martedì 28 aprile 2009

Il Bingo dei Casalesi

NAPOLI — Un anno fa un uo­mo ferito a colpi d’arma da fuo­co si presentò ai carabinieri di Fuorigrotta, chiedendo aiuto. Gli avevano sparato addosso per ucciderlo, ma senza riuscir­ci. Dei motivi dell’agguato la vit­tima — Ciro Rigillo, 51 anni, pregiudicato per fatti di camor­ra — non volle dire nulla.

Chissà se c’entra qualcosa col tentato omicidio, ma ieri gli investigatori della Guardia di Fi­nanza hanno arrestato Rigillo, insieme ad altre 28 persone, nel­l’operazione contro la «holding criminale» che gestisce l’affare dei video-poker e delle sale gio­co in Campania e non solo; se­condo l’accusa, è uno dei princi­pali anelli della catena che ha portato gli affari della banda an­che al centro-nord, fino a Mila­no dove controllava la sala Bin­go di viale Zara, quella di Cernu­sco sul Naviglio, e poi a Colo­gno Monzese, Brescia, Cremo­na, Padova, Lucca.

Regista delle manovre per oc­cultare i reali proprietari è, se­condo l’accusa, un signore qua­rantacinquenne anch’esso pre­giudicato, latitante da qualche mese perché considerato affine al Clan del Casalesi, fazione di Mario Iovine detto Rififi. Si chiama Renato Grasso, e per i pubblici ministeri della Direzio­ne antimafia di Napoli Arditu­ro, Del Gaudio e Maresca «ha ot­tenuto una posizione di sostan­ziale monopolio in determinate zone del territorio nazionale». Grazie alla camorra, aggiungo­no. Con un meccanismo rove­sciato, rispetto ai canoni tradi­zionali: Grasso infatti «non su­bisce l’ingerenza della crimina­lità organizzata nell’esercizio della sua attività d’impresa ma, all’opposto, strumentalizza le associazioni criminali per la propria crescita imprenditoria­le, ricercandone attivamente la collaborazione e l’apporto».

In pratica, non è la camorra a cercare l’imprenditore per im­porre la propria partecipazione agli affari, bensì è l’imprendito­re a proporre ai clan l’ingresso nell’affare, offrendo denaro in cambio dell’appoggio a piazza­re i suoi marchingegni per fare soldi: slot machine e new slot, bingo, video-poker, e scommes­se sportive. Un giro da decine di milioni di euro, che ha porta­to la «holding» di Grasso ad ac­cumulare i beni sequestrati ieri dalla Finanza: società, ditte in­dividuali, immobili, autoveico­li e altro, per un valore comples­sivo di oltre 150 milioni, assicu­rano gli inquirenti.

A Napoli gli affari di Grasso, per i quali ora è accusato di con­corso in associazione mafiosa, si sono allargati a tutta la città; s’era alleato con gran parte dei gruppi che controllano le diver­se zone: i Misso alla Sanità, i Mazzarella a Forcella, i Vollaro a Portici, i Cavalcanti nella zona flegrea, e poi a Pianura, nel rio­ne Traiano, a Fuorigrotta e via di seguito. Ovunque, faceva in modo che i camorristi impones­sero ai commercianti di utilizza­re solo le sue «macchinette».

Tra i tanti «pentiti» che parla­no di lui il capo carismatico del clan Misso, Giuseppe Missi, ha raccontato che quando nel 1999 uscì di galera e decise di riorganizzare il settore dei gio­chi, accettò di «prendere accor­di commerciali con Renato Grasso... Il clan prendeva da lui circa 12-13 milioni di lire a set­timana in cambio dell’assicura­zione del monopolio dei video­poker; in altri termini nessun esercizio commerciale, bar o sa­la giochi poteva concludere ac­cordi con altri gestori ovvero gestirla autonomamente, in quanto noi imponevamo di ri­volgersi a Renato Grasso. Era il principale gestore per il Sud Ita­lia, mi consta che avesse degli ottimi rapporti con la ’ndran­gheta in Calabria, e degli inte­ressi economici anche in quella regione oltre che nel territorio di Napoli».

Parte dei soldi così guadagna­ti veniva reinvestita negli affari al nord. La società «Dea benda­ta » che controlla la sala Bingo di viale Zara a Milano, ad esem­pio, è al 75 per cento di una per­sona considerata un prestano­me di Grasso, e così la «Febe srl» proprietaria della Sala Bin­go di Cernusco; a provarlo ci so­no, secondo la ricostruzione dell’Antimafia napoletana, in­tercettazioni e e-mail nelle qua­li veniva di fatto «confessato» di accumulare denaro grazie ai videopoker illegali. Come quel­li vietati dal comma «7 bis» del­la legge che regola la materia, espressamente messi al bando; in un messaggio di posta elet­tronica con il rendiconto dell’ul­timo quadrimestre 2006, i rica­vi indicati alla voce «noleggio 7 bis» (chiaro riferimento a quel tipo di macchinette) vengono valutati in quattro milioni e mezzo di euro. Il totale dell’uti­le netto dell’intera «area d’affa­ri slot machines», consideran­do tutte le voci di entrata e di uscita, è indicato in 3 milioni e 263.000 euro. Solo per quei quattro mesi.

Giovanni Bianconi (Corriere della Sera)
28 aprile 2009

venerdì 24 aprile 2009

Fantasmi d'Italia - Cosa nostra (prima puntata)


I super-ricercati di Cosa nostra sono nove: Vito Badalamenti (Cinisi), Giovanni Arena (Catania), Giuseppe Falsone (Campobello di Licata), Santo La Causa (Catania), Matteo Messina Denaro (Trapani), Gerlandino Messina (Porto Empedocle), Salvatore Miceli (Salemi), Giovanni Motisi (Palermo) e Domenico Raccuglia (Altofonte).

Il record di latitanza appartiene a colui che viene, unanimamente, considerato l’erede di Bernardo Provenzano e Totò Riina: Matteo Messina Denaro, ricercato dal 1993 per associazione mafiosa, strage, omicidio, devastazione, detenzione e porto di materiale esplodente e furto. Dal 29 giugno del 1994, sono state diramate le ricerche in campo internazionale, ma finora del boss trapanese nessuno è riuscito a sapere alcunché. Coinvolto nella stagione delle bombe a Milano e Firenze, Messina Denaro viene descritto dai collaboratori di giustizia come un amante della bella vita e delle belle donne, in stretti (e ossequiosi) rapporti epistolari con Binu Provenzano, al quale faceva pervenire periodicamente dei «pizzini» firmati Alessio.

Ultimamente, Messina Denaro è stato inserito al quinto posto nell’elenco dei criminali più pericolosi del mondo (dopo Osama Bin Laden e i capi della mafia messicana e russa), a testimonianza della sua attuale operatività. Una curiosità: è appassionato di videogiochi.

Tutti gli altri boss in fuga appartengono all’aristocrazia «mafiosa» siciliana e ricoprono – o hanno ricoperto, al tempo della «dittatura» corleonese – ruoli di primo piano nei mandamenti e nelle commissioni territoriali.

La cattura, negli ultimi tempi, dei pluridecennali latitanti mafiosi – Binu Provenzano, Salvatore e Sandro Lo Piccolo – ha però destabilizzato l’organizzazione verticistica del cartello criminale, provocando un momento di «fibrillazione», secondo quanto emerso dal rapporto annuale della Procura nazionale antimafia (Dna) recentemente depositato in Cassazione e alla commissione Antimafia. La Dna ha tracciato un profilo di Cosa nostra ancorata sempre più nella pubblica amministrazione, negli appalti e nella grande distribuzione alimentare. E che tenta di tornare a gestire il traffico internazione di droga. «E’ troppo nota – hanno scritto i magistrati della Dna – la capacità di Cosa nostra di ristrutturarsi e di riorganizzarsi, mantenendo intatte la sua vitalità e la sua estrema pericolosità, perché ci si illuda che lo Stato, approfittando della sua momentanea debolezza, possa più agevolmente e definitivamente sconfiggerla». La procura nazionale sottolinea che «gli organi deputati al contrasto di Cosa nostra hanno bisogno di poter disporre di nuovi, più affinati e sempre più efficaci, strumenti normativi per tenere testa all’organizzazione criminale; la quale, com’è noto, ha una spiccata abilità nel mettere in campo sofisticate tecniche di resistenza per fronteggiare l’azione repressiva dell’autorità giudiziaria».

La caccia ai grandi latitanti mafiosi è appena all’inizio.

mercoledì 15 aprile 2009

Skype e le intercettazioni

Che il pericolo esista, i magistrati della Procura nazionale antimafia lo sanno già da due anni, da quando – cioè – le procure maggiormente impegnate a fronteggiare il terrorismo e il traffico internazionale di stupefacenti si sono accorte che, nelle intercettazioni, improvvisamente si apriva una voragine, un buco nero, che inghiottiva intere settimane di comunicazioni, di trasmissioni di notizie fondamentali per l’accertamento dei reati. I telefoni dei sospettati d’un tratto ammutolivano, ma le trattative e le operazioni continuavano.

«Ed era un mistero capire come si parlassero persone che sapevamo non si erano incontrate», afferma Alberto Cisterna, responsabile del settore intercettazioni alla Direzione nazionale antimafia, «poi, a poco a poco, abbiamo capito». Skype, il più diffuso sistema di comunicazione web al mondo, è il regalo più straordinario che la tecnologia potesse fare al mondo della criminalità organizzata. «Impossibile da decriptare senza i codici sorgente», aggiunge Cisterna, «inviolabile, allo stato attuale». In pratica, l’arma del delitto perfetto.

Dottor Cisterna, quanto è concreto il pericolo di trovarci di fronte a un fortino inespugnabile dell’etere?


«È già più che concreto come pericolo, dal momento che la stessa società pubblicizza l’assoluta sicurezza delle conversazioni come il più prezioso dei servizi offerti».

Sono più difficili da affrontare le difficoltà di natura tecnologica, o legislativa visto che la sede legale dell’azienda produttrice del software si trova in Lussemburgo?


«Per quanto riguarda la questione territoriale, Eurojust (l’unità di cooperazione comunitaria sui temi della sicurezza e della giustizia, ndr) sta lavorando per trovare una soluzione in linea con le direttive europee esistenti. Sull’altro versante, invece, c’è purtroppo poco da fare: siamo davanti a un sistema che adopera degli algoritmi molto complessi, impossibili da decifrare senza i codici sorgente».


Quali tipologie di reato possono trovare vantaggio dall’utilizzo di Skype?

«Si va dai trafficanti di droga e di esseri umani ai terroristi, dai truffatori telematici ai pubblici ufficiali corrotti. È uno spettro che copre l’intero codice penale, di cui abbiamo conoscenza per i casi accertati. Solo che, paradossalmente, trattandosi di reati potenzialmente invisibili, non possiamo avere un quadro preciso della situazione».

Questa zona franca elettronica vale solo per Skype, o anche per altri software?


«Solo per quelli che utilizzano algoritmi simili a quelli di Skype. Il caso è esploso perché si tratta di un sistema di comunicazione conosciuto in tutto il mondo, ma non è l’unico».


E le chat?


«Vale lo stesso discorso: la chat di Skype, ad esempio, non si può intercettare».

Tra i «pizzini» di Bernardo Provenzano e la comunicazione web, qual è il sistema più sicuro?


«I “pizzini” andavano bene per controllare Cosa nostra entro in ristretto ambito territoriale, entro le mura di Corleone, per intenderci. Il crimine su scala mondiale, il crimine globalizzato ha bisogno di sistemi più evoluti».

In occasione della cattura del boss casalese Giuseppe Setola, gli inquirenti trovarono nel covo una sua foto scattata con una webcam. Anche la camorra si sta «informatizzando»?

«La modernità riguarda tutti. Personaggi del genere guardano la tv, leggono i giornali, sfogliano le riviste proprio come facciamo noi, dunque nulla di più facile che la notizia sia arrivata anche a loro. È ragionevole ipotizzare che ne siano a conoscenza. In alcuni casi, ne siamo sicuri, in altri c’è il dubbio. La criticità l’abbiamo individuata, non resta altro che risolverla».

(Pubblicata sul quotidiano "Il Roma)

I SISTEMI DI COMUNICAZIONE DEI BOSS

Dai «pizzini» di Bernardo Provenzano ai più moderni sistemi di comunicazione digitale: è la sfida che le forze del bene dovranno vincere, in un prossimo futuro, sulla criminalità organizzata nazionale e internazionale. Chat, VoIp, email e telefoni criptati possono rappresentare la chiave di volta – in un senso, o nell’altro – per affrontare lo strapotere economico-finanziario della «Mafia spa», cui la velocità di trasmissione delle informazioni interessa quasi quanto la velocità di circolazione dei capitali illeciti. E se il vecchio mafioso di Corleone ancora utilizzava biglietti dattiloscritti con una antiquata macchina da scrivere modello «Olivetti Lettera 22», riuscendo così a evitare ogni tentativo di spionaggio elettronico per quasi mezzo secolo, oggi i suoi più moderni «eredi» possono contare su una gamma quasi sconfinata di sistemi di comunicazione che sfuggono non solo all’attività di polizia giudiziaria, ma anche agli strumenti legislativi inibendo, di conseguenza, i meccanismi di controllo previsti dalla legge.

Ad esempio, in commercio è possibile acquistare – in perfetta legalità e con tanto di ricevuta fiscale – apparecchi telefonici anti-intercettazione, nati originariamente per proteggere le comunicazioni relative a segreti industriali e finanziari e potenzialmente «riconvertibili» per tutelare gli ordini e le parole di criminali e terroristi. La particolarità di tali linee consiste nell’appoggio a gestori di telefonia fissa e mobile diversi da quelli classici (Tim, Vodafone, Wind e 3) e, pertanto, «invisibili» ai radar delle forze dell’ordine. Stesso funzionamento anche per la scrittura e la ricezione delle mail, pur se – bisogna ammetterlo – sarà sempre più facile per un delinquente parlare che scrivere. Come si dice: verba volant, scripta manent.