli, eseguita dai carabinieri del Gruppo di Castello di Cisterna, diretto dal colonnella Fabio Cagnazzo. Le accuse contestate sono di associazione a delinquere di stampo mafioso, estorsione, detenzione illegale di armi, traffico di droga.

Massimo Acerra, (condannato a 11 anni di reclusione e tornato in liberta')
Antonio Ciccarelli, (dovra' scontare 21 anni)
Vincenzo Donadio,
Luigi Giamattei,
Alfonso Iavazzo,
Francesco Moccia,
Raffaele Natale (17 anni di pena per associazione mafiosa e per la detenzione di tre bombe a mano)
Michele Orefice,
Vincenzo Patricelli,
Daniele Pinto,
Rocco Spena
Giovanni Vitale.
Regime aggravato per:
Vincenzo Pellino (già in carcere).
Gia' detenuti anche per altri reati:
Antonio Auletta (11 anni di reclusione),
Vincenzo Berardo (già detenuto),
Antonio Cennamo (già detenuto),
Ciro Chiaccio (già detenuto),
Domenico Ciccarelli,
Rocco D'Angelo,
Antonio Esposito,
Antonio Frezza,
Salvatore Imparato,
Alfredo Lionelli,
Michele Pepe,
Claudio Pezzella,
Nicola Sautto,
Michele Setola
Francesco Ullero.

Altre due persone sono riuscite a sfuggire alla cattura espatriando. Fanno tutti parte dei clan Natale-Marino, Legnante-Pezzella, Russo-Ciccarelli, Gavazzo e Cennamo, tutti attivi nell'area Nord di Napoli.
Con questa operazione finiscono in carcere affiliati e promotori dei clan attivi a Nord di Napoli, gli stessi che tra il 1997 ed il 1999 hanno messo in scena una sanguinosa faida per il controllo del traffico di droga e delle estorsioni nella zona, usando anche kalashnikov e bombe a mano. Sedici gli omicidi commessi.

domenica 3 gennaio 2010

Arrestato latitante degli "scissionisti"

Un latitante degli "Scissionisti" del quartiere Secondigliano, Oreste Sparano, 23 anni, è stato arrestato dalla polizia a Licola, frazione litoranea di Giugliano (Napoli). Era ricercato dallo scorso maggio perché accusato di associazione a delinquere di stampo camorristico e violazione della legge sugli stupefacenti. Gli investigatori lo ritengono uomo di fiducia dei capi della fazione, Raffaele Amato (detenuto) e Cesare Pagano (latiante) che si contrappone al clan Di Lauro per il controllo del traffico di droga nell'area a nord di Napoli. All'interno dell'abitazione, situata in via Vicinale Canosa, il latitante è stato trovato in compagnia della moglie Concetta Tecchio, 26 anni, e della sorella Melania, 37.

sabato 2 gennaio 2010

Omicidio Tommasino, arrestato boss D'Alessandro

Un provvedimento di fermo e' stato notificato al boss Vincenzo D'Alessandro, per l'omicidio di Luigi Tommasino. D'Alessandro, attualmente in una Casa di lavoro, e' ritenuto a capo del clan camorristico di Castellammare di Stabia. Il provvedimento e' stato emesso dalla Dda di Napoli. Luigi Tommasino era consigliere comunale di Castellammare di Stabia (Napoli).
(tratto da www.ansa.it)

Arrestata Teresa De Luca

Una donna, ritenuta reggente del clan camorristico De Luca Bossa, e' stata arrestata dai carabinieri di Cercola, a Napoli. Si tratta di Teresa De Luca, 59 anni, sulla quale pendeva un ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa il 30 dicembre dal gip di Napoli su richiesta della procura distrettuale antimafia.La donna e' accusata di estorsione aggravata ai danni di un imprenditore di Cercola costretto a versare 3.000 euro in contanti.
(tratto da www.ansa.it)

Cella singola per il killer del clan Lago

Gli ergastolani devono scontare la pena in una cella singola. Il cosiddetto “isolamento notturno” è imposto dal codice penale ma, spesso, il sovraffollamento delle carceri italiane non consente di applicarlo. Il napoletano Guido De Liso, condannato al carcere a vita con sentenza definitiva per un omicidio di camorra, ha ottenuto di lasciare la cella che divide con un altro detenuto. De Liso, 37 anni, è recluso nel carcere Petrusa di Agrigento. Il suo legale, l’avvocato Salvatore Collura, ha presentato un reclamo al tribunale di sorveglianza per sollecitare il trasferimento in una cella singola. Il campano è stato condannato all’ergastolo per l’omicidio dell’assicuratore Giustino Perna, ucciso il 30 aprile 1999, per una vendetta trasversale nell’ambito della faida di Pianura. Il giudice gli ha dato ragione e ha ordinato il trasferimento.
(tratto da www.agrigentoweb.it)

venerdì 1 gennaio 2010

I sistemi anti-intercettazione del boss Amato

Tempo addietro, quando era ancora uno dei trafficanti al servizio del boss Paolo Di Lauro, il telefono era costretto comunque a utilizzarlo, seppur con le dovute attenzioni. Al cellulare, si faceva chiamare “Michele il napoletano”. Dieci anni dopo, distrutta l’organizzazione di Ciruzzo ’o milionario e conquistato il potere criminale a Secondigliano, Raffaele Amato diventerà ancor più sospettoso nei confronti della tecnologia, come racconta il pentito Antonio Pica, a proposito delle precauzioni che il boss degli “scissionisti” adottava in vista degli incontri con i suoi uomini di fiducia: «Amato ci chiese di prendere tutti i cellulari in possesso dei ragazzi sulle piazze di droga per un totale di duecento, trecento cellulari minimo…». Il pericolo era che l’eccessiva loquacità di qualcuno potesse mettere le forze dell’ordine sulla giusta traccia per arrivare a lui.
Le ferree disposizioni del padrino “scissionista” riguardavano non solo le prevenzioni da far adottare agli affiliati sull’uso delle utenze telefoniche (di cui erano responsabili gli stessi capi-piazza, chiamati a punire quanti si fossero permessi di trasgredire l’ordine), ma anche le intercettazioni ambientali. È sempre Pica, infatti, a rivelare che due tecnici («ognuno dei quali ricompensato con 1500 euro a operazione») effettuavano periodiche «bonifiche» contro cimici e apparecchiature elettroniche capaci di registrare suoni e immagini nei covi in cui si riunivano affiliati e responsabili dei turni di spaccio. Antonio Prestieri, invece, ricorda un incontro con il boss, nel corso del quale gli fu mostrato «uno strumento che portava due antenne in grado di segnalare, senza intercettarle, tutte le telefonate effettuate nel raggio di un chilometro», in grado – anch’esso – di individuare microspie che trasmettevano i segnali sulla linea telefonica. I vertici del gruppo degli «spagnoli» avevano disponibilità, inoltre, di cellulari criptati che rendono particolarmente complesse le attività di spionaggio delle conversazioni (ce ne sono numerosi modelli, in commercio, a prezzi di partenza intorno ai 2mila euro), perché si appoggiano su linee diverse da quelle classiche (Tim, Vodafone, 3, Wind).
È stato inoltre accertato che Amato acquistò, nel corso di una fiera a Londra, aperta ai dirigenti dei servizi segreti di Israele, Germania e Stati Uniti, un apparecchio, del costo di 150mila euro, utilizzato per annichilire, in un raggio abbastanza ampio, i segnali elettrici provenienti da radio, cellulari e microspie.

Taglia da 150mila euro su Gennaro Marino

Gennaro Marino è stato considerato, dagli inquirenti della Direzione distrettuale antimafia di Napoli, il capo dell’ala militare del clan degli “scissionisti”, durante la faida di Secondigliano. Ex fedelissimo del boss Paolo Di Lauro, si unì a Raffaele Amato – anzi, secondo alcuni pentiti sarebbe stato egli stesso a fomentare la rivolta – nella guerra contro i figli del padrino di via Cupa dell’Arco. Responsabile della piazza di spaccio delle Case celesti, che fruttava – stando alle parole del collaboratore di giustizia Maurizio Prestieri – un guadagno per Ciruzzo ’o milionario di almeno trecento milioni di lire a settimana, Marino venne coinvolto nel 1993 nelle indagini su un quadruplice omicidio, avvenuto a Melito nell’ambito del conflitto tra i Di Lauro e il gruppo di Ernesto Flagiello, per la gestione delle aree di smercio della droga nell’hinterland nord della città. Uscito indenne dall’inchiesta, riesce a evitare anche la prima grande retata contro la cosca, che – con il padrino in fuga – lascia l’organizzazione nelle mani di Cosimo, Ciro e Marco Di Lauro.
Il 24 novembre 2004, viene catturato in un blitz del commissariato Scampia all’interno di un appartamento al tredicesimo piano di un edificio, in via Fratelli Cervi. Con lui, alla riunione, ci sono – tra gli altri – Gennaro e Raffaele Notturno e Arcangelo Abete. In pratica, mezzo stato maggiore del gruppo ribelle. Tutti finiscono in manette con l’accusa di armi e associazione camorristica. Il sospetto degli investigatori è che quel summit dovesse servire a pianificare l’offensiva finale contro i Di Lauro, per sterminarli con le bombe a mano e i fucili mitragliatori.
Marino – conosciuto con il soprannome di Genny Mckay a Secondigliano – trascorre in galera la parte più feroce della battaglia, nel corso della quale perde, per mano dei killer nemici, il cugino Massimo e il padre Crescenzo, ammazzati nel giro di tre settimane l’uno dall’altro.
Nel corso delle indagini sulla faida, si scoprirà che Cosimo Di Lauro aveva messo una taglia di 150mila euro sulla testa di Gennaro Marino. Nel maggio scorso, è stato raggiunto da una ordinanza di custodia cautelare in carcere – insieme a Raffaele Amato, Rosario Pariante, Enrico D’Avanzo e allo stesso Paolo Di Lauro – per la faida di Mugnano, in cui furono decimati gli esponenti della banda criminale capeggiata da Antonio Ruocco.

Cesare Pagano tra i super-latitanti

Cesare Pagano, inserito nell’elenco dei trenta latitanti più pericolosi d’Italia, al pari del giovanissimo Marco Di Lauro, è considerato dagli inquirenti l’alter-ego di Raffaele Amato, a Napoli. Di “Cesarino” e del suo ruolo all’interno del clan, parla Giuseppe Misso jr nel corso di un interrogatorio: «Durante la faida sia il clan Di Lauro che il clan degli scissionisti inviò emissari per chiedere un appoggio, anche militare, da parte del clan Misso. Anche perché in quel periodo il nostro clan era un clan egemone. In particolare Cesare Pagano fece pervenire la richiesta a Michelangelo Mazza, non so il modo in cui ciò avvenne, il quale lo riferì intanto a mio fratello Emiliano che si trovava a Napoli e poi venne da me a Rimini a riferirmi tale richiesta. Contemporaneamente anche Cosimo Di Lauro fece pervenire la stessa richiesta a mio cugino Michelangelo Mazza… sia io che mio fratello che mio cugino Michelangelo Mazza ritenemmo per la tipologia di faida in atto di non appoggiare nessuna delle due fazioni in campo di fatto io, inizialmente, avrei voluto parteggiare per i Di Lauro in quanto tra Paolo Di Lauro e mio zio Giuseppe Missi vi è sempre stato un patto di ferro».
Il ruolo di Pagano, dunque, è molto delicato e investe non solo il lato militare dell’organizzazione, ma anche quello commerciale. È sempre Giuseppe Misso jr a sottolineare: «Quando già era terminata la faida di Scampia, Cesare Pagano venne messo in contattato con Salvatore Torino da Salvatore Cipolletta, compare di nozze di Nicola Torino. Egli venne alla Sanità diverse volte accompagnato da Salvatore Cipolletta e si recò a casa di Salvatore Torino per accordarsi con quest’ultimo circa la consegna di 20/25 chili di cocaina al mese, accordo per il quale ci fu il nostro beneplacito».
Sullo spessore criminale di Pagano, interviene anche il collaboratore di giustizia Andrea Parolisi, che nell’interrogatorio del 24 gennaio 2007 conferma i rapporti esistenti tra il clan degli “spagnoli” e i Lo Russo di Miano: «Ho appreso da Cesare Pagano che “i capitoni so’ frat a noi” e che, dopo il dicembre 2006, gli accordi hanno previsto che gli scissionisti, dopo aver fatto arrivare la droga dalla Spagna – settore nel quale sono i numeri uno – ed aver rifornito le proprie piazze, tutto il resto dell’enorme quantitativo lo vendano ai capitoni i quali se la vedono da soli per il rifornimento delle loro piazze e per la vendita ai vari clienti, clienti che prima erano degli scissionisti. Per darle un’idea dell’enorme guadagno derivante dal commercio di tutta questa droga posso portare ad esempio che alla fine della cosiddetta stagione 2006 (dopo l’estate 2006) mi venne regalata una quota di 30.000 euro da Cesare Pagano il quale faceva le divisioni dei soldi, contenuti in 2-3 grandi buste di carta riciclata, proprio davanti a me. Parlando inoltre con gli altri ragazzi abbiamo fatto un calcolo che solo “per i guaglioni” la stagione 2006 aveva consentito di ripartire 200/300.000 euro».

Il profilo criminale di Raffaele Amato

Prima importatore di tonnellate di hashish dalla Spagna in Italia, poi mediatore con i cartelli sudamericani per l’acquisto di colossali partite di cocaina e – infine – capo assoluto di una holding criminale con sede a Secondigliano e ramificazioni in tutt’Italia e all’estero. Una struttura tentacolare, che ha monopolizzato il mercato della vendita della droga al dettaglio nella provincia di Napoli.
I pentiti che ne hanno parlato, lo descrivono come un boss carismatico, capace di mediare, all’occorrenza, e dalla grande esperienza criminale. Di lui si occupano, per la prima volta, i giornali il 27 gennaio 2001, quando i poliziotti lo arrestano in un albergo a Casandrino, dove – secondo gli investigatori – avrebbe dovuto incontrare trafficanti olandesi e tedeschi, per l’acquisto di sei chili di cocaina proveniente dall’Olanda, nascosti in un ruotino di scorta. Lo stupefacente aveva un valore di ottocento milioni di lire. Il Tribunale del riesame, però, lo scarcera dopo una quindicina di giorni, perché non c’era la prova che Amato fosse in contatto con loro, al di là di ogni ragionevole dubbio. Nei tre anni successivi, il padrino consolida la sua rete internazionale di contatti, acquisendo un sempre maggiore potere all’interno della cosca di Paolo Di Lauro, seriamente danneggiata dall’inchiesta della procura antimafia del settembre 2002, che costringe Ciruzzo ’o milionario alla fuga. Un potere che, evidentemente, infastidisce non poco il figlio del boss, Cosimo Di Lauro, che lo accusa di aver intascato il provento della compravendita di una partita di cocaina, del valore di tre milioni di euro, obbligandolo ad espatriare e a rifugiarsi in Spagna, da dove organizza e coordina la faida contro i suoi ex soci in affari. Inizia così la stagione del terrore e delle stragi, a Secondigliano.
A gennaio viene catturato Cosimo Di Lauro e quattro settimane dopo, tocca al capo degli “spagnoli”. Lo intercettano i carabinieri e la Guardia civil, il 27 febbraio del 2005, davanti all’entrata del casinò municipale di Barcellona dopo aver perso 6 mila euro al tavolo di black jack. Era in compagnia di cinque guardaspalle. In galera, però, Amato non resta molto. Scarcerato per un vizio di forma, a un anno esatto dalla data di arresto, si dà nuovamente alla macchia, continuando a gestire una organizzazione che conta centinaia di uomini stipendiati: spacciatori, vedette, killer, fiancheggiatori, custodi e trafficanti.
Coinvolto nell’inchiesta “C3” e destinatario di un nuovo ordine di carcerazione, ’o Lello (com’è conosciuto all’anagrafe di camorra) viene segnalato in Francia, Inghilterra e Giappone. A chi gli dà la caccia, sembra imprendibile. Alla fine, il 17 maggio 2009, i poliziotti della Squadra mobile di Napoli lo bloccano dopo un inseguimento durato cinquanta chilometri, a Malaga. L’estradizione del padrino, qualche tempo dopo, impegnerà trenta agenti di scorta e un elicottero di appoggio. C’era il pericolo di un attentato nei suoi confronti.
I magistrati della Dda di Napoli gli contestano anche alcuni omicidi, risalenti a quindici anni prima, che si inserirebbero nella faida di Mugnano, che vide contrapposti il gruppo di Antonio Ruocco e il clan di Ciruzzo ’o milionario, cui – a quel tempo – Amato apparteneva.
Il potere criminale del padrino ne fa uno dei camorristi più pericolosi in Italia e in Europa, come sottolinea il decreto di applicazione del 41bis firmato dal ministro della Giustizia, Angelino Alfano.

Il clan degli "scissionisti"

Il clan degli “scissionisti” di Secondigliano ha conquistato, nelle informative delle forze dell’ordine e nelle inchieste della procura antimafia, un posto di assoluto rilievo nello scacchiere criminale cittadino. Il potere finanziario e l’enorme numero di affiliati che lo compone sono caratteristiche che possiedono ben pochi gruppi malavitosi, in provincia di Napoli e in Campania. Non è dunque azzardato parlare del cartello degli “spagnoli” come una delle formazioni mafiose più ricche e agguerrite del Sud Italia.
La ragione è semplice: i contatti con i trafficanti internazionali coltivati negli anni dal boss, Raffaele Amato, la capacità di introdurre in Italia tonnellate di cocaina, senza particolari rischi, e il prestigio conquistato con la distruzione di una cosca potente qual è stata, per vent’anni, quella diretta da Paolo Di Lauro, non possono non apparire, agli occhi del mondo della delinquenza organizzata, come vere e proprie “forme di garanzia”.
I pentiti che negli ultimi anni si sono succeduti a raccontare l’evoluzione dell’organizzazione, l’origine della faida e i protagonisti della furibonda battaglia con Ciruzzo ‘o milionario, hanno offerto, infatti, un quadro assolutamente realistico della forza degli “scissionisti” sia dal punto di vista militare che finanziario.
I RAPPORTI CON LA COLOMBIA – Racconta il collaboratore di giustizia Andrea Parolisi, a proposito dei rapporti tra Amato e i narcos colombiani: «Nel 1994-1995 so che Paolo Di Lauro diede incarico a Raffaele Amato di rivolgersi direttamente in Colombia per acquistare la cocaina. Il contatto con il colombiano era stato fatto dallo stesso Amato in Spagna, visto che al tempo lui faceva droga per conto di Di Lauro insieme a gente di Casoria e di Casavatore. Questo colombiano gli fece conoscere altri soggetti in sud America… durante la trattativa e sino all’avvenuta consegna dei soldi provenienti da Di Lauro, Raffaele Amato era rimasto nelle mani dei trafficanti colombiani a garanzia dell’affare. Questi ultimi vista l’affidabilità dei Di Lauro e dello stesso Amato avevano poi intrapreso consuetudinari rapporti con questi soggetti per affari di droga senza bisogno ogni volta che Amato fosse dato fisicamente a garanzia dell’affare. Recentemente Amato in Spagna ha i contatti con i suoi appoggi colombiani».
LA NASCITA DEL CLAN – È Giuseppe Misso jr, invece, a raccontare le origini della faida e la contrapposizione armata con il gruppo di via Cupa dell’Arco, nell’interrogatorio del giugno 2007: «A Raffaele Amato fu intimato, da Cosimo, di abbandonare proprio il territorio di Napoli facendo intendere che l’avrebbe ucciso se non l’avesse fatto e che egli non si motivava a tale gesto per rispetto del padre Paolo che sapeva avere grande affetto nei confronti di Amato, che per suo conto gestiva i canali di approvvigionamento di droga dalla Spagna dove confluiva anche quella proveniente dal Sud America. Amato fece buon viso a cattivo gioco e si allontanò. Dalla Spagna si mise in contatto con i capi… facendo leva sull’irragionevolezza di Cosimo. Egli riuscì a portare dalla sua parte queste persone che non sopportavano di essere comandate da un giovane. Posso dire questo che è la stessa cosa che è capitato all’interno del nostro clan e da cui poi è scaturita la cosiddetta faida della Sanità. La strategia di Amato ebbe vita facile anche in conseguenza del comportamento tenuto dal Cosimo sin da quel lontano 2002 nel senso che lui, stante la sua giovane età, non comprese che avrebbe dovuto parlare con questi anziani e mediare con loro visto che egli aveva desiderio, a differenza del padre che voleva coltivare solo l’aspetto del riciclaggio e quindi dell’investimento delle ingenti ricchezze provento di droga, anche e soprattutto l’aspetto militare del clan egemone a Secondigliano. Egli cioè voleva essere un capo indiscusso e non come aveva fatto il padre quella persona che aveva consentito ad altri malavitosi di gestire autonomamente porzioni di territorio controllate dal clan Di Lauro… so per certo tutti loro gioirono allorquando fu catturato Cosimo Di Lauro. Pertanto ben si comprende il desiderio degli scissionisti che anche in questi giorni si sta compiendo attraverso un’accorta strategia suggerita dallo stesso Salvatore Lo Russo di espugnare tutte le poche piazze di droga rimaste ai Di Lauro dopo la pace».
LO SCONTRO SFIORATO CON EDOARDO CONTINI – Un aspetto poco conosciuto della faida è quello, invece, di cui parla ancora Misso jr, a proposito della tensione tra il gruppo degli “scissionisti” e quello di San Giovanniello, motivata dall’uccisione di un uomo nel territorio controllato dai Contini, durante la faida.
«Mi dissero che si era sfiorato lo scontro tra gli scissionisti ed il clan Contini, perché la vittima era stata uccisa nel territorio di Eduardo Contini senza chiedere il permesso o quanto meno avvertire il detto clan. In ciò ingenerando un equivoco con i Di Lauro che potevano pensare ad una scelta dei Contini di aiutare gli scissionisti nella faida. Il chiarimento avvenne grazie alla intermediazione di Salvatore Lo Russo aduso a tali trattative di pacificazione. Difatti “omissis” mi disse di avere assistito [a un incontro] tra Cesare Pagano e Salvatore Lo Russo che avvenne a Miano nel senso che fu Cesarino ad andare dai Lo Russo. In tale incontro Cesare Pagano concordò con Salvatore Lo Russo di dire ad Eduardo Contini che sull’onda dell’emozione dell’uccisione del cugino di Migliaccio un gruppo di suoi ragazzi era partito per compiere l’azione a San Giovanniello senza previa autorizzazione da parte di Pagano. Tale ricostruzione consentiva a Cesare Pagano di evitare uno scontro diretto con Contini, in quella logica secondo cui un capo può giustificare nei confronti di un altro capo clan una azione, per quanto irresponsabile, di suoi affiliati mentre quando quell’azione irresponsabile o particolarmente sprovveduta è addebitabile al capo diventa molto più complicato giustificarne le ragioni con il capo di un altro clan con il quale non si hanno motivi di scontro ma che è stato obiettivamente messo in difficoltà. Difatti Lo Russo che aveva ricevuto le lamentele di Eduardo Contini e che poi tramite Penniello le aveva fatte giungere a Cesare Pagano fece comprendere a quest’ultimo che si poteva giustificare in un’unica occasione una leggerezza di questo tipo, atteso che Contini evidenziava come da molti anni nella sua zona e per suo conto non si sparava e non era tollerabile che altri lo facessero a sua insaputa. Fu sempre “omissis” a portare l’imbasciata così come concordata tra Pagano e Lo Russo a Contini. Questi si convinse della spiegazione e soprattutto comprese che non si sarebbe mai più verificato lo stesso errore…»

Le coperture di Paolo Di Lauro

Gli aspetti sicuramente più inquietanti della storia di Paolo Di Lauro sono stati il silenzio che ha accompagnato la sua ascesa nel mondo della camorra e l’iniziale indifferenza, da parte degli organi investigativi, per quell’enorme centro di potere economico-criminale che, a partire dagli anni Ottanta, si è esteso da Scampia ai quartieri e ai Comuni vicini.
Sul punto, si è soffermato anche il pentito Maurizio Prestieri, ex uomo di fiducia del boss di via Cupa dell’Arco, che ha sottolineato, nel corso dei suoi interrogatori con i magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Napoli, i tentativi da parte di Ciruzzo ’o milionario di annullare le indagini a suo carico: «Durante il processo che mi vede imputato unitamente a Paolo Di Lauro, e precisamente quando questi era latitante, seppi da suo figlio Vincenzo, mio codetenuto, che suo padre, avendo appreso che la prova principe dell’intero impianto accusatorio erano le intercettazioni telefoniche, stava provando a far sparire le cassette sulle quali erano registrate le conversazioni telefoniche. Ricordo, in particolare, che durante le udienze – ad un certo punto – mancavano delle conversazioni non trascritte e perciò ritenemmo che il tentativo fosse andato a buon fine. Infatti, ci abbracciammo con la speranza che quelle conversazioni non esistevano più. Successivamente, però, le conversazioni furono trascritte, in quanto in quel processo non erano stati sottratti i supporti informatici, ossia le cassette su cui erano state registrate le conversazioni». La spiegazione offerta dal collaboratore di giustizia è sconvolgente: «Infatti, noi ritenevamo che Paolo Di Lauro fosse in grado di fare ciò, perché io so per certo che egli ha dei canali attraverso i quali può anche sottrarre atti o prove di processi o procedimenti, canali che egli mi ha fatto intendere di avere, ma che per delicatezza dell’argomento non mi ha mai svelato. Io ho ritenuto non porgli mai la domanda, conoscendo la estrema riservatezza sul punto di Paolo Di Lauro, il quale – sono certo – non ha svelato questi canali neanche ai figli. Inoltre, Paolo Di Lauro mi ha sempre detto che questo tipo di attività egli la svolgeva non solo nel suo interesse, ma anche nei confronti degli altri affiliati di spicco del clan, tra i quali vi ero anche io».

In origine c'era Aniello La Monica

In origine, il clan di Secondigliano era guidato da Aniello La Monica, un camorrista legato a Michele Zaza che trafficava in sigarette di contrabbando, estorsioni e rapine. Del suo gruppo, tra gli altri, facevano parte Paolo Di Lauro, Paolo Micillo, Mimì Silvestri, Raffaele Abbinante, Rosario Pariante, Raffaele Prestieri ed Enrico D’Avanzo.
Racconta Gaetano Guida, in un interrogatorio: «Nel 1980, a Secondigliano, non esisteva ancora un riferimento al clan Licciardi. Chi contava, in quegli anni, era il solo Aniello La Monica… lo stesso La Monica era il più feroce avversario di Raffaele Cutolo… nel 1980, il nome di La Monica era legge in tutta Napoli… lui abitava “miezz all’arco”, in una costruzione alla quale si accedeva dalla strada attraverso un grosso cancello di ferro… vicino alla sua abitazione c’era un bar che usavamo come punto di ritrovo e c’era anche un suo negozio di abbigliamento, che aveva l’insegna con il nome “pyton” dal nome del tipo di revolver che lui preferiva e che portava sempre con sé».
E ancora: «Il gruppo di La Monica era principalmente impegnato nella guerra con i cutoliani e si commettevano tanti omicidi… ad esempio, fu personalmente Aniello La Monica a decapitare un tale, soprannominato “bambulella”, responsabile di aver preso parte all’omicidio di un amico di La Monica, tale Antonio Palmieri, detto ’o muscio, avvenuto nel carcere di Poggioreale, padiglione San Paolo».
A uccidere il boss di Secondigliano, però, non sarà qualche killer al soldo di Raffaele Cutolo. Stavolta, i ricordi sono affidati ad Antonio Ruocco: «Il giorno successivo al mio incontro con La Monica, lo stesso venne eliminato nel corso della mattinata. Appresi direttamente da Raffaele Abbinante che aveva partecipato all’agguato come si erano svolti i fatti. Mi fu riferito che avevano fatto una telefonata a La Monica, attirandolo fuori casa, con la scusa di fargli acquistare dei brillanti. Aniello era caduto nella trappola ed era uscito, unitamente a un suo guardaspalle. Era sopraggiunta, improvvisamente, un’auto a forte velocità su cui appunto viaggiava il commando, che lo aveva investito in pieno. Mentre il corpo doveva ancora cadere, a causa dell’impatto, sul selciato, gli aggressori erano già scesi dall’auto ed avevano iniziato a sparare. Fu Abbinante a riferirmi che sull’auto c’era anche Ciruzzo ’o milionario, Raffaele Prestieri, che guidava, e Rosario Pariante. Tutti e quattro parlavano della vicenda e si vantavano di quanto avevano fatto».
Era nata la cupola di Paolo Di Lauro.

I "discendenti" del padrino

Fino all’esplosione della faida, le indagini della magistratura e le informative delle forze dell’ordine si erano poco soffermate sul ruolo e sul potere criminale dei figli di Paolo Di Lauro. Nell’inchiesta del settembre 2002, compariva infatti il solo Vincenzo Di Lauro, secondogenito del boss, indicato come vero e proprio “alter ego” del padrino, incaricato di gestire il business del contrabbando di sigarette e di tenere i rapporti con i capi-piazza e gli importatori di droga.
In realtà, come sarà dimostrato in maniera drammatica dall’esplosione di violenza nella guerra contro gli “scissionisti”, tutti i figli maggiorenni di Ciruzzo ’o milionario avevano ruoli decisionali all’interno della cosca. E ciò sarà ancor di più chiaro, agli investigatori, quando il padrino si darà alla macchia lasciando le redini dell’organizzazione nelle mani di Cosimo, Ciro e Marco. A cui si aggiungeranno, in un secondo momento, anche Nunzio e Salvatore.
Cosimo – diventato famoso in tutto il mondo grazie a una immagine che lo ritrae, all’uscita del comando provinciale dei carabinieri, con indosso un giubbotto di pelle nera e lo sguardo truce rivolto agli obiettivi dei fotografi – è stato condannato all’ergastolo, in primo grado, per l’omicidio della giovane Gelsomina Verde, anche se gli inquirenti sono convinti che la quasi totalità dei delitti compiuti dai killer di via Cupa dell’Arco sia riconducibile, direttamente o indirettamente, agli ordini del giovane capoclan.
Dal momento dell’investitura, la sua dittatura dura poco meno di tre anni, perché – all’infuriare della faida – i militari dell’Arma lo catturano nel Terzo mondo. È il 21 gennaio 2005: “Cosimino”, com’è conosciuto a Secondigliano, è latitante da sei settimane. In sua difesa, il popolo dei rioni suburbani di Scampia scende in strada e aggredisce, frontalmente, i carabinieri, che sono costretti a chiamare i rinforzi. Il giorno dopo, l’allora ministro dell’Interno, Beppe Pisanu, dirà che la camorra, a Napoli, offre pane e companatico.
Dei figli del padrino resta in libertà, oggi, soltanto Marco. È latitante dal 7 dicembre 2004, quando la Procura antimafia di Napoli sferrò l’attacco ai Di Lauro e agli “scissionisti”. Quello stesso giorno, a Casavatore, finì in manette suo fratello Ciro, mentre – nei mesi successivi – carabinieri e polizia assicureranno alla giustizia sia Nunzio (preso in un villino a Ischitella) che Salvatore (arrestato nella casa paterna il giorno del suo diciottesimo compleanno).
Nel 2006, Vincenzo Di Lauro sarà protagonista di una clamorosa scarcerazione per un errore di comunicazione tra il Tribunale di Napoli e l’ufficio matricole del carcere di Torino, dov’era detenuto. Un foglio, rimasto inspiegabilmente incastrato nel fax, non giungerà a destinazione e gli spalancherà le porte del penitenziario. Sarà nuovamente catturato a Casalnuovo, nel marzo 2007, in uno degli appartamenti a suo tempo controllati dalle forze dell’ordine durante le ricerche di suo padre.

Il profilo criminale di Paolo Di Lauro

Più che a un gangster metropolitano, Paolo Di Lauro assomiglia – nella gestione del potere criminale – ai padrini siciliani, o meglio ai capi delle ’ndrine calabresi. Poco incline alle plateali manifestazioni di forza, riservato, regista occulto di grandi fortune economiche, non rilascia interviste come Raffaele Cutolo e non telefona ai giornalisti per smentire le notizie, come Michele Zagaria o Antonio Iovine. La sua forza è sempre stata l’invisibilità, nei confronti tanto dei nemici quanto degli amici. Lo dimostra, chiaramente, una intercettazione telefonica che cattura le lamentele del boss Raffaele Abbinante, a proposito del perenne stato di irreperibilità del padrino Ciruzzo ’o milionario: «Ma quello quando va scappando e non lo trovate e quando non va scappando, nemmeno lo trovate. Perché quello non esce mai…».
Di Paolo Di Lauro, fino al momento dell’arresto, esisteva una sola fotografia, negli archivi delle forze dell’ordine, scattata al momento dell’interrogatorio in Procura, a seguito del pestaggio di Cosimo Infante, insegnante di educazione tecnica nella scuola media “Pascoli II” di Secondigliano. Un pestaggio, raccontano le cronache giudiziarie dell’epoca, ordinato da Nunzio Di Lauro, figlio tredicenne del boss, per punire il docente che aveva rimproverato sua cugina. È il 6 novembre 1998, quando Paolo Di Lauro – su cui la direzione distrettuale antimafia di Napoli e la sezione Narcotici della Squadra mobile stanno indagando già da qualche tempo – si presenta davanti al pm Luigi Bobbio per offrire la sua versione dei fatti. Al magistrato, Di Lauro racconta di essere un uomo di pace e di rifiutare il ricorso alla violenza, aggiungendo di non conoscere i motivi dell’aggressione al docente. Addirittura, Di Lauro si spinge a lamentarsi per la fastidiosa etichetta di uomo d’onore che, nel suo quartiere, gli hanno attribuito sottovoce e finanche per i continui controlli della guardia di finanza presso la sua azienda tessile, ad Arzano, che lo costringeranno, prima o poi, a chiudere bottega. Gioca la sua partita, il padrino, ma la gioca anche il magistrato. La trappola, raffinatissima, la spiegherà, infatti, qualche tempo dopo lo stesso Bobbio: «Mentre era in corso l’interrogatorio, mettemmo sotto controllo i telefoni dei suoi più stretti uomini di fiducia, molti dei quali si trovavano all’esterno degli uffici, preoccupati delle nostre reali intenzioni. Non sapevano, infatti, il motivo della convocazione era legato al pestaggio del professore e temevano un arresto. Li intercettammo anche quando chiesero a Vincenzo Di Lauro, che allora era poco più di un ragazzo, se dovevano andare a proteggere “Pasquale” armati all’uscita dalla Procura. Quella fu la conferma, in diretta, che Paolo Di Lauro era un padrino della camorra e che Pasquale era il soprannome usato a Secondigliano per indicarlo».
Nel 2002, è costretto a darsi alla latitanza perché inseguito da un mandato di cattura per traffico internazionale di stupefacenti e associazione camorristica. L’inchiesta, passata nel frattempo al pm Giovanni Corona, assesta un primo colpo alla maxi-organizzazione, portando all’arresto di una sessantina di affiliati. Nel 2004, il ministero dell’Interno lo inserisce nell’elenco dei trenta ricercati più pericolosi d’Italia e, il 16 settembre 2005, viene arrestato dai carabinieri del Ros in un anonimo appartamento in via Canonico Stornaiuolo, nel cuore della vecchia Secondigliano. Quando i carabinieri bussano alla porta, alle 3 del mattino, lo trovano già vestito. Sei mesi dopo, sarà condannato a trent’anni di carcere per droga.

La storia del clan Di Lauro

Struttura economica prima ancora che criminale, il clan Di Lauro ha monopolizzato l’attenzione dei media nazionali e internazionali tra il 2004 e il 2005, in occasione della faida di Secondigliano che vide contrapposto il network mafioso di via Cupa dell’Arco a un cartello di fuoriusciti per la gestione del più ricco mercato di droga all’aperto d’Europa.
Racconta il pentito Maurizio Prestieri, a proposito degli affari sviluppati all’ombra delle Vele: «Io versavo mediamente 200 milioni di lire a settimana, per le piazze insediate nell’Oasi del Buon Pastore, lo chalet Bakù ed una parte del lotto P. Fulvio Montanino, ogni settimana, versava 250 milioni, che riguardavano gli introiti delle piazze cosiddette della “Ciampa” e di giù alle “Cappe”, gestite anche dalla famiglia Di Natale, ossia dai fratelli Vincenzo, Raffaele, detto Lelluccio, Antonio detto ’o chiapparo ed altri figli e nipoti di Vincenzo Di Natale, oltre che dal genero di quest’ultimo; in più, Montanino, presso una macelleria che faceva da base di appoggio vendeva quantitativi di droga a terzi soggetti che la volevano spacciare. Altri 200-250 milioni a settimana li portava Antonio Leonardi per la piazza della Vela Bianca; la quota maggiore la portava Gennaro Marino ed era di circa 300 milioni per la piazza delle Case celesti, che era molto remunerativa. Inoltre, anche lui faceva i cosiddetti “passaggi di mano”, ossia aveva l’autorizzazione da Paolo Di Lauro di vendere la droga da questi fornita a terze persone e anche di acquistarla da altri quando mancava. Voglio precisare che raramente Di Lauro non era in grado di rifornirci di droga».
Il business, basta una calcolatrice per rendersene conto, è gigantesco: «Il volume di affari settimanale minimo, tenuto conto di tutte le oscillazioni sia del mercato che legate agli interventi delle forze dell’ordine, era di due miliardi. Il massimo, invece, era di più di tre miliardi a settimana». Montagne di soldi cui si deve aggiungere il fatturato del contrabbando di sigarette, delle rapine, delle estorsioni, dell’usura, dei “cavalli di ritorno” e dell’industria della contraffazione (abbigliamento, utensileria, tecnologia) affidata alla rete internazionale dei magliari; sicché la stima, formulata tempo addietro dalla procura antimafia partenopea, di un miliardo di lire al giorno guadagnato dal boss Paolo Di Lauro appare non solo verosimile, ma forse addirittura prudenziale.
I TERRITORI CONTROLLATI E LE ROTTE DELLA DROGA – Le indagini raccontano di un vero e proprio “feudo” assoggettato al potere criminale della cosca. Non solo Secondigliano e Scampia, vero “cuore pulsante” dell’organizzazione, ma anche Casavatore, Melito, Arzano, Mugnano, Bacoli e Monte di Procida. Il potere della holding, scrive il pm Giovanni Corona nella richiesta d’arresto del settembre 2002, «arriva fino alle porte di Afragola».
In un verbale del 26 novembre 1998, è il pentito Gaetano Guida a spiegare i sistemi di importazione della sostanza stupefacente a Napoli: «I canali attuali di rifornimento della cocaina da parte del clan Di Lauro e da parte dei clan camorristici in generale, hanno da qualche tempo subito delle modifiche sostanziali. È stato infatti molto perfezionato l’originario sistema di commissionare direttamente in Sud America singoli quantitativi di pochi chili che venivano portati a mezzo di corrieri. Attualmente, infatti, le organizzazioni camorristiche prendono contatto diretto con quelle che sono ormai delle vere e proprie filiali europee dei grandi produttori sudamericani di cocaina. Da qualche tempo, infatti, queste organizzazioni hanno costituito in città come Madrid, Amsterdam e in Belgio dei veri e propri depositi di cocaina, dove fanno giungere, a mezzo di navi, tonnellate di stupefacente. Gli acquirenti della camorra per entrare in contatto con i responsabili di queste “filiali” usano i canali dei magliari. La rete dei magliari, infatti, costituisce ormai un sostegno importantissimo per l’attività dei clan. Dappertutto, in Europa, infatti, sono presenti ormai negozi gestiti da italiani di rivendita di capi di abbigliamento in finta pelle. Quasi tutti questi negozi appartengono ai vari clan, i quali se ne servono per nascondere latitanti o, appunto, per organizzare acquisti e importazioni di droga e armi in Italia. In questi negozi, vi sono peraltro grossi giri di denaro, utili per provvedere tra l’altro al sostentamento dei latitanti. Sono i titolari di questi esercizi a costituire i terminali locali delle organizzazioni camorristiche, i quali, quando serve, provvedono alla trattativa per l’acquisto della droga dalle “filiali”… Anche Di Lauro ha la sua rete di negozi in Europa, oltre ad avere più di una fabbrica in Italia. So che uno di questi negozi, si trova a Parigi ed è gestito da un cognato di Aniello La Monica, che è rimasto con Di Lauro. Sempre a Parigi, Di Lauro ha un altro negozio gestito da tale Enrico Petersen. Costui, negli anni Ottanta, era titolare di un locale nella zona di Posillipo, che peraltro fu incendiato proprio da me. Altri negozi di abbigliamento, Di Lauro li ha in Olanda. Ancora, so che Di Lauro ha investito molti soldi in Grecia…».
LA STRUTTURA DELLA COSCA – Prima della faida e del consequenziale passaggio del comando nelle mani del figlio maggiore, Cosimo, il gruppo era strutturato come un’azienda: un consiglio di amministrazione, al quale partecipavano i vari soci del boss (Rosario Pariante, Raffaele Abbinante, Enrico D’Avanzo, Maurizio Prestieri), presieduto dallo stesso Paolo Di Lauro, che sovrintendeva al controllo e alla gestione di trenta piazze di spaccio, ognuna affidata a un responsabile, da cui dipendono da un punto di vista funzionale e organizzativo gli spacciatori, le vedette, i custodi dello stupefacente e i fiancheggiatori. Ogni piazza di spaccio aveva una propria contabilità ed era obbligata ad acquistare la droga da vendere al dettaglio solo presso il sistema-Di Lauro, che lucrava una maggiorazione del cinque per cento circa rispetto al prezzo di mercato.
Al ramo commerciale, specializzato negli stupefacenti, il clan aveva affiancato un potente “braccio armato” – composto da killer spregiudicati in grado di tenere testa alle più agguerrite organizzazioni criminali della Campania – e un “braccio finanziario”, che resta, tuttora, l’oggetto misterioso nelle indagini sul clan Di Lauro. La chiave del forziere, in pratica, che custodisce i segreti dell’impero economico costruito in vent’anni di crimine dal boss che amava giocare a poker.

La guerra contro il gruppo di Gaetano Stabile

Tra le famiglie di camorra con cui i Lo Russo hanno ingaggiato alcune delle più feroci battaglie per la conquista del malaffare tra Miano, Piscinola, Marianella e Chiaiano ci sono, sicuramente, gli Stabile. Il capoclan, Gaetano Stabile, soprannominato ’o capellone, viene identificato e catturato, la prima volta, nel settembre del 1983 in una villetta nella zona di Castelvolturno, mentre si trova in compagnia della sua guardia del corpo. Nella stanza da letto, custodisce tre pistole, con relativo munizionamento, documenti di identità falsi e una divisa di polizia.
Le informative delle forze dell’ordine stimano in circa quaranta affiliati il numero di uomini su cui il padrino può contare. Le accuse a carico del padrino sono associazione camorristica, droga e racket. Nel 1992, nel corso di una perquisizione in un appartamento, sospettato di essere il covo di alcuni spacciatori del gruppo, la Squadra mobile partenopea scopre la stanza della tortura del clan, con lacci e fili d’acciaio legati ad arnesi di ferro sporchi di sangue. Il boss, nel frattempo tornato in libertà, riesce a sfuggire ancora alla cattura. Pochi mesi dopo, però, gli agenti della Questura partenopea lo rintracciano a Vercelli, dove sta trascorrendo in relativa tranquillità la latitanza, sotto il falso nome di Gaetano Lillo. Insieme a lui c’è anche la convivente, Luisa Paladini, che si fa chiamare – invece – Filomena Alfieri.
Deve scontare sei anni di reclusione per concorso in estorsione, il boss, ma nel 1998 arriva una nuova misura cautelare nei suoi confronti. Il pm Luigi Bobbio, infatti, ottiene dal gip Giuseppe Canonico 40 ordini di arresto, che decimano sia la cosca di Gaetano Stabile che quella di Costantino Sarno, con cui – nel frattempo – è divampata una furiosa guerra per il controllo del traffico di stupefacenti tra l’Italia, l’Olanda e la Giordania. Alla base dell’inchiesta, che fa luce anche su sette omicidi maturati nell’ambito della scissione dell’Alleanza di Secondigliano, ci sono le dichiarazioni accusatorie dello stesso Costantino Sarno, di Antonio Palmentieri e di Gaetano Guida, ex luogotenente dei Licciardi nella zona di Capodichino. Tra gli arrestati ci sono anche numerosi corrieri della droga, residenti nel sud pontino, e il proprietario di una televisione privata del Lazio.

Il boss latitante muore in ospedale

Era sfuggito alla cattura due giorni prima, Vincenzo Lo Russo. Il suo nome compariva, infatti, nell’elenco dei camorristi da arrestare, perché ritenuti legati al gruppo casalese guidato da Antonio Bardellino. Secondo la magistratura, insieme ai fratelli, faceva parte dell’ala “militare” della “Nuova famiglia”, il cartello criminale che si contrappone allo strapotere cutoliano.
Le ricerche delle forze dell’ordine non durano molto, però. All’alba del 18 marzo del 1984, lo trovano morto all’interno dell’ascensore dell’ospedale “Incurabili”, nel centro storico della città. È riverso con la faccia contro il pavimento, vestito. E non respira più.
Gli infermieri che scoprono il cadavere, intorno alle cinque e trenta del mattino, notano subito che sul corpo non ci sono ferite provocate né da armi da taglio né da colpi di pistola. Dunque, non è stato ammazzato. Più fatalmente, si scoprirà grazie all’autopsia, Lo Russo è stato stroncato da un malore, a trentacinque anni.
Gli inquirenti riescono, grazie a un complesso lavoro investigativo, a ricostruire le ultime ore del giovane boss, braccato dai carabinieri e dalla polizia. Dopo aver trovato rifugio nei pressi di Forcella, grazie ai buoni rapporti con la famiglia del padrino Luigi Giuliano, Lo Russo – già denunciato in passato per porto d’armi, associazione camorristica e droga – è stato colto da un primo attacco, che lo ha obbligato a ricorrere alle cure mediche, malgrado il rischio di essere scoperto e di finire in galera. Esce dal nascondiglio e si reca in ospedale, con la speranza di passare inosservato.
Ciò che non si riuscirà a stabilire è se Lo Russo, al momento di accusare il malore che l’ha stroncato, fosse già stato visitato da un sanitario della struttura, che si trova a poche centinaia di metri dal “feudo” dei Giuliano. Nessuno dei medici, infatti, dirà di essere stato avvicinato da quell’uomo per un consulto.
Ottenuti i risultati dell’autopsia, arriva il momento dei funerali, che si tengono alle sei del mattino in forma strettamente privata il 20 marzo, nella chiesa di Secondigliano, con sei ore di anticipo sul programma. Un provvedimento che l’allora Questore di Napoli, Aldo Monarca, adotta per problemi di ordine pubblico. Le batterie di fuoco della “Nuova camorra organizzata”, molto probabilmente, ne avrebbero approfittato per compiere l’ennesima strage di quegli anni di morte e distruzione.

Gli altri fratelli-padrini

Giuseppe Lo Russo finisce in manette, il 13 novembre 1982, durante un summit di camorra a Forcella. A prenderlo, sono gli uomini dell’allora capo della Mobile, Franco Malvano. È ricercato da quasi un anno. Insieme a lui viene arrestato anche Ciro Mariano, boss dei Quartieri Spagnoli. Allora, Lo Russo è uno dei tanti padrini emergenti dell’area di Secondigliano, che si arricchisce con il contrabbando, il traffico di droga e il lotto clandestino.
Il 22 luglio 1998 è a Malaga, in Spagna, circondato gli agenti della polizia spagnola e dell’Interpol, che lo hanno bloccato dopo una fuga durata migliaia di chilometri. Lo Russo viene sorpreso in strada, a poca distanza dall’aeroporto: alle forze dell’ordine consegna una carta di identità contraffatta, intestata a un piccolo pregiudicato napoletano. Solo le impronte digitali lo tradiscono.
È un estremo tentativo, di cui – peraltro – si era servito pure qualche anno prima, in occasione di un precedente arresto: in quell’occasione, la carta d’identità intestata a Vincenzo Taglialatela era quasi passata inosservata. Solo il sospetto di un poliziotto, che aveva notato come la fotografia fosse molto più recente, aveva impedito la beffa.
Due giorni dopo, Giuseppe Lo Russo è già in Italia, in una cella del carcere di Rebibbia, lontano dal lusso e dalle comodità del soggiorno iberico. Negli anni successivi, verrà coinvolto in nuove indagini della Dda per associazione camorristica e traffico di stupefacenti. È attualmente detenuto.
Suo fratello Mario, invece, viene arrestato nel marzo del 2002, per una serie di estorsioni a imprenditori impegnati nella realizzazione di opere edilizie (alloggi, scuole, parchi) nella periferia nord di Napoli. Le indagini del commissariato Scampia, disposte dal pm Giovanni Corona, accertarono che Lo Russo aveva raggiunto un accordo, per la divisione delle aree di competenza e del business, con l’allora sconosciuto gruppo di Paolo Di Lauro: era stata taglieggiata finanche la ditta incaricata dell’abbattimento della “Vela 2”, a Scampia. Appena un anno prima, al padrino erano stati confiscati beni per un miliardo di lire.
L’ultimo dei fratelli, Carlo, il più giovane, ha all’attivo diversi arresti per favoreggiamento, armi, furto e ricettazione: lo bloccano, in un appartamento in via Janfolla, i carabinieri. È il 2 dicembre 1996. Lo Russo è latitante da un anno, quando scatta il blitz dell’Arma. Deve scontare trenta mesi di carcere. Nel 2002, è tra gli undici indagati in una inchiesta della procura antimafia di Napoli su un traffico di stupefacenti gestito dalla camorra di Secondigliano in collaborazione con i clan dei Quartieri Spagnoli.
Della famiglia Lo Russo, intanto, iniziano a parlare vecchi e nuovi collaboratori di giustizia, che offrono lo spunto per l’avvio di altre inchieste. Si scopre così che i fratelli sono entrati in rotta di collisione con i Licciardi, fuoriuscendo – in pratica – dal vertice dell’Alleanza di Secondigliano.

Il boss Lo Russo regista occulto delle faide

Da almeno trent’anni è tra i protagonisti del crimine organizzato napoletano, Salvatore Lo Russo. «Regista occulto» e «uomo ombra», per usare le parole degli investigatori, degli affari illeciti e dei grandi delitti della periferia nord, negli anni Ottanta milita – insieme ai Giuliano, ai Mallardo e ai Contini – nelle fila della “Nuova famiglia”. Tempi di lotta, tempi di sangue, quelli contro i cutoliani, soprattutto a Secondigliano, dove si consuma la battaglia tra le batterie di fuoco rivali che lascia sull’asfalto centinaia di morti ammazzati.
Sterminati i nemici e sciolto il maxi-cartello, Lo Russo s’insedia – insieme ai suoi fratelli – al rione San Gaetano, a Miano, da dove tesse una fitta rete di rapporti diplomatici e di affari con le nuove cosche cittadine e della provincia. I processi per associazione camorristica, lottonero e droga, e le frequenti detenzioni non ne impediscono la crescita malavitosa, tant’è che nell’ottobre del 1992 una inchiesta della Dda di Bologna lo indica come il capo di una agguerrita banda che imperversa sulla riviera romagnola per taglieggiare i commercianti e “controllare” le forniture ai venditori ambulanti. Pochi mesi dopo, finisce in manette mentre partecipa a un banchetto nuziale al ristorante “L’oasi” di Giugliano. Il padrino era il compare dello sposo, “picciotto” del clan. Per bloccarlo, si rese necessario l’intervento di centocinquanta uomini della Squadra mobile, che circondarono i locali e bloccarono ogni via di fuga. Solo dopo si scoprì che al matrimonio era attesa la partecipazione a sorpresa di Bobby Solo. La bomboniera per il compare, un collier d’oro massiccio, quella sera restò tra le mani dell’incredulo sposo.
Nel 1996, viene raggiunto da un ordine di cattura nell’ambito dell’inchiesta scaturita dal pentimento di Antonio Ruocco, ex capozona di Mugnano in guerra contro i Prestieri. Al termine del dibattimento, Salvatore Lo Russo viene assolto, insieme agli altri capi della camorra cittadina finiti sotto processo: Paolo Di Lauro, Angelo Nuvoletta, Giuseppe Polverino, Giuseppe Mallardo e Rosario Pariante. Nell’estate del 2007, la Direzione distrettuale antimafia di Napoli lancia la definitiva offensiva contro il padrino, da qualche settimana tornato in libertà, dopo la decisione del Riesame di annullare un precedente decreto di fermo per associazione camorristica. Secondo i giudici, Salvatore Lo Russo non doveva restare in galera per mancanza del pericolo di fuga.
I magistrati, comunque, non devono attendere molto, per rivederlo ai ceppi: nel giro di un paio di mesi, accumulano tante di quelle prove da ottenere una nuova e più solida ordinanza di custodia in carcere. A parlare del capoclan è il pentito Giuseppe Misso jr, con cui era stato in contatto durante le faide di Secondigliano e della Sanità, a ridosso tra il 2004 e il 2005.
E i riscontri arrivano, puntuali, anche grazie alle cimici installate a bordo dello yacht del boss. Le microspie registrano i piani di espansione della cosca, mentre Lo Russo discute con i suoi uomini di fiducia. Non sa di essere ascoltato e così parla senza grandi preoccupazione.
Il 30 agosto, scatta il nuovo blitz. E il volto arrogante del padrino, che uscendo dal comando provinciale dei carabinieri sbeffeggiava giornalisti e fotografi, alzando il dito medio, immortalato nelle immagini di qualche tempo prima, stavolta, è teso, nervoso. Come dirà il colonnello Gaetano Maruccia, «sa che non uscirà tanto facilmente».

La storia del clan Lo Russo

I pentiti che ne parlano, dagli anni Novanta in poi, li descrivono come personaggi doppiogiochisti e ambigui, inclini ai rapporti occulti e alle situazione torbide, in cui non si riesce mai a capire da che parte stiano. Nel corso delle faide di Secondigliano e della Sanità, pur apparendo formalmente neutrali negli scontri in atto, hanno appoggiato in maniera sotterranea gli “scissionisti” di Raffaele Amato e quelli di Salvatore Torino. E ancora: durante la loro militanza nell’Alleanza di Secondigliano, segretamente hanno aiutato Giuseppe Misso nell’aggressione ai Licciardi, con i quali i rapporti si erano nel frattempo guastati, tant’è che un loro affiliato finisce in galera per l’omicidio di Gennaro Esposito, detto ’o curto, cognato del boss Gennaro Licciardi. Un omicidio che, per la malavita del rione Sanità, assume un forte valore simbolico, perché vendica l’uccisione di Assunta Sarno, compagna di Misso, avvenuta alcuni anni prima.
I fratelli Lo Russo (Salvatore, Giuseppe, Mario e Carlo) iniziano la militanza criminale all’alba degli anni Ottanta, quando entrano a far parte – insieme ai Licciardi, ai Mallardo, ai Contini e ai Mazzarella – del cartello anti-cutoliano, allora guidato in città da Luigi Giuliano e in provincia da Carmine Alfieri.
Il 15 marzo 1984 rientrano nella famosa maxi-operazione, ordinata dalla procura partenopea, che porta in galera 550 camorristi affiliati alla “Nuova famiglia”. Tra gli indagati, ci sono personaggi del calibro di Antonio Spavone, detto ’o malommo, Ciro Mazzarella, Luigi Vollaro, Michele Zaza e Antonio Bardellino.
Nel Duemila, raccontano le informative delle forze dell’ordine, i Lo Russo sono a capo di un piccolo “esercito”, composto da oltre centinaio di uomini agguerriti, che dilaga nei quartieri di Miano, Piscinola e Marianella, taglieggiando piccoli imprenditori e negozianti e spacciando migliaia di bustine di droga.
Nel corso degli anni, i Lo Russo hanno dovuto affrontare diverse situazioni di criticità, sia interna che esterna, come – ad esempio – la scissione del boss Ettoruccio Sabatino (recentemente passato a collaborare con la giustizia) e le guerre contro i Sarno, i Licciardi e gli Stabile. Hanno cercato, comunque, di mantenere rapporti di non belligeranza con le altre famiglie di Secondigliano, come i Di Lauro, con i quali – anzi – si sviluppò col tempo una conveniente sinergia criminale per la spartizione delle estorsioni nei rispettivi territori di competenza.
IL GIOCO D’AZZARDO - Droga e racket, dunque, gli affari principali dell’organizzazione, anche se la vera “passione” della famiglia restano sempre le scommesse clandestine. Racconta il pentito Guglielmo Giuliano, con cui i Lo Russo sono stati alleati, in passato, proprio per la gestione del gioco d’azzardo: «Nel 1995 le estrazioni del lotto fecero uscire numeri non pescati da tantissimo tempo; le famiglie vennero sbancate e da lì fu abbandonata la strada dell’accordo unitario… Mio fratello Salvatore e poi io ci siamo occupati negli ultimi tempi di questo settore e a Forcella guadagnavamo non più di 30 milioni a settimana. Prima del crollo l’incasso era di 2 miliardi a settimana e il guadagno netto, pari a circa il 50 per cento, andava diviso in quota tra quattro famiglie (Giuliano, Lo Russo, Mariano e Mazzarella, ndr)… Il gioco è stato inventato negli anni Ottanta da Luigino (il fratello maggiore, Luigi Giuliano) e da Giuseppe Avagliano… l’accordo storico era con i clan di Secondigliano, con i quali si dividevano i proventi a metà… Ciascuna famiglia organizzava le cose da sola e non vi era divisione dei proventi, ma le quote legate alla singola partita, ossia le percentuali che un giocatore avrebbe vinto, erano unificate in tutto il territorio cittadino. A rendere omogenee le quote ci pensava Salvatore Lo Russo, che poi le inviava agli altri capiclan per l’approvazione. I guadagni del totocalcio sono stati anche maggiori dei 2 miliardi a settimana che rendeva il gioco del lotto. Noi di Forcella, avevamo una credibilità così elevata che a volte dovevamo dirottare gli scommettitori che si rivolgevano a noi verso altre zone di Napoli». Dichiarazioni confermate anche da un altro dei fratelli Giuliano, che aggiungerà: «L’occasione per riunificare le quote fu rappresentata dai Mondiali di calcio del ’90, anche se poteva accadere che l’accordo non veniva rispettato». Raffaele Giuliano, nel corso dei suoi interrogatori, accennerà pure all’esistenza di partite truccate, senza poter però essere in grado di offrire informazioni dettagliate sui meccanismi e sui personaggi coinvolti. In particolare, parlò soltanto di un «Ciruzzo ’o chianchiere, che insieme a tale Carletto prendeva le giocate ma che puntò anche una forte somma su una partita sul banco controllato da San Giovanniello. Vinse 4-500 milioni ma si venne a sapere che la partita era stata truccata per cui fu costretto da quelli di San Giovanniello a restituire la vincita, fu malmenato e costretto a versare al clan una forte somma di denaro».
Peraltro, lo stesso Salvatore Lo Russo, nel corso di un interrogatorio, si giustificherà davanti al pm Antimafia Sergio Amato, che ha condotto la quasi totalità delle inchieste sulla cosca del rione San Gaetano, ottenendo decine di arresti e pesanti condanne, di essere soltanto un appassionato scommettitore. E, di questa sua mania per il calcio, nazionale ed estero, resterà traccia in una intercettazione ambientale, nella quale si ascolta il vecchio boss discutere di partite e di classifiche con i suoi affiliati.
I RAPPORTI CON MARADONA – Il clan Lo Russo compare, inoltre, nelle indagini sul giro di droga che, nel febbraio 1991, coinvolge anche Diego Armando Maradona. Il nome del campione argentino compare in due telefonate spiate tra i trafficanti della cosca a proposito di una imprecisata richiesta di «“roba” e donne». Nel 1995, il rapporto tra il Pibe de Oro e la famiglia dei “capitoni” viene nuovamente rimesso al centro dell’attenzione investigativa dal pentito Pietro Pugliese, che racconta di aver personalmente accompagnato il giocatore da Salvatore Lo Russo, per trattare la restituzione di alcuni beni rapinati all’asso sudamericano, tra cui anche il Pallone d’oro. Contestazioni, comunque, rimaste prive di riscontro processuale.
La conferma, invece, che la banda del rione San Gaetano, negli ultimi anni, avesse allargato il proprio business anche al traffico di armi arrivò dal blitz che il 28 giugno 2000 portò la polizia a scoprire un autentico arsenale nascosto all’interno di una Fiat Punto in via Mianella, alla periferia settentrionale del capoluogo. Nella vettura erano nascosti un fucile mitragliatore, tre fucili automatici, quattro bombe a mano e centinaia di munizioni. Di lì a poco sarebbero stati utilizzati per una nuova guerra nell’inferno di Secondigliano.

La strategia terroristica dell'Alleanza di Secondigliano

La caratteristica forse più inquietante della camorra di Secondigliano è il ricorso, sistematico, a forme estreme di violenza, che difficilmente si erano viste all’ombra del Vesuvio. Una strategia del terrore che si manifesta in tutta la sua potenza in più di un’occasione: il 25 aprile 1998, a Ponticelli, il gruppo di Antonio De Luca Bossa, legato all’Alleanza di Secondigliano, piazza un ordigno nella vettura blindata guidata da Luigi Amitrano, nipote dei boss Sarno. La vettura, blindata, salta in aria e l’occupante muore.
Il 2 ottobre successivo, un’altra autobomba esplode nel cuore del rione Sanità, con l’obiettivo di uccidere Giulio Pirozzi, “braccio destro” del padrino Giuseppe Misso, nemico dei Licciardi. L’attentato non provoca vittime, ma fa contare ugualmente tredici feriti. Il giorno dopo, sabato 3 ottobre, un manipolo di camorristi, sempre legati all’Alleanza di Secondigliano, cerca di ammazzare con un colpo di bazooka il boss Pietro Lago, ma il proiettile – contundente e non esplosivo – manca il bersaglio e squarcia un albero.
Ma, andando ancora più indietro nel tempo, ci si accorge che le prove generali della guerriglia civile di stampo camorrista c’erano state già a partire dal 1991, secondo quanto racconta il pentito Rosario Privato, ex killer del Vomero: «Un attentato è stato effettuato nel 1991 quando Antonio Caiazzo e Gennaro Formigli hanno collocato nell’auto di Peppe ’a viola (Giuseppe Ceglia, appartenente alla cosca rivale, ndr) una bomba. La notte fu collocata la bomba ed il pomeriggio successivo Giovanni Alfano, a bordo di un’autovettura nella quale si trovava con Alessandro Desio, premette il telecomando che fece esplodere l’autovettura alla Torretta. Peppe ’a viola saltò in aria con tutta la macchina ma rimase solo ferito».
Peraltro, a vivere sulla propria pelle la ferocia “secondiglianese” sarà proprio Privato, cui sarà ammazzato uno zio come vendetta trasversale per la sua decisione di collaborare con la giustizia.
La vittima, Giovanni Arpa, soprannominato ’o pazzo, per il suo carattere esuberante ma sostanzialmente innocuo, venne rapito da un commando di malavitosi mentre si trovava in via Sigmund Freud, al rione Alto, e impiccato allo stipite di una porta, all’interno di una masseria, in località Casinelle, a Chiaiano. L’uomo, di sessantotto anni, morì dissanguato.

Costantino Sarno, il pentito fuggiasco

Costantino Sarno ha 32 anni, quando l’allora capo della sezione Omicidi della Squadra mobile di Napoli, Franco Gratteri, attuale numero uno della Direzione anticrimine della polizia, lo sorprende in un appartamento a Poggioreale, insieme a Eduardo Contini e Gaetano Bocchetti e altre tre camorristi. È il 13 settembre 1985.
Dieci anni dopo, Sarno è uno dei boss più feroci dell’hinterland, capozona per conto dell’Alleanza di Secondigliano a Miano e San Pietro a Patierno.
Protagonista di una guerra particolarmente violenta con la banda dei fratelli Stabile, radicata nel vicino quartiere di Chiaiano, finisce di nuovo in manette il 1° giugno 1997, all’aeroporto di Fiumicino, dopo cinque anni di latitanza. Gli agenti della Dia lo ammanettano appena sceso da un aereo proveniente da Belgrado. Nella ex Jugoslavia, il padrino ha installato una fiorente attività di contrabbando, che è al centro di una faida con i Licciardi, ai quali Sarno non vuole riconoscere una percentuale sui profitti. Il nuovo conflitto che ne segue porterà alla scomparsa per “lupara bianca” di 4 affiliati al gruppo del padrino Sarno: suo cognato Roberto Rosica, Walter Mallo, Arturo Galiano e Nicola Mirti.
Dopo l’arresto, decide, a sorpresa, di collaborare con la giustizia e di raccontare affari e misteri della potente camorra secondiglianese. La notizia del suo pentimento esplode come una bomba negli ambienti criminali cittadini e offre la possibilità agli inquirenti di entrare, per la prima volta, nel “cuore” delle organizzazioni della periferia nord di Napoli.
Il ripensamento ha però il sopravvento e così, ottenuta la libertà per passare la festa di Capodanno in famiglia, all’alba del 2 gennaio 1998, scappa dalla località protetta e si dà alla macchia. Si scopre che, in quel periodo, tratta con Maria Licciardi una maxi-tangente da un miliardo di lire per ritrattare le sue confessioni alla magistratura, ma il giorno di San Valentino di quello stesso anno gli agenti delle Squadre mobili di Firenze, Venezia e Napoli gli sono addosso. La fuga del pentito si interrompe a pochi chilometri dal campanile di San Marco. Costantino Sarno viene arrestato in una mansarda a Caorle. Quando si accorge dell’arrivo dei poliziotti, impugna la pistola e minaccia di usarla. Dopo venti minuti, è già in Questura, davanti al pm.

Tre fratelli, tutti capi

Il clan Licciardi ha visto la successione, al comando, di ben tre fratelli, dopo la morte dello storico boss Gennaro: Vincenzo, Maria e Pierino.
Il primo viene arrestato, su mandato dei pm Luigi Gay e Federico Cafiero De Raho, il 30 agosto del 1994 al casello autostradale di Napoli Nord. Il boss è seguito, silenziosamente, da una gazzella dei carabinieri che lo blocca al momento di pagare il pedaggio. Il casellante, infatti, è stato sostituito da un militare che non alza la sbarra, impedendo la fuga del ricercato. È accusato di associazione camorristica, racket e droga.
Scarcerato il 16 giugno 2002 dal carcere di Trani per fine pena, nel luglio 2004 viene coinvolto nella maxi-inchiesta del pm Antimafia Filippo Beatrice, che smantella la rete internazionale dei “magliari” della cosca, assestando un colpo terribile al “polmone finanziario” della famiglia.
Dall’indagine emerge che, nel corso della detenzione, pur se sottoposto ai rigori del 41bis, Vincenzo Licciardi era riuscito a comunicare con i suoi affiliati e, in un caso in particolare, li aveva addirittura avvisati della sua futura liberazione, scrivendo: «Non pensate che io muoio carcerato». In effetti, tornerà in circolazione di lì a poco.
La latitanza del padrino è particolarmente rocambolesca, visto che per tre volte le forze dell’ordine arrivano a sfiorarne la cattura. Ma la fortuna è dalla sua parte, almeno inizialmente. In un’occasione è costretto, addirittura, a scappare attraverso le fogne.
La lunga fuga termina, comunque, quattro anni dopo, il 7 febbraio 2008, in una graziosa villetta a Cuma, sul litorale flegreo: gli agenti della Squadra mobile, diretti da Vittorio Pisani, lo bloccano all’alba. Insieme a lui, ci sono la moglie e due amici, poi arrestati per favoreggiamento. La perquisizione nell’appartamento porterà alla luce alcuni “pizzini”, usati per comunicare con i suoi affiliati durante i frequenti spostamenti da un covo all’altro, e una forte somma di denaro contante.
Vincenzo Licciardi è stato l’ultimo esponente della cosca della Masseria Cardone a finire in galera: prima di lui, il 14 giugno 2001, era toccato alla sorella Maria, fermata dalla polizia, a Melito, mentre si trovava in auto, in compagnia di una coppia. A parlare di lei era stato anche il pentito Carmine Alfieri, che ai giudici l’aveva descritta come una vera e propria “manager” del crimine, cui il defunto fratello Gennaro aveva affidato parte della gestione del malaffare tra Secondigliano e Miano. È indagata per la strage in cui persero la vita la convivente del boss Giuseppe Misso, Assunta Sarno, e Alfonso Galeota, ed è stata recentemente scarcerata.
Il terzo e ultimo fratello, Pierino, viene invece catturato a Praga nel giugno 1999 e processato per l’autobomba in via Cristallini, al rione Sanità, del 2 ottobre 1998. Partendo dalla sua assunzione in un negozio di abbigliamento nella Repubblica Ceca, gli investigatori riescono a ricostruire la fitta trama di interessi e accordi finanziari internazionali della famiglia criminale.

Il profilo criminale di Gennaro Licciardi

Associazione camorristica, concorso in omicidio, detenzione abusiva di armi e spari in luogo pubblico: con queste accuse, il 28 gennaio 1981, finisce in galera Gennaro Licciardi, all’epoca poco più che ventenne. Insieme al futuro cognato, Gennaro Esposito, ’o curto, è ritenuto l’esecutore materiale dell’agguato costato la vita a una coppia di cutoliani, originaria del Salernitano.
In cambio, secondo l’informativa dei carabinieri del gruppo “Napoli 1”, i due killer avrebbero ricevuto una “Volkswagen” ciascuno.
Al momento dell’arresto, Licciardi viene trovato in possesso di gioielli rubati, per un valore di trenta milioni di lire, nonché di dieci milioni in contanti tra i quali una banconota da 50mila lire proveniente dal riscatto pagato per la liberazione di un ostaggio, avvenuta a Milano nel novembre del 1980.
A quel tempo, è indicato come uomo di fiducia del boss Luigi Giuliano e tra i più feroci sicari del Napoletano. In alcuni rapporti di polizia, si ipotizza che possa addirittura essere il “bombarolo” che ha fatto saltare in aria un’automobile davanti all’abitazione di Raffaele Cutolo, a Ottaviano, provocando una lunga scia di vendette contro gli appartenenti alla Nuova famiglia.
Nell’82 rimane ferito in una sparatoria avvenuta all’interno delle camere di sicurezza del Tribunale di Napoli, mentre si trova in attesa di un processo. A fare fuoco è un cutoliano, Michele Montagna, di Sant’Antimo, che così risponderà al giudice sul possesso dell’arma, una volta bloccato dagli agenti di custodia: «L’ho avuta in sogno dal Padreterno».
La dissoluzione della Nco porta, ben presto, Licciardi a conquistare un ruolo autonomo e predominante nello scacchiere criminale partenopeo, tanto che già agli inizi degli anni Novanta viene considerato il padrino incontrastato della periferia nord.
Il 23 marzo 1992 viene catturato, a un posto di blocco, pochi minuti dopo il blitz che ha portato in manette – per una incredibile e fortunatissima coincidenza – pure Francesco Mallardo. I due, insieme a Edoardo Contini, fanno parte del vertice dell’Alleanza di Secondigliano, il maxi-cartello criminale che, a quel tempo, sta attuando una inarrestabile espansione su tutto il territorio cittadino per impossessarsi, seguendo il folle modello camorristico ipotizzato da Raffaele Cutolo, della totalità dei traffici illeciti di Napoli e della sua provincia. Licciardi, con tutta probabilità, quel giorno doveva incontrarsi proprio con Mallardo in un casolare nelle campagne di Giugliano.
Due anni dopo, esattamente il 2 agosto 1994, il boss di Secondigliano muore nell’ospedale di Voghera, dov’era stato trasferito d’urgenza per un’infezione intestinale. Una settimana prima, i medici lo avevano operato per un’ernia ombelicale. L’autopsia chiarirà che la morte è stata provocata da choc settico per una serie di complicazioni post-operatorie.
I funerali si tengono in forma strettamente riservata tre giorni dopo. A scortare la bara di Licciardi fino al camposanto di Poggioreale sono gli uomini della Squadra mobile e del commissariato di Secondigliano. Oltre cinquanta corone di fiori, tutte rigorosamente anonime, addobbano la cappella dove la salma viene benedetta e inumata.
Qualche anno prima, nel corso di un processo, incalzato dal magistrato, Gennaro Licciardi aveva fatto mettere a verbale: «La Nuova famiglia? So che esiste, perché l’ho letto sui giornali…»

La storia del clan Licciardi

Per il clan Licciardi, così come per talune realtà camorristiche che hanno raggiunto dimensioni e organizzazione non più da banda rionale, ma da network criminale internazionale, valgono poco o nulla le categorie di “territori controllati” e “affari gestiti”. Lo spiega bene Filippo Beatrice, attuale sostituto procuratore alla Direzione nazionale antimafia, con un passato alla Dda partenopea, e titolare dell’inchiesta sui “magliari” di Secondigliano: «Quell’indagine dimostrò come l’Alleanza di Secondigliano avesse non solo una spiccata capacità militare, ma anche una dirompente forza economica, in Italia e nel mondo. Partendo dalla conquista dei mercati dell’est europeo, arrivò a controllare l’intera rete dei “magliari”, che prima era più o meno autonomamente organizzata».
Di quel filone investigativo, sfociato nel luglio del 2004 in decine di arresti e sequestri per centinaia milioni di euro, Beatrice ricorda un particolare specifico, che offre ben più di un indizio della potenza finanziaria della cosca: «Gli affiliati, che operavano negli Usa, e in particolare negli Stati di New York e della California, godevano di una speciale rete di protezione, che assicurava loro assistenza legale e copertura per determinate operazioni. Intuimmo che la cosca stipendiava anche alcuni poliziotti americani per lavorare in tranquillità. Segnalammo la traccia agli agenti dell’Fbi, ma non so, in concreto, se la pista sia stata sviluppata in seguito».
L’ULTIMA INCHIESTA – Gli arresti dei capi rimasti in libertà (i fratelli Pierino, Maria e Vincenzo) e l’evoluzione del quadro criminale cittadino (la scomparsa di vecchi alleati e la formazione di nuovi gruppi, come gli “scissionisti” guidati da Raffaele Amato e Cesare Pagano) hanno ridimensionato molto la sfera d’influenza dell’Alleanza di Secondigliano, sfrondata degli ultimi rami da una robusta azione di contrasto sviluppata dalla magistratura partenopea e dalle forze dell’ordine, sia sul fronte patrimoniale che su quello militare.
L’ultima inchiesta, risalente al luglio del 2008, ha portato in galera ciò che restava del vecchio sodalizio, compresi fiancheggiatori e “colletti bianchi”. Un’inchiesta nata grazie alle intercettazioni attivate per la cattura di Vincenzo Licciardi, che ha squarciato il velo di connivenze e complicità che hanno permesso alla famiglia malavitosa di accumulare un vero e proprio impero economico del valore, approssimativo, di oltre 330 milioni di euro. Gli interessi commerciali erano i più svariati: dal settore calzaturiero al tessile, con imprese operanti tra Casoria e San Pietro a Patierno, nonché decine di negozi di abbigliamento individuati a Napoli e a Roma, in Basilicata e in Toscana.
Il vero “core business” del clan Licciardi consisteva, però, nel riciclaggio di denaro sporco nel comparto immobiliare, nel quale i padrini hanno operato indisturbati per anni. È stato accertato, nel corso delle indagini, che la famiglia malavitosa, attraverso un gioco di scatole cinesi, avrebbe controllato l’“Immobiliare San Salvatore srl”, con 43 immobili a Casoria; la “House & House Immobiliare srl”, titolare di un deposito e sei appezzamenti a Foiaino della Chiaia (Arezzo), quattro appartamenti e quattro garage a Montignoso (Massa Carrara); la “Rocap spa”, titolare di due immobili a Roma; la “Immobiliare Amica srl” a Casavatore e l’“Immobiliare Stadera srl”, proprietaria di 43 negozi, per 2mila e 600 metri quadrati di superficie complessiva, e sei appartamenti a Casoria.
PENTITI PREZZOLATI – Le indagini sul clan rivelano anche i tentativi, incoraggiati dai capi detenuti, di bloccare le collaborazioni con la giustizia, vera e propria ossessione della criminalità organizzata. Un risultato che i Licciardi raggiungono sia assicurando la copertura delle spese legali agli affiliati finiti in carcere, sia arrivando a contrattare – quando possibile – il prezzo del silenzio direttamente con il pentito. È il caso di Costantino Sarno, alla cui moglie – si legge nelle carte processuali – «la famiglia Licciardi corrisponde mensilmente…. la somma di dieci milioni di lire».
La circostanza emerge nel colloquio intercettato in carcere, nel 2001, tra Maria Licciardi e il marito, Antonio Teghemie, allorquando la prima, avuta notizia dell’interruzione del pagamento alla donna, «sollecitava» il secondo «che sembrava non essere al corrente della questione… a contattare Edoardo Contini, il quale evidentemente contribuiva al sostegno economico della famiglia di Sarno, avendo processualmente tratto un indubbio e personale vantaggio dalla ritrattazione». Maria Licciardi, al riguardo, è lapidaria: «Evidente nun ’o pensa, che è sciuto pe l’omicidio. E Custantino nun parla». Edoardo Contini, a quell’epoca, infatti, era stato scagionato da un’accusa di omicidio proprio perché le prime dichiarazioni di Costantino Sarno non avevano avuto seguito a livello processuale.
E PENTITI DISSOCIATI - In un successivo brano, tratto sempre dall’inchiesta sui magliari, il gip scrive dei «riferimenti degli interlocutori a un loro importante affiliato, Luigi Esposito… capozona per conto della famiglia Licciardi nel rione Berlingieri» che «dopo l’omicidio del fratello Carmine, avvenuto il 14 gennaio 1997, aveva iniziato a collaborare con l’autorità giudiziaria, indicando in Gaetano Bocchetti uno dei probabili mandanti. Dopo la sua scarcerazione, Esposito aveva cessato ogni attività di collaborazione, rendendosi irreperibile». Esposito, conosciuto con il soprannome di “Nacchella”, però, «aveva fatto pervenire una duplice dichiarazione di fedeltà alla famiglia e di disponibilità ad offrire il suo contributo per la realizzazione di azioni militari… egli, infatti, aveva sminuito il suo contributo collaborativo, da un lato asserendo di esservi stato costretto in ragione della sua pesante situazione processuale (“chilli me stevano affunnanno”), dall’altro di aver proceduto a dichiarazioni accusatorie, il cui contenuto non era compromettente per la famiglia Licciardi, come si sarebbe potuto facilmente verificare, leggendo le carte processuali (“Io nun aggio ritto niente ’e straordinario… prova a leggere ’ngoppa ’e carte… io aggio fatto finta)».
Antonio Teghemie conclude la discussione ricordando alla moglie che l’ex collaboratore di giustizia aveva ribadito, ancora una volta, la sua fedeltà all’organizzazione della Masseria cardone, con queste parole: «Si caso mai che serve pe cocche battuta…». Paragonando l’omicidio di un cristiano a una battuta di caccia.

Natale di lutto per l'attentato al boss

Fu il segno immediatamente percettibile del reale potere della camorra, a Secondigliano, e della sua capacità di indirizzare, frenando o accelerando, le attività quotidiane dei suoi abitanti.
Ancora a distanza di sette mesi da una delle stragi più spietate della storia della malavita napoletana, avvenuta al “Bar Fulmine”, all’interno del rione Monterosa, il clan Prestieri decise di continuare a imporre il lutto all’intero quartiere. Niente luminarie, niente addobbi per quel Natale di lacrime, nonostante gli ornamenti, molto spesso, rappresentassero il paravento per il pagamento del racket. La festività della Natività venne letteralmente cancellata da un clima di terrore a cui nessuno decise di contrapporre la volontà di reagire. Il solo parroco della chiesa della Resurrezione, don Vittorio Siciliano, cercò di offrire una lettura diversa dei fatti, affermando che non si trattava di una volontà delle cosche, ma di un «sentimento di lutto che coinvolge un po’ tutti, parenti ed amici dei giovani uccisi il maggio scorso».
La strana vicenda, però, non sfuggì al Questore e al Prefetto dell’epoca, tant’è che sia il primo (Ciro Lo Mastro) che il secondo (Umberto Improta) decisero di predisporre un piano di controllo particolare per i quartieri a nord di Napoli, dove – a quel tempo – si registrava la furibonda battaglia tra gli esponenti del clan Prestieri, dietro cui si celava la cupola di Paolo Di Lauro, e gli affiliati al sottogruppo criminale di Mugnano, guidati da Antonio Ruocco.
Ci fu un particolare, in quei giorni, che finì al centro del comitato cittadino per l’ordine e la sicurezza: il divieto di vendere i botti di Capodanno, a Secondigliano e Scampia. Segno di rispetto, riportano le cronache dell’epoca, nei confronti dei boss del rione Monterosa, Maurizio e Tommaso Prestieri che, nella strage, avevano perso i due fratelli Rosario e Raffaele.
Solo un ambulante ebbe il permesso, dalla malavita locale, di poter allestire la propria bancarella a ridosso della saracinesca del “Bar Fulmine”, ancora chiuso, a quasi trenta settimane dall’attentato del 18 maggio 1992: era un venditore di uccellini.

Antonio Ruocco, il primo nemico

La storia criminale di Antonio Ruocco è, in pratica, la storia della guerra che lo vede contrapposto alle famiglie mafiose di Secondigliano. Guerra violentissima, nella quale – tra gli altri – cadono i fratelli Rosario e Raffaele Prestieri, vittime dell’attentato al “Bar Fulmine”, e la madre dello stesso Ruocco, trucidata da una coppia di killer a Mugnano.
Di lui parlano diversi pentiti dell’area nord di Napoli, tra cui Costantino Sarno e Gaetano Guida. La sua, raccontano, è una battaglia di sopravvivenza, che lo vede in inferiorità – strategica e militare – nei confronti del clan di Paolo Di Lauro, spalleggiato dai Prestieri, che intendono spodestarlo dal ruolo di capozona a Mugnano a favore di Salvatore Di Girolamo. Ruocco finisce in manette il 3 agosto 1992, dopo circa un mese di latitanza, in un appartamento di via Nikolajevka, a Milano, dove si è rifugiato dopo l’ultimo attentato nei confronti dei suoi familiari.
E tanta è la paura delle “bocche di fuoco” rivali, che Ruocco, scambiando i carabinieri per killer nemici, si lancia dal terzo piano dello stabile in cui vive. Alla fine del volo di diversi metri, miracolosamente riporta solo una ferita alla testa, non grave, che gli viene medicata in ospedale.
Il passaggio successivo è la collaborazione con la giustizia: non essendo riuscito a sconfiggere gli avversari sul piano degli omicidi e degli attentati, decide di provarci con le armi della legge.
Così, inizia a svelare ai magistrati i meccanismi e il funzionamento dell’allora sconosciuta maxi-cupola guidata da Paolo Di Lauro e trascina, grazie alle sue dichiarazioni, decine di camorristi alla sbarra, compreso l’imprendibile Ciruzzo ’o milionario. Al termine del processo, per ironia della sorte, saranno tutti assolti e l’unico condannato sarà proprio lui, Ruocco. Del suo caso si occupa pure la commissione parlamentare antimafia, nel 1995, quando si scopre che il neo-collaboratore di giustizia ha chiesto e ottenuto, dallo Stato, la protezione per 140 familiari.
Non tutti, però, lasceranno Mugnano per rifarsi una nuova vita e una nuova identità. Preferiranno restare nel Napoletano, convinti di essere ormai al sicuro dalle vendette della camorra.

Tommaso Prestieri, boss e impresario musicale

È uno dei personaggi più enigmatici del panorama camorristico partenopeo: racconta di sé come di un impresario che, saldati i suoi debiti con la giustizia, vuole vivere d’arte, eppure per i magistrati antimafia di Napoli – e per i giudici che l’hanno condannato – è un astuto e audace capoclan, titolare, insieme al fratello Maurizio, di una delle piazze di spaccio più ricche di Secondigliano: il rione Monterosa.
Le prime informazioni sul suo conto risalgono ai tempi dell’organizzazione della rassegna “Canzoni per Napoli”, al teatro Arcobaleno. È lui il “dominus” dello spettacolo, che annovera – agli inizi degli anni Novanta – ospiti d’onore come Fiordaliso, Mal, Bobby Solo, Rosalia Maggio, Nunzio Gallo e Mario Merola.
La carriera di promettente produttore musicale si interrompe, però, un anno dopo, quando finisce in galera con l’accusa di aver minacciato di morte il manager della Nazionale cantanti per il flop di una partita organizzata allo stadio comunale di Casavatore contro la locale squadra di calcio. Solo all’ultimo minuto, quando lo stadio è già pieno e il sindaco ha terminato il suo intervento di saluto, Prestieri viene a sapere del forfait degli azzurri. Il rimborso dei biglietti gli costerà sessanta milioni di lire.
Nel giugno 1994, viene coinvolto in una maxi-inchiesta della Dda, nata dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Ciro Martusciello, insieme ad altri trenta camorristi, ma sfugge alla cattura. La magistratura lo indica a capo di un gruppo criminale dagli interessi tentacolari: traffico di droga, estorsioni, riciclaggio, armi, contrabbando di sigarette.
I poliziotti lo bloccano, dieci giorni prima del Natale di quello stesso anno, all’interno dell’ospedale Cardarelli, dove si è recato per farsi ricoverare. Soffre di cuore, Prestieri. E, quello della malattia, sarà un tema ricorrente nella sua successiva produzione letteraria.
Quattro anni dopo è di nuovo fuori, sottoposto al regime di sorveglianza speciale, ma non passa molto per il successivo incontro con le forze dell’ordine. Gli agenti del commissariato Dante lo fermano, infatti, poco prima dell’inizio di uno spettacolo di neomelodici al Teatro Bellini, da lui organizzato. Di lì a poco, arrivano la condanna a tredici anni di reclusione e i trasferimenti nei vari penitenziari italiani e l’isolamento al 41bis.
Durante la detenzione, si avvicina alla scrittura e alla pittura, ma i problemi di salute mai risolti gli aprono per l’ennesima volta le porte del carcere. Ottiene prima gli arresti domiciliari e successivamente la libertà totale.
Nell’ottobre 2008, la Direzione distrettuale antimafia di Napoli lo arresta per il tentato omicidio di un impresario musicale, colpevole di aver organizzato un concerto di Carmelo Zappulla a Secondigliano senza l’autorizzazione del boss. A indicarlo come il mandante dell’agguato sono suo fratello Maurizio, da poco passato a collaborare con la giustizia, e suo nipote, Antonio Prestieri, anche lui giovane camorrista diventato pentito.

Il profilo criminale di Maurizio Prestieri

Maurizio Prestieri è stato, per anni, uno degli uomini più fidati del boss Paolo Di Lauro, tanto da poterlo accompagnare nei suoi viaggi all’estero – fu fermato a un posto di blocco, nel 1996, a Tolmino, al confine con la Slovenia, in compagnia di Ciruzzo ’o milionario e di Francesco Fusco, altro affiliato della cosca di Scampia – e curarne la protezione durante gli spostamenti a Napoli e nel resto d’Italia.
È sempre lui, infatti, che in occasione dell’interrogatorio in Procura di Paolo Di Lauro sull’aggressione al maestro della scuola frequentata dai figli, contatta gli altri “colonnelli” del network mafioso per organizzare il servizio di scorta. Sua è la voce, intercettata dagli agenti della Squadra mobile partenopea, che chiede a Vincenzo Di Lauro l’autorizzazione a «calzarsi», ad attendere – cioè – armato il rilascio del padrino.
Finisce in manette, una prima volta, nel settembre del 1991, quando i carabinieri del nucleo operativo “Napoli 1” lo sorprendono, in un appartamento in piazza Libertà, a Secondigliano, insieme ad altri tre complici e a otto chili di hashish, pronti per la suddivisione in dosi.
Nel febbraio 1998, in concomitanza con l’avvio delle prime, vere, indagini sul gruppo di Ciruzzo ’o milionario, finisce una seconda volta in galera sulla base di un decreto di fermo spiccato dall’allora pm Antimafia Luigi Bobbio. Prestieri si era infatti sottratto alle ricerche dopo un incidente stradale verificatosi il 26 novembre dell’anno precedente, sull’autostrada Roma-Napoli, nel quale erano rimaste uccise tre persone che viaggiavano su una Ford Galaxy, a lui intestata. A bordo della vettura, vennero ritrovati cinque chili di cocaina – del valore di decine di milioni di lire – che gli occupanti stavano trasportando dall’estero a Secondigliano. Ma la detenzione, pure in questo caso, non è molto lunga.
L’ordinanza di custodia cautelare per associazione camorristica e droga, spiccata nel settembre 2002, a carico di capi e gregari dei Di Lauro, lo costringe ben presto a ripararsi in Spagna, dove viene arrestato dai carabinieri del comando provinciale di Napoli. È il 29 giugno 2003, quando i militari e la Guardia civil lo bloccano all’interno di un bar a Marbella, mentre si trova in compagnia dei familiari. Aveva scelto quella località per le vacanze estive.
La magistratura lo indica come il capo del sottogruppo criminale che si occupa del malaffare nel rione Monterosa, da sempre ritenuto il “feudo” di camorra della famiglia Prestieri. Da quel momento, la vita passata tra lussi, viaggi, gioco d’azzardo e vagonate di miliardi guadagnate con il traffico di droga, diventa un amaro ricordo. Due anni dopo, arriva la condanna che lo confina, per un paio di decenni, in carcere. Prestieri soffre i rigori della detenzione e, così, decide di passare a collaborare con la giustizia, iniziando a svelare i mille misteri del potente clan di Paolo Di Lauro. Ai magistrati della Dda racconta gli esordi nel mondo del crimine, soffermandosi – in particolare – sulle strategie utilizzate dai narcos del suo ex gruppo per introdurre tonnellate di droga a Napoli.
Le informazioni di cui ha diretta conoscenza rappresentano, però, un problema per la camorra di Secondigliano, tanto che – nel corso di un interrogatorio – Prestieri afferma di aver ricevuto una offerta di un milione di euro in cambio della ritrattazione. Rifiuta la proposta e denuncia tutto alla magistratura. Partono le indagini. L’ex padrino – frequentatore di night club e casinò – non torna indietro e continua a riempire verbali su verbali sugli innominabili segreti della cosca di via Cupa dell’Arco.

La storia del clan Prestieri

Fino alla scoperta e al successivo smantellamento del network mafioso capeggiato da Paolo Di Lauro, la famiglia Prestieri è sempre stata ritenuta una formazione criminale a sé stante, con una propria organizzazione interna e una linea di successione ben definita. Nessuno avrebbe immaginato che il clan del rione Monterosa, per quanto ricco e agguerrito, non fosse altro che un’appendice di una gigantesca e sinistra struttura, capace di imporre il proprio predominio su Secondigliano e Scampia e nei vicini Comuni di Mugnano, Melito, Arzano, Casavatore, Bacoli e Monte di Procida.
LE ORIGINI – L’evoluzione del gruppo Prestieri è, dunque, strettamente legata all’invisibile espansione dei traffici illeciti della cupola di Ciruzzo ’o milionario, tant’è che – ancora negli anni Ottanta – le informative delle forze dell’ordine erroneamente indicavano Raffaele Prestieri, il più grande dei fratelli, come “uomo d’onore” del clan di Edoardo Contini e Gennaro Licciardi. A lui i poliziotti – nel dicembre 1989 – sequestrano beni per un valore di due miliardi di lire, tra cui un paio di appartamenti a Secondigliano, una profumeria, un negozio di ricambi elettrici e uno di casalinghi. Beni intestati, si legge nella relazione all’autorità giudiziaria, «intestati a compiacenti prestanome».
È solo con il pentimento di Antonio Ruocco, protagonista della strage di Secondigliano, però, che iniziano a delinearsi i contorni criminali nei quali si muove il gruppo dei Prestieri, ormai comandato dai fratelli superstiti, Tommaso e Maurizio. Sia Raffaele che Rosario, infatti, sono stati ammazzati davanti al “Bar Fulmine” da un commando entrato in azione con fucili mitragliatori e bombe a mano. Ma siamo ancora nel 1994, troppo presto per fare piena luce sulla famiglia mafiosa dei Di Lauro. Ci vorranno ancora parecchi anni perché un magistrato ordini l’arresto dei capi e dei colonnelli della maxi-cosca di via Cupa dell’Arco, mettendo fine a predominio durato quasi un quarto di secolo.
Racconta il pentito Costantino Sarno, nell’interrogatorio del 3 luglio 1997, a proposito della guerra tra i Prestieri e Ruocco: «Lo scontro nacque all’interno del gruppo di Ciruzzo, in cui Ruocco si lamentava per esser stato tenuto in poca considerazione. Io avvertii Ruocco che volevano ucciderlo, e così riuscì a salvarsi. Ne nacque uno scontro furibondo. Io volevo aiutare ed aiutai i Ruocco, perché mi sembrò assurdo che si colpissero anche le donne (fu infatti uccisa anche la madre del capoclan, ndr), ma Gennaro (Licciardi, ndr), i Mallardo e Contini non ne vollero sapere di schierarsi».
Sarà proprio Ruocco, passato a collaborare con la giustizia, a raccontare gli esordi criminali del clan Prestieri, collegandolo alla militanza prima nel gruppo di Aniello La Monica e, successivamente, in quello di Di Lauro. Ai pm antimafia, l’ex capozona di Mugnano conferma: «Appresi successivamente che l’agguato a Ciro ’o milionario era rivolto solo alla sua persona e non anche a Raffaele Abbinante, che si trovava per caso insieme a lui. Dopo tale agguato, alcuni affiliati del gruppo inizialmente capeggiato da La Monica, decisero di staccarsene. Seguirono quindi Ciro ’o milionario: Raffaele Abbinante, Mimì Silvestri, Rosario Pariante, Raffaele Prestieri e Paolo Micillo. Ovviamente, questi ultimi, a loro volta, avevano dei gruppi di ragazzi che lavoravano per conto loro. Peraltro, appresi, ma solo in seguito, che l’omicidio di La Monica era voluto anche dai Nuvoletta e ciò per vecchi contrasti tra questi e Michele Zaza, notoriamente ricollegabile a La Monica».
IL POTERE ECONOMICO – Le indagini della magistratura offrono, del clan Prestieri, un’immagine particolarmente complessa: è una organizzazione che, principalmente, tratta droga, attraverso i canali del clan Di Lauro, ma si arricchisce anche con il racket delle estorsioni e con il traffico di armi, oltre che con una miriade di reati minori che sfamano un esercito di affiliati.
Fattura quanto una media azienda e i suoi capi sono conosciuti, nel quartiere, per la loro ricchezza. Non fece, dunque, meraviglia che nel febbraio del 2002, nella tabaccheria-ricevitoria di via Attilio Micheluzzi, a Secondigliano, comparvero dei manifesti con cui il boss Maurizio Prestieri rendeva pubblica la sua straordinaria vincita (?) al lotto: un terno da un miliardo e centocinquanta milioni di lire, 8-15-23 giocato il 7 ottobre 2000, e un ambo da cinquecento milioni, 20-41 giocato il 24 gennaio 2001; per un totale di quasi due miliardi.
Un comportamento, davvero singolare, quello di manifestare a tutti la propria ricchezza, che alimentò non poche illazioni sull’origine della maxi-vincita: ci fu chi commentò la strana pubblicità come un ulteriore segnale di “rispetto” di cui godeva la famiglia, e chi – invece – più direttamente pensò che si trattasse di uno stratagemma per evitare probabili indagini per riciclaggio ad opera della procura antimafia di Napoli. Indagini, peraltro, che la magistratura partenopea avviò subito.
LA FAIDA E I PENTIMENTI – La fedeltà dei Prestieri alla cupola di Paolo Di Lauro inizia a vacillare durante la guerra del 2004, quando i figli del padrino – Cosimo, Ciro e Marco – decidono di soffocare nel sangue un tentativo di scissione portato avanti da Raffaele Amato, Rosario Pariante, Raffaele Abbinante e Gennaro Marino; in pratica, lo “stato maggiore” della cosca di Scampia.
La battaglia delle Vele, che proietterà la sanguinante immagine di Napoli e dei quartieri più malfamati della città sulle prime pagine dei giornali di mezzo mondo, si conclude con la sostanziale distruzione del clan di Paolo Di Lauro (che finisce in manette nel settembre 2005, dopo tre anni di latitanza) e con l’affermazione, militare, finanziaria e territoriale, degli “spagnoli”, ormai veri e propri padroni del narcotraffico in Campania.
I rancori e i motivi di vendetta covati da parte del gruppo vincente costringono, però, gli uomini più vicini ai boss Tommaso e Maurizio Prestieri a lasciare il rione Monterosa, perché condannati a morte, mentre molti dei loro “picciotti”, non avendo avuto ruoli specifici nella guerra e quindi particolari responsabilità nei fatti di sangue, riescono a passare indenni con gli “scissionisti”.
In questo contesto, nascono e si sviluppano i pentimenti di Maurizio e Antonio Prestieri, le cui dichiarazioni hanno portato a immediati risultati nel contrasto al traffico di stupefacenti tra Scampia e Secondigliano. E non è escluso che le loro confessioni si rivelino molto utili nel ricostruire i misteriosi anni Novanta, durante i quali Paolo Di Lauro ha goduto di una immotivata e illogica impunità.