sabato 31 ottobre 2009

Arrestato Salvatore Russo - Il video

Dovrà scontare i prossimi sette mesi in isolamento Salvatore Russo, il boss della Camorra arrestato questa mattina a Napoli. Era latitante da 15 anni, mentre il fratello, che controlla la cosca, lo è ancora.
Cominciano a emergere le prime notizie sul destino di Salvatore Russo, il boss di Camorra arrestato oggi, alle luci dell'alba, a Napoli dopo 15 anni di latitanza. Su di lui pende una condanna all'ergastolo per omicidio e altri reati. Il provvedimento è stato emesso il 28 maggio 2008, ma gli è stato notificato solo oggi, quando è stato catturato alle 7 in una masseria a Somma Vesuviana, dove era nascosto da tempo. Ora dovrà scontare i primi sette mesi di carcere in isolamento.
Nei prossimi giorni gli saranno notificate le altre ordinanza di custodia che pendono sul suo capo per associazione di tipo mafioso, occultamento di cadavere e altri reati. Fino a questa mattina Russo era nella lista dei trenta latitanti più pericolosi d'Italia assieme al fratello Pasquale, ancora latitante, che controlla il clan che da anni ha il monopolio delle attività illecite nell'agro nolano.
Dopo il pentimento del boss Carmine Alfieri e di altri esponenti di spicco della Camorra i due avevano assunto il controllo del clan, consolidando col tempo il loro potere e l'egemonia intorno alla città di Nola.

GUARDA VIDEO DA TG5

Arresto Salvatore Russo - aggiornamenti


La polizia ha arrestato non solo il boss Salvatore Russo (nella foto in alto) ma anche il proprietario della villetta nella quale ha vissuto per qualche tempo. Si tratta di Luigi Perna. Salvatore Russo quando si e' accorto dell'arrivo della polizia, si e' rifugiato all'interno di un cunicolo collegato alla villetta, ma il tentativo di sfuggire all'arresto non e' riuscito. Il camorrista deve scontare l'ergastolo per omicidio e associazione mafiosa.
Nell'elenco dei latitanti di massima pericolosita' inseriti nel programma speciale di ricerca delle forze di polizia c'e' ora il fratello maggiore di Salvatore Russo, il boss della zona nolana stanato all'alba di oggi dalla polizia. Si tratta di Pasquale Russo, 62 anni, latitante, come Salvatore, dal 1995. Nei suoi confronti l'accusa di associazione di tipo mafioso, omicidio, occultamento di cadavere, concorso in omicidio plurimo ed altro.

Preso il superlatitante Salvatore Russo


Alle prime luci dell´alba, gli agenti della Squadra Mobile di Napoli, hanno arrestato il boss superlatitante Salvatore Russo capo dell omonimo clan operante nell´agro-nolano e condannato all´ergastolo per i reati di omicidio ed associazione mafiosa, inserito nell´ elenco dei 30 ricercati piu´ pericolosi. Era latitante dal 1995.
Salvatore Russo, assieme a suo fratello Pasquale sono considerati da decenni le menti dell´organizzazione criminale che muove le fila degli affari illeciti tra il nolano e parte della zona Vesuviana. Due primule rosse sulle cui tracce da anni si stanno muovendo gli investigatori nel tentativo di decapitare la camorra nolana.
Nei mesi scorsi, la svolta. Una serie di operazioni avevano portato all´arresto di uomini considerati vicinissimi alle due primule rosse della camorra, uomini fondamentali sia per la latitanza di Salvatore e Pasquale Russo, sia per l´economia del clan.
E nell´elenco dei latitanti di massima pericolosità inseriti nel programma speciale di ricerca delle forze di polizia c´é ora il fratello maggiore di Salvatore Russo, il boss della zona nolana stanato all´alba di oggi dalla polizia. Si tratta di Pasquale Russo, 62 anni, latitante, come Salvatore, dal 1995. Nei suoi confronti l´accusa di associazione di tipo mafioso, omicidio, occultamento di cadavere, concorso in omicidio plurimo ed altro.
IL COMMENTO DEL MINISTRO MARONI - "L´arresto di Salvatore Russo è un colpo durissimo alla camorra, un successo delle forze dell´ordine e della squadra mobile. Ho parlato con il capo della Polizia e con il procuratore di Napoli e ho fatto loro i miei complimenti". Lo ha detto il ministro dell´Interno Roberto Maroni parlando con i cronisti a Capri a margine del convegno dei giovani imprenditori. "Russo è un latitante da 15 anni, un pluriomicida condannato all´ergastolo - ha aggiunto il ministro - stiamo chiudendo il cerchio dei superlatitanti. Questa è la strada migliore per battere definitivamente la camorra e tutte le mafie". "E´ una giornata da incorniciare - ha concluso Maroni - una delle tante giornate da incorniciare degli ultimi mesi. Stiamo realizzando un successo straordinario contro mafia e
camorra, non ci fermiamo, continuiamo in questa direzione perché vogliamo vincere la guerra contro ogni forma di criminalità organizzata".

venerdì 30 ottobre 2009

Chieste 38 condanne per i nuovi Casalesi

Un’arringa appassionata, forte senza sbavature per tratteggiare i profili delle donne di camorra, appartenenti alle clan del casalesi. Donne, madri, figlie per nulle estranee alle attività dei loro uomini. E’ quanto hanno dichiarato con forza i pm Giovanni Conzo e Cesare Sirignano questa mattina nell’aula bunker a Poggioreale dove si è tenuto il processo con rito abbreviato al clan dei casalesi in corso davanti al gup Luisa Toscano.
Trentotto le richieste di condanna avanzate dai pubblici ministeri Le richieste riguardano anche esponenti di spicco dell'organizzazione criminale tra cui Gianluca, Katia e Michele Bidognetti, rispettivamente figlio, figlia e fratello di Francesco. Per Gianluca, accusato di tentato omicidio nei confronti della zia Maria Carrino, la richiesta è di 15 anni di carcere; 13 anni sono stati invece chiesti per Michele e 5 per Katia. Buona parte della requisitoria di questa mattina è stata dedicata alla posizione di Stefania Martinelli, moglie del killer Giuseppe Setola, per la quale sono stati chiesti 9 anni di reclusione. Secondo il pm Conzo, la donna non si limitò ad aiutare nella latitanza il padre della sua bambina, ma lo aiutò attivamente nella gestione degli affari criminali. La donna, secondo quanto emerso dalle indagini, riceveva dal clan un vero e proprio stipendio mensile di 3500 euro e fu arrestata in un covo blindato nel quale c'erano armi. La sentenza è prevista per il 30 novembre prossimo.
Matilde Andolfo
(tratto da www.lunaset.it)

Omicidio in diretta, il mistero del secondo video

Pasqualina si augura che il video diffuso dai magistrati sull'omicidio in diretta del fratello serva a prendere l'assassino. È la sorella di Mariano Bacioterracino, l'uomo trucidato a freddo nel maggio scorso nel quartiere Sanità a Napoli. Esecuzione ripresa dalla telecamere. Immagini che ieri hanno fatto il giro del mondo. «Quando è successa la sparatoria, mia nipote non era in casa, ha saputo che il papà era stato ammazzato da un video che le è arrivato sul telefonino. La bambina ovviamente è rimasta sconvolta, non credo che si riprenderà mai dallo choc» ha affermato Pasqualina in una intervista a «Il Mattino».
«PERCHÈ L'HANNO AMMAZZATO?» - «Ci auguriamo solo - aggiunge - che questa tortura serva a qualcosa, aiuti ad identificare il killer di mio fratello, noi non possiamo fare niente per assicurargli giustizia, noi siamo gente semplice, queste cose sono superiori alle nostre forze. Hanno fatto passare mio fratello per un grande boss, un affiliato. Ma non era cosi. Mio fratello era solo un rapinatore. Le mogli degli affiliati hanno uno stipendio quando il marito va in carcere, ma mia cognata non ha mai avuto una lira, ha mandato avanti la famiglia lavorando». «Lo ripeto - conclude - mio fratello aveva sbagliato, ma aveva già pagato per quello che aveva fatto. Era stato in carcere, aveva espiato la sua pena. I suoi conti con la giustizia erano chiusi. Non sappiamo perché è stato ucciso, ma una cosa è certa: non era un boss».

Preso un altro killer di Gino Tommasino


La Dda di Napoli ha emesso un decreto di fermo nei confronti di Raffaele Polito, l’uomo che faceva parte del commando che uccise Gino Tommasino, collaboratore di giustizia da un mese e mezzo.
L’Antimafia non crede a tutta la verità emersa dal racconto di Polito: motivo per il quale è stato deciso il fermo del 27enne. Ci sarebbero contraddizioni e situazioni ancora non chiarite. Dunque, per evitare che si ripetesse la stessa situazione accaduta con Catello Romano (pentito e poi fuggito dalla località protetta), la Dda ha imposto una misura restrittiva nei confronti di Polito.
Una mossa che spariglia le carte di un’inchiesta che ancora non ha fatto luce pienamente sul movente di un delitto eccellente. Cosa sa Polito che, secondo gli investigatori, non ha ancora rivelato? Di cosa ha paura l’uomo che già un mese e mezzo fa decise di raccontare tutto alla polizia? Perché sono così divergenti alcuni dettagli raccontati da parte di Romano (fino a quando ha deciso di pentirsi) e di Polito? Dubbi che rendono ancora più fumosa e oscura la scena in cui quel delitto maturò. Con un intreccio pericoloso tra politica, affari e camorra.

Sotto la botola, il rifugio extralusso del boss

Una botola piena di droga e di un passaggio segreto: un cunicolo che conduceva ad un appartamento extralusso destinato, molto probabilmente, ad ospitare durante la sua latitanza, il boss della camorra Giuseppe Bastone, arrestato il 24 agosto.
Tutto accade nel cuore di Scampia, quartiere della periferia di Napoli, una delle più grandi piazze di spaccio d'Europa. È quanto hanno scoperto i carabinieri che hanno arrestato Armando Russo, 28 anni, già noto alle forze dell'ordine, e accusato di detenzione di droga ai fini di spaccio. Russo è stato trovato in possesso di 176 involucri contenenti kobret, hashish, marijuna.
Nel corso della perquisizione trovato, poi, anche un radiocomando. I militari hanno scoperto che l'aggeggio serviva ad azionare una botola all'undicesimo piano, nascosta dietro una parete del vano scale: è lì che sono stati trovati quasi tre chilogrammi di droga, ma anche altro: un vero e proprio passaggio segreto. Il cunicolo portava, infatti, sia ad una terrazza che ad un appartamento extralusso, pieno di confort come una mega vasca con cascata.
Elemento di spicco del clan degli Scissionisti e dei Di Lauro, inserito nell'elenco dei 100 latitanti più pericolosi d'Italia, Bastone fu catturato lo scorso agosto in un bunker super tecnologico che attraverso un tunnel, così stretto da poter essere attraversato solo distesi su uno skateboard, conduceva ad un'arteria stradale a scorrimento veloce.

giovedì 29 ottobre 2009

Sequestro beni a camorra e 'Ndrangheta

Nello scorso giugno le manette scattarono per cinquanta individui. L’operazione denominata “Perpignan”, condotta dalla Guardia di Finanza di Reggio Calabria con il coordinamento della Direzione Distrettuale Antimafia, aveva stroncato un ingente traffico internazionale di sostanze stupefacenti. L’indagine che, al pari delle altre inchieste “Chiosco Grigio” e “Stupor mundi” è una costola della principale “Igres”, è nelle mani del sostituto procuratore della Direzione Distrettuale Antimafia, Luisa Miranda, e aveva colpito le ‘ndrine Commisso – Mazzaferro di Marina di Gioiosa Jonica, quella dei Cataldo di Locri e il clan camorristico dei Baratto – Bianco di Napoli, affiliati alla famiglia Di Lauro.
Tra gli indagati di maggiore spessore gli inquirenti segnalarono Salvatore Femia, 42 anni, e Rocco Francesco e Salvatore Albanese, rispettivamente padre e figlio di 56 e 29 anni di Gioiosa Jonica; Giuseppe Zucco, 48 anni di Locri, della cosca cataldo, Antonio Bianco, 57, di Napoli e Tommaso Gaglione, 52 anni, di Avellino. Per quindici (otto calabresi e sette campani) dei cinquanta individui coinvolti nell’operazione “Perpignan”, alcuni indagati, altri condannati in altri procedimenti, oggi, quando, secondo fonti investigative, la Procura della Repubblica starebbe per formulare le richieste di rinvio a giudizio, si configura un’altra tegola con il sequestro, operato ancora dalla Guardia di Finanza, di beni per un valore totale di quasi venti milioni di euro.
Beni mobili e immobili: quote societarie, appartamenti e ville, automobili, tutti acquistati, secondo gli investigatori, con i proventi del traffico internazionale di cocaina che interessava Paesi quali la Spagna, il Perù e la Francia, oltre che, naturalmente, l’Italia. Tutti intestati a prestanome facenti parte delle famiglie interessate: "Non sempre è facile accertare se i soggetti interessati siano affiliati o meno alle cosche - dice il Procuratore Aggiunto di Reggio Calabria, Nicola Gratteri - quel che è certo, però, è che questo tipo di ricchezze vanno a discapito di chi invece svolge delle attività imprenditoriali in maniera onesta".
Grazie all’articolo 12 sexies del Decreto Legislativo 306 del 1992, il Tribunale di Reggio Calabria, nella persona della dottoressa Tommasina Cotroneo, ha convalidato la richiesta preventiva dei beni formulata dalla Procura. L’operazione ha richiesto il lavoro di oltre cento uomini, essendo i beni situati in quattro regioni diverse: Calabria, Campania, Lazio e Piemonte. A tradire gli indagati, peraltro, sarebbero stati anche i redditi dichiarati nell’ultimo quinquennio, sproporzionati rispetto al tenore di vita condotto e, in certi casi, anche insufficiente ad assicurare il sostentamento degli stessi nuclei familiari.
Tra le società sequestrate spiccano:
1. Il 33,3% delle quote della società “Studio polispecialistico e di fisiokinesiterapia Apollo Sas di Antonella De Blasio & C.” con sede a Roccella Jonica. Il valore commerciale è stimabile in 4,8 milioni di euro. Secondo fonti investigative la struttura non sarebbe accreditata presso l’Asl di Locri.
2. Il 50% delle quote dello “Studio capelli e bellezza Sas di Montescuro Luca & C.” con sede a Casalnuovo di Napoli. Il valore commerciale stimabile è di 3,8 milioni di euro.
Quanto agli immobili, spiccano invece:
1. Due terreni coltivabili situati nel Comune di Gioia Tauro, per un valore complessivo di quasi 2,5 milioni di euro.
2. Unità immobiliare situata nel Comune di Roma in piazza Ottaviani (a ridosso del quartiere Trastevere), il cui valore commerciale si aggirerebbe intono al milione di euro.
3. Un fabbricato rurale e due terreni situati nel Comune di Locri per un valore di circa 900 mila euro.
4. Tre unità immobiliari situate nel Comune di Locri, per un valore di circa 900 mila euro.
Come detto, risultano sequestrati anche diverse autovetture (Fiat, Ford, Bmw, Peugeot), nonché un motociclo Honda. L’operazione è stata condotta dalla Guardia di Finanza di Reggio Calabria, comandata dal Colonnello Alberto Reda e dalla Compagnia di Locri, comandata dal Maggiore Raimondo Galletta.

Così la camorra uccide a Napoli - il video

Sembra un filmato qualsiasi ma è la ripresa di un omicidio di camorra. Il video dura pochi secondi. E' giorno. Si vede l'esterno di un bar: tendone a strisce abbassato,
giochino giallo a gettoni per bambini e un grosso banco per gelati. La telecamera registra la morte di Mariano Bacioterracino nel quartiere napoletano della Sanità lo scorso 11 maggio. È l’omicidio numero 32, a Napoli, nel 2009.
Guarda il video
La Procura della Repubblica di Napoli, per dare una svolta alle indagini, ha deciso di diffondere le immagini, riprese da una telecamera di un circuito di videosorveglianza. C'è un uomo con alcune buste della spesa che traffica con dei soldi e aspetta. Forse è il 'palo'. Intanto un uomo, camicia bianca, maglietta nera e jeans sta fumando una sigaretta, sembra spensieratamente, e' appoggiato al distributore di giochini per bimbi. Si volta. La sua attenzione viene richiamata da un uomo che ha le mani in tasca e che sta uscendo dall'esercizio commerciale. Il killer ha un cappello con visiera, jeans, giubbotto scuro e scarpe da ginnastica, gli si avvicina alle spalle e lo spinge leggermente. La vittima si inginocchia e poi, in una frazione di secondo, si stende al suolo. E' un attimo: il sicario gli avvicina la pistola alla nuca e spara. Un colpo secco mentre il 'palo' si allontana. Il killer si incammina velocemente ancora con la pistola in pugno.
La Procura partenopea ha deciso di diffondere il video sollecitando la collaborazione di chiunque sia in grado di fornire informazioni utili all'identificazione del killer e del suo correo". Il provvedimento è stato adottato "in quanto a tutt'oggi - si legge in una nota - non è stato possibile identificare ne' l'esecutore materiale del delitto né la persona che si ritiene abbia svolto nell'occasione il ruolo di 'specchiettista', entrambi ben visibili nel video". La Procura ha firmato un decreto che rende pubblico il filmato sperando che la sua diffusione aiuti, con la collaborazione di chi può dare indizi utili, le indagini.

Scacco matto al clan degli "scissionisti": 23 condanne

Dure condanne per 23 appartenenti alla cosca degli 'Scissionisti' attiva a Secondigliano e Scampia, in guerra da cinque anni con il clan Di Lauro. Il giudice dell'udienza preliminare presso il tribunale di Napoli ha condannato i 23 imputati a pene che vanno dai 4 ai 15 anni di reclusione. Tra gli imputati vi sono anche quattro pentiti, condannati a pene che vanno dai 4 agli 8 anni di reclusione.
I 23 furono arrestati negli anni scorsi nell'ambito di una operazione denominata 'Good Shepherd', condotta dal nucleo investigativo del gruppo di Castello di Cisterna. La condanna piu' dura e' quella subita da Ciro Ardimento, di 39 anni. Poi, 12 condanne a 14 anni di reclusione mentre per i collaboratori Antonio e Maurizio Prestieri, 8 anni di carcere e per Antonio Pica 8 anni e quattro mesi di reclusione e 4 per Francesco Pica. Le condanne per gli imputati sono di associazione per delinquere finalizzata al traffico internazionale di cocaina, eroina e kobret, con l'aggravante dell'art. 7 per aver agevolato il clan camorristico di riferimento.
L'operazione che venne condotta all'epoca rappresento' la conclusione di un'attivita' investigativa finalizzata alla lotta allo spaccio di droga a Scampia nella zona dell''Oasi del buon Pastore' situata in via Ghisleri, lotto R, meta di spacciatori e tossicodipendenti provenienti anche da altre localita' della Campania. L'indagine ebbe inizio a marzo dello scorso anno quando i quattro collaboratori di giustizia, tutti appartenenti al clan Prestieri, attivo a Secondigliano resero delle dichiarazioni ai pm della Dda.

Il killer e la chat line di Msn


Tratto da Metropolis web:
Comunicava con una chat line, su Messenger. Da lì, da quei contatti on line, gli investigatori della squadra Mobile napoletana e del commissariato stabiese sono riusciti ad individuare il posto dove Catello Romano si è nascosto in questi ultimi 15 giorni. Secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, il 19enne comunicava con una sorella, attraverso uno dei social network più famosi del mondo. Scaltro, attento e per nulla ingenuo, Romano ha però commesso l’errore di sottovalutare l’inchiesta aperta a suo carico, dopo la fuga e le polemiche determinate dal suo allontanamento. Ma non solo: Romano stava progettando una lunga latitanza. A Castellammare sarebbe transitato solo di passaggio, il tempo di farsi consegnare dei soldi e ripartire. Ma c’è anche l’ipotesi che il suo ritorno in città in realtà potesse rappresentare il vero obiettivo della sua latitanza, potendo sfruttare contatti con uomini di sua fiducia senza utilizzare telefoni cellulari che potessero complicare i suoi piani. Ma quali sono i piani di Romano? Continuerà a collaborare con la giustizia oppure - come dichiarato ai suoi familiari - deciderà di ritrattare tutte le accuse? Se ne saprà di più sabato mattina, quando sarà interrogato dal gip del tribunale di Santa Maria Capua Vetere, competente territorialmente.
Una nuova rocambolesca fuga quella del 19enne, braccato dalla polizia a Torino e arrestato 800 chilometri a sud, a Teverola, nello spiazzale di un centro commerciale. Addosso aveva anche attrezzi da scasso e 140 euro. Ancora poco chiaro invece il suo destino giudiziario: ciò che emerge dall’inchiesta che ha portato alla sua cattura non è solo una strategia investigativa di alto profilo ma anche la spiccata pericolosità del giovane killer reo confesso. Secondo fonti investigative Romano - fiutata la presenza degli agenti della Mobile napoletana - avrebbe lasciato il suo rifugio in un paesino piemontese e raggiunto con mezzi di fortuna la stazione di Torino, da dove avrebbe preso un treno notturno diretto a Roma. Gli inquirenti lo avrebbero così perso di vista per alcune ore: ma ancora una volta è stato il telefono a giocare un brutto scherzo a Romano. Dalla stazione Termini, in attesa di un altro treno, avrebbe telefonato a casa per farsi venire a prendere alla stazione di Napoli. Ma durante il tragitto Romano avrebbe notato la presenza di due agenti stabiesi sul treno e così, temendo di essere finito in trappola, avrebbe bloccato il convoglio in corsa, saltando da un finestrino e dandosi alla fuga nelle campagne casertane. Arrivato a Teverola con l’autostop avrebbe telefonato a casa, indicando ad un familiare il luogo dove si trovava in quel momento. Nonostante il messaggio criptico, gli agenti lo hanno immediatamente individuato, arrestato e trasferito al carcere di Secondigliano.
Rocco Traisci

La camorra elegge il consiglio comunale

Francesco Schiavone intuì subito, seguendo quello che era stato l’orientamento del boss Bardellino, l’importanza di intessere rapporti con la politica locale attraverso un’infiltrazione diretta nelle amministrazioni comunali. La decisione da parte dei Casalesi di conquistare posti di “rispetto” negli enti locali fu presa nel 1981, quando il clan stabilì di far presentare alcuni familiari di Schiavone nelle liste della Democrazia Cristiana per le elezioni locali a Casale di Principe. La data viene indicata dal collaboratore di giustizia Carmine Schiavone, che ha ricostruito nel dettaglio il meccanismo attraverso il quale il boss Sandokan riuscì in breve tempo a guadagnarsi favori politici e a mettere le mani sulla quali totalità degli appalti pubblici. Alle elezioni del 1982 il partito passò dal trenta al cinquanta per cento e gli esponenti della famiglia risultarono tutti eletti. Una campagna elettorale “capillare” quella portata avanti dagli esponenti del clan, anche attraverso atti intimidatori e minacce. Gli affiliati, a dire del pentito, bussarono ad ogni porta, al fine di orientare i consensi in favore della Dc, determinando un crollo del Psi. L’asse politico si spostò nettamente a favore della Democrazia cristiana (mentre Bardellino sosteneva esponenti del partito socialista) anche nei comuni minori controllati dall’organizzazione (da Villa Literno a Grazzanise a Cancello Arnone e Castelvolturno). “Il condizionamento del voto – hanno spiegato i magistrati nell’ordinanza di custodia cautelare emessa nell’ambito dell’operazione Spartacus – non si limitò alle elezioni comunali, ma si estese ben presto alle elezioni regionali e provinciali”. Il progetto di Schiavone subì una battuta di arresto negli anni Novanta, quando la Dc casertana, allora dominata dalla corrente Santonastaso-De Mita, decise di bocciare la candidatura di un cugino di Schiavone nel tentativo di scongiurare un ribaltamento della leadership e un controllo diretto del partito da parte del clan e la decisione di appoggiare nel 1992 la candidatura al Parlamento di un avvocato, ex consigliere comunale della Dc passato nelle liste del Pli. Il clan non fece passi indietro. Il cugino del boss si presentò con una lista civica denominata “Campania, Cattolici democratici”, ottenendo il 21, 3% del consenso elettorale. Un successo inspiegabile. Inoltre, l’avvocato fu eletto nelle liste del partito liberale e in quella circostanza il Pli a Casale di Principe passò dal tre per cento ad oltre il 30. Dati che restituiscono il livello di penetrazione dell’organizzazione nelle amministrazioni locali. Il meccanismo era ormai consolidato: voti in cambio di favori. I consiglieri comunali e regionali democristiani, in cambio del sostegno alle elezioni, rilasciavo concessioni amministrative, agevolavano l’acquisizione di appalti pubblici da parte di imprese vicine al clan o direttamente controllate dall’organizzazione, e sfruttavano la loro rete di conoscenze per consentire ai Casalesi di mettere le mani su finanziamenti statali, regionali e della Cee. Erano loro, i camorristi, ad orientare i consensi, attraverso l’uso della violenza e dell’intimidazione. Un clima di diffidenza e timore quello che si respirava a Casal di Principe e negli altri comuni casertani che culminò nello scioglimento dei consigli comunali per infiltrazioni mafiose. Retroscena sui quali è stato possibile fare luce grazie ai pentiti Dario De Simone e Carmine Schiavone, la cui testimonianza è l’asse portante dell’inchiesta battezzata Spartacus. Fu in quella occasione, nel 1995, che la magistratura rese pubblici i risultati delle indagini sui rapporti tra politica locale e camorra. E fu quella la prima inchiesta (ne faranno seguito delle altre), che portò in manette decine di ex consiglieri comunali e regionali ed esponenti politici di ogni livello. “Quando si doveva votare – ricorda il pentito Carmine Schiavone - vi erano delle riunioni a casa di mio fratello o in altri luoghi dove si stabiliva chi doveva occupare la carica di sindaco, sia per coprire tutto quanto fosse stato fatto in passato sia per assicurare tutto ciò che doveva essere fatto in futuro. Una volta stabilito chi dovesse fare il sindaco, lo si comunicava ai vari esponenti dell’organizzazione a Aversa”. Anche Antonio Bassolino, attuale governatore della Campania, raccontò di un episodio di intimidazione di cui fu vittima nel 1992, quando ricopriva la carica di segretario regionale del Pci, a Casal di Principe (era stato eletto alla Camera dei deputati). Anni dopo, nel 2001, Bassolino fu chiamato a deporre nel corso del maxi-processo contro il clan dei Casalesi e ricordò la sua esperienza. Ricostruì ciò che avvenne durante un’assemblea pubblica organizzata il 25 aprile 1992 dalla federazione provinciale del Pds nella sede di Casal di Principe, quando alcune persone, poi identificate come parenti e amici della famiglia di Francesco Schiavone, interruppero più volte i lavori dell’assemblea, si rivolsero con toni minacciosi nei suoi confronti. Solo qualche giorno prima Bassolino aveva denunciato le infiltrazioni camorristiche nella politica locale, citando proprio l’episodio relativo all’elezione dell’avvocato sostenuto dai Casalesi. “Tutto avvenne in un clima di intimidazioni ai limiti della minaccia fisica”, dichiarò Bassolino in aula. L’assemblea dopo poco fu sospesa e il senatore Lorenzo Diana, che aveva partecipato all’incontro chiamò la prefettura chiedendo l’invio di un’auto di scorta della polizia. Nell’agosto successivo furono sciolti i consigli comunali di San Cipriano d’Aversa e di Cesa, in provincia di Caserta, per accertati fenomeni di condizionamento da parte del clan dei Casalesi. Le forze dell’ordine confermarono quello che in paese sapevano tutti, ma che nessuno aveva osato denunciare: nel consiglio comunale di San Cipriano d’Aversa tra i 30 consiglieri eletti almeno 19 avevano a carico precedenti penali o erano legati ad elementi della malavita organizzata. A partire dal sindaco, arrestato anni prima per favoreggiamento. Ma non furono quelli i primi comuni ad essere sciolti. Il 30 settembre 1991, su proposta dell’allora ministro dell’Interno Vincenzo Scotti, il presidente della Repubblica Francesco Cossiga decise lo scioglimento del consiglio comunale di Casal di Principe per infiltrazioni mafiose. Si trattò di uno dei primi casi in Italia, dopo Taurianova (Reggio Calabria) e Casandrino (Napoli). L’allora vice sindaco risultava il proprietario della villa in cui i carabinieri di Caserta interruppero un summit di camorra nel 1990. Al momento dell’irruzione dei carabinieri, nella villa si trovava il figlio quindicenne del politico. L’assessore fuggì, facendo perdere le proprie tracce. Si costituì ai carabinieri dopo oltre un mese di latitanza. Anche un consigliere comunale della Dc venne coinvolto nelle indagini sul clan Schiavone con l’accusa di favoreggiamento personale: nella sua abitazione aveva ricavato un “sofisticato” nascondiglio per più persone. Inoltre, risultava il proprietario dell’automobile a bordo della quale il 18 maggio 1989 venne arrestato in Francia Francesco Schiavone. Finì sotto la lente di ingrandimento della magistratura anche un parente omonimo del boss, Francesco Schiavone, consigliere comunale ed ex sindaco. Nel 1989 furono numerosi gli arresti di esponenti della politica locale per favoreggiamento e concorso in associazione di stampo mafioso. Ancora oggi emerge dalle indagini che il clan dei Casalesi è infiltrato nelle istituzioni politiche al punto di riuscire a condizionare il voto, soprattutto con riferimento alle elezioni amministrative. Lo dimostrano le numerose commissioni d’accesso predisposte dalla Prefettura di Caserta e i recenti scioglimenti di comuni della provincia. Nel marzo del 2008 il consiglio dei Ministri ha approvato lo scioglimento dei consigli comunali di Marcianise e San Cipriano d’Aversa: in entrambi i casi sono stati accertati forme di condizionamento da parte della criminalità organizzata. Il comune di San Cipriano D’Aversa (dove risiede la famiglia Iovine) era stato sciolto già nel novembre 2003.
(Tratto da "Attacco allo Stato", Forumitalia edizioni)

Arrestato il boss Raffaele Mallardo


Iboss Raffaele Mallardo, soprannominato "Scicchiro" è stato arrestato all'aeroporto di Capodichino.
L'uomo, reggente dello storico clan Mallardo attivo a Giugliano in Campania, proveniva dalla Spagna. Mallardo è destinatario di un fermo emesso dalla Dda di Napoli per estorsione aggravata dal metodo mafioso.
Raffaele Mallardo è diventato reggente della cosca in assenza dei capi storici Giuseppe e Francesco Mallardo, attualmente detenuti. Gli inquirenti erano da tempo sulle sue tracce in relazione ad accuse di estorsione nei confronti di imprenditori dell'area giuglianese.
Con Mallardo è stato fermato anche Pietro Guarino, 46 anni: entrambi sono accusati (il primo come mandante, il secondo quale esecutore) di estorsione continuata e aggravata nei confronti di due imprenditori di Giugliano, titolari di stazioni di rifornimento carburante, costretti a versare tangenti per migliaia di euro al mese.

martedì 27 ottobre 2009

Capaci, mandanti esterni? I dubbi di Piero Grasso

MILANO - Dietro la strage di Capaci in cui morì il giudice Giovanni Falcone «resta il sospetto che ci sia stata qualche entità esterna che abbia ideato, agevolato oppure dato un appoggio a Cosa nostra». Ne è convinto il procuratore nazionale Antimafia, Pietro Grasso, che davanti alla commissione Antimafia rilancia la «lettura» dell'uccisione del giudice come qualcosa di non completamente riconducibile a Cosa Nostra.
GLI INTERROGATIVI - «Non c'è dubbio che la strage che colpì Falcone e la sua scorta siano state commesse da Cosa Nostra. Rimane però l'intuizione, il sospetto, chiamiamolo come vogliamo, che ci sia qualche entità esterna che abbia potuto agevolare o nell'ideazione, nell'istigazione, o comunque possa aver dato un appoggi all'attività della mafia» ha detto Grasso. Dopo aver citato numerosi passaggi delle sentenze sulla vicenda, il procuratore nazionale Antimafia si pone e gira ai commissari un quesito: perché si passò dall'ipotesi di colpire Falcone mentre passeggiava per le strade di Roma all'attentato con 500 chilogrammi di esplosivo, collocato a Capaci. Una scelta, quella dell'attentato, che ha una modalità «chiaramente stragista ed eversiva. Chi ha indicato a Riina queste modalità con cui si uccide Falcone? Finchè non si risponderà a questa domanda sarà difficile cominciare ad entrare nell'ordine di effettivo accertamento della verità che è dietro a questi fatti». In precedenza, Grasso aveva ricordato che inizialmente Falcone era in un elenco di obiettivi da colpire a Roma, elenco che comprendeva, oltre al magistrato, il ministro Martelli, il giornalista Barbato e Maurizio Costanzo. Oltre a fare i sopralluoghi per colpire Costanzo, i mafiosi a Roma frequentavano noti ristoranti per verificare se effettivamente il giudice vi andasse a cena. Ad un certo momento, nel marzo 1992, Sinacori (il mafioso che eseguiva i sopralluoghi) va a Palermo e in quella sede Riina gli dice che non c'è più bisogno di colpire Falcone a Roma, perché «abbiamo trovato qualcosa di meglio».
(Tratto da www.corriere.it)

Evasione dal carcere minorile


BENEVENTO - Quattro detenuti sono evasi in serata dall’istituto per minori di Airola, nel Beneventano. Sono tutti di Napoli e due di loro sono accusati di omicidio. Il quartetto ha aggredito le guardie carcerarie (tre hanno dovuto far ricorso alle cure dei sanitari dell'ospedale «Rummo» di Benevento) e poi é fuggito a bordo di un'auto sottratta all'esterno della casa di rieducazione.
I quattro evasi - Giuliano Landieri, Manuel Brunetti, Giovanni Savarolo e Marcello Picardi, ora maggiorenni -, sono originari dei quartieri napoletani di Scampia e Ponticelli. Due di loro sono accusati di omicidio, gli altri due erano rinchiusi per detenzione e traffico di droga. Approfittando della pausa per la cena, i quattro giovani detenuti che hanno finto una rissa, sono riusciti ad immobilizzare tre guardie carcerarie nel refettorio, aggredendole con pugni e testate al volto. Dopo essersi impossessati delle chiavi di uno degli agenti di custodia, sono usciti dal portone e si sono impadroniti di un’auto. Ma, dopo aver percorso pochi metri, la vettura (un'Alfa 156) dotata di antifurto satellitare si é bloccata. Gli evasi ne hanno preso un'altra con la quale si sono dileguati. La macchina della fuga è stata ritrovata alla periferia di Torre del Greco, in provincia di Napoli. Ora le ricerche si stanno concentrando nei due quartieri napoletani di residenza degli evasi, appunto Scampia e Ponticelli.
«Quello che è accaduto nel carcere minorile di Airola, da dove sono evasi quattro detenuti, potrebbe avvenire anche negli istituti penitenziari per adulti: ormai è vera emergenza sovraffollamento e disorganizzazione». La dura dichiarazione è di Leo Beneduci, segretario generale del sindacato Osapp, uno dei sindacati degli agenti di custodia, che punta l’indice contro «la cattiva organizzazione da parte del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e della giustizia minorile. A fare le spese di tutto ciò è sempre e soltanto la polizia penitenziaria. Per altro - aggiunge Beneduci - uno degli evasi da Airola é ritenuto responsabile dell’omicidio di una guardia giurata, e all’amministrazione carceraria era stato fatto presente di non trasferire un detenuto di tale pericolosità proprio nel carcere di Airola».
Il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, ha già inviato nel Sannio il capo del Dipartimento della giustizia minorile, Bruno Brattoli, che ascolterà già oggi i tre agenti feriti (e già dimessi dall'ospedale). All'inchiesta parteciperà anche la direttrice dell'Istituto, Mariangela Cirigliano, che al momento dell'evasione si trovava a Roma.

Non c'è la nave dei veleni

Nessun inquinamento radioattivo per ora nel mare antistante Cetraro (Cosenza). Dalle prime analisi ambientali «è emerso che fino alla profondità di 300 metri non si rilevano alterazioni della radioattività», ha detto il ministro dell'Ambiente, Stefania Prestigiacomo, in merito al relitto trovato a largo del paesino calabrese, battezzato la "nave dei veleni", a seguito delle rivelazioni di un pentito di 'ndrangheta.
PRIME RICERCHE - «Naturalmente - precisa il ministro - questi primi esiti delle ricerche non escludono la possibilità che i fusti contenuti nel relitto possano contenere rifiuti pericolosi o radioattivi e per questo il programma di indagini della «Mare Oceano» proseguirà col prelievo di sedimenti dai fondali, di carotaggi in profondità e col prelievo di campioni dai fusti». «L'accertamento che il relitto in fondo al mare non sia il Cunski e il mancato rilevamento di radioattività fino a 300 metri, che, ribadisco, non esclude la possibilità che si tratti in ogni caso di una "nave dei veleni" - prosegue il ministro - deve indurre alla prudenza ed alla responsabilità quanti fino ad ora hanno procurato, senza avere riscontri attendibili, paura e allarme sociale, con gravissime ripercussioni economiche per la Calabria. L'impegno del governo nella lotta alle ecomafie continua affinchè sia fatta piena luce sui misteri delle navi a perdere, venga appurata la verità e ogni eventuale responsabilità».
DIVERSA MORFOLOGIA - La morfologia del relitto, rileva quindi il ministro dell'Ambiente risulta diversa da quella della Cunski. «In particolare è stato rilevato che il cassero della nave affondata si trova nella zona centrale mentre quello della Cunski era a poppa», ha riferito il ministro. «Tutte queste operazioni - sottolinea la Prestigiacomo - continueranno in coordinamento con la Direzione Distrettuale Antimafia di Catanzaro e il Reparto Ambientale Marino della Guardia Costiera a disposizione di questo ministero al comando del Capitano di Vascello Federico Crescenzi al quale rivolgo uno speciale plauso».
(Tratto da www.corriere.it)

Il padrino finisce in manette


L’operazione era pronta da tempo. La Dia, grazie anche al contributo della Dda, era riuscita a rintracciare il luogo in cui si nascondeva il boss una settimana prima dell’arresto, ma già da un anno gli spostamenti di Francesco Schiavone, ritenuto al tempo uno dei latitanti più pericolosi d’Italia, erano tenuti sotto controllo. Il boss era intercettato, seguito, spiato. Sandokan tornava in quella casa, nella sua villa a Casal di Principe, almeno due volte al mese da un rifugio sistemato al Nord-Italia, forse in Piemonte o in Lombardia. L’11 aprile del 1998, a mezzogiorno e un quarto, gli investigatori misero fine alla sua latitanza. Francesco Schiavone non oppose resistenza, sebbene trascorsero alcune ore prima che gli uomini della Dia riuscissero a localizzarlo all’interno della villa. E così il fratello Mario, che era con lui, e la moglie Giuseppina Nappa. In quel momento in casa erano presenti anche i figli più piccoli del boss, quasi irriconoscibile con la barba rada e diversi chili in più rispetto alla “vecchie” fotografie di archivio. “State fermi, ci sono le bambine, mi arrendo, ma attenzione alle bimbe”, gli uomini della Dia raccontarono che al momento dell’irruzione Schiavone aveva in braccio la sue figlie, una bambina di poco piu’ di un anno, l’altra di tre. Un vero proprio plotone di uomini fu impegnato nell’operazione. In oltre quaranta passarono al setaccio la villa bunker di via Salerno, a Casal di Principe, una piccola fortezza su due piani senza finestre, realizzata in modo da rendere agevole una eventuale fuga di emergenza, attraverso un sofisticato sistema di cunicoli e grotte naturali sotterranee, e predisposta per ospitare cinque o sei persone. L’irruzione degli uomini della Dia nel rifugio bunker iniziò poco dopo le ventitré della sera del 10 luglio. La villa fu circondata dopo avere buttato giù un pesante cancello di otto metri. Ma all’interno apparve deserta. Gli investigatori non si arresero. Avevano visto Schiavone entrare nella villa, sapevano che era lì. E che non era solo. Una lunga notte di ricerche affannate, perquisizioni, nel tentativo di individuare il varco segreto. L’accesso ad un passaggio sotterraneo che gli investigatori erano certi esistesse. Alla fine Schiavone uscì allo scoperto. Il rifugio era stato ricavato all’interno di un capannone utilizzato come deposito di attrezzi agricoli e materiali edili, l’entrata era nascosta tra cassette di plastica vuote ed attrezzi da giardinaggio. L’appartamento di Schiavone, al quale si giungeva attraversando un breve corridoio, era accessibile grazie ad una sorta di parete di granito mobile, una parete che scorreva avanti e indietro su due binari e che una volta chiusa, celava perfettamente la casa, composta da una camera da letto, un grande salone rettangolare, un bagno ed una camera da letto matrimoniale. All’interno due frigoriferi ben forniti, soprattutto di scatolame. Tutti gli ambienti erano dotati di aria condizionata, le pareti tappezzate di quadri, molte immagini sacre, e di libri. Videocassette per imparare le tecniche di disegno (Schiavone era appassionato di pittura) e tele dipinte dallo stesso boss. Tra queste, una immagine di Napoleone visto di spalle che ammira quello che sembra un tramonto, una tela dai colori accesi. Gli investigatori individuarono anche un autoritratto di Sandokan: un uomo dal volto pulito – raccontano le cronache di allora - con barba, baffi e capelli curati, occhiali grandi da vista ed una maglietta bianca girocollo. Tra gli oggetti personali di Schiavone c’erano anche la Bibbia, due volumi, ancora chiusi nel cellophane (“I Borboni di Napoli” e “Gli ultimi Borboni di Napoli”), e una videoteca con centinaia di cassette sugli argomenti più disparati dal film “Spartacus” ai video porno e film storici. Nonché una trentina di occhiali, di forme diverse, tutti conservati nel suo comodino. Luci al neon, pavimenti di maiolica bianca e un arredamento semplice ed “essenziale” in un appartamento di un centinaio di metri quadrati, munito di videocitofono. Un’intera parete era occupata da un sofisticato impianto stereo, con videoregistratori e proiettori. Nel bagno c’era una vasca-doccia con idromassaggio. Bastò una perquisizione dettagliata per scoprire la “botola“ che dava accesso al sottopassaggio segreto. Fu trovata per terra, nel salone. Una volta aperta, occorreva scendere una scala metallica per raggiungere poi un tunnel formato da anelli ovali prefabbricati lungo circa 15 metri. Alla fine del tunnel un muro di tufo e, al centro, un varco attraverso il quale si accedeva ad un’altra entrata: a destra una seconda botola, dotata di un sofisticato sistema di chiusura scorrevole, su rotaie, impossibile da identificare dall’esterno, sulla sinistra un carrello elevatore con il quale si raggiungeva il soffitto. Dietro la botola invece un sistema di cunicoli (ben undici ne furono individuati) e scale che portavano ad un altro rifugio segreto, dove gli investigatori rinvennero tende canadesi con coperte e materassini, nonché un piccolo arsenale: fucili, mitragliatori, pistole e tutte le relative munizioni. Nei pressi di un muro che dava direttamente all’esterno, sulla strada, furono trovati calcinacci ed un piccone: secondo l’analisi degli uomini della Dia l’estremo tentativo di sottrarsi alla cattura. All’atto dell’arresto Schiavone risultava destinatario di ben otto mandati di cattura per reati, a vario titolo, di estorsione, omicidio, associazione di stampo mafioso, armi e truffa. Dinnanzi al giudice per le indagini preliminari negò tutte le accuse, puntando l’indice contro i pentiti. Nell’agosto successivo il nome di Sandokan fu di nuovo alla ribalta delle cronache. In una lettera indirizzata ad un quotidiano casertano, Francesco Schiavone volle rendere nota la sua ferma volontà di non passare a collaborare con la giustizia, forse anche per smentire le voci che lo volevano sulla strada del pentimento. Parlò di clima persecutorio nei suoi confronti il boss, difendendo a spada tratta la sua famiglia e guadagnandosi l’attenzione di tutti i media. Dieci anni dopo il boss Sandokan si rese protagonista di una nuova azione eclatante contro il 41bis. Schiavone per diversi giorni non toccò cibo, ma questo non convinse i magistrati a revocare la misura del carcere duro, alla quale è a tutt’oggi sottoposto, sebbene solo nel 2005 sia arrivata una sentenza che conferma il ruolo di boss della camorra di Schiavone. Dopo numerose assoluzioni, nel luglio del 2004, Schiavone fu condannato in primo grado al suo “primo ergastolo”, per un omicidio compiuto vent’anni prima. Fu solo l’inizio. Nell’ottobre successivo nuova sentenza di condanna al carcere a vita, fino al 2005, quando con la sentenza che chiuse il primo grado del processo scaturito dall’inchiesta Spartacus Schiavone fu riconosciuto colpevole del reato di omicidio ben cinque volte.
(Tratto da "Attacco allo Stato", Forumitalia edizioni)

lunedì 26 ottobre 2009

Il boss scrive al capo dello Stato

Il 26 aprile del 1990, con un provvedimento del tutto inaspettato, Francesco Schiavone e Mario Iovine, entrambi in attesa di essere estradati in Italia, riconquistarono la liberta persa un anno prima in Francia (23 maggio ‘89). I giudici del tribunale di Santa Maria Capua Vetere emisero un ordine di scarcerazione nei confronti dei due vertici dei Casalesi detenuti nelle prigioni transalpine. Decorrenza dei termini massimi della custodia cautelare (al tempo fissati in sei mesi): fu questa la motivazione posta alla base del provvedimento inoltrato all’autorità giudiziaria francese. Un provvedimento che fece seguito di poche settimane alla decisione del tribunale del Riesame di annullare il secondo mandato di cattura che aveva raggiunto il boss Sandokan mentre era detenuto in Francia (Schiavone era accusato di avere “partecipato all’omicidio di Paride Salzillo”). I giudici della libertà, con il loro verdetto, annullarono l’ultimo provvedimento che teneva bloccato in carcere Schiavone, agevolandone la successiva scarcerazione per decorrenza dei termini di custodia cautelare. A nulla servì il tentativo degli investigatori casertani di bloccare l’esecuzione del provvedimento, Iovine e Schiavone lasciarono la prigione l’11 maggio del 1990. E all’indomani il nome di Sandokan risultava già sulla lista dei ricercati: il boss Schiavone non si fece trovare in casa all’atto della notifica, da parte delle forze dell’ordine, di un provvedimento di sorveglianza speciale e divieto di soggiorno nelle regioni meridionali, emesso dagli stessi giudici del tribunale casertano contestualmente all’ordine di scarcerazione. Iovine si trasferì a Cascais insieme con la sua compagna brasiliana, e lì trovò la morte l’anno dopo. Per Sandokan tuttavia la libertà durò poco: si trattò solo di una “boccata d’aria”, il tempo di tornare a Casal di Principe e riorganizzare il clan. Il tempo di convocare un summit di camorra presso la villa dell’allora assessore alle finanze del comune di Casal di Principe. Accadeva il 13 dicembre del 1990 (cosiddetto blitz di Santa Lucia). I carabinieri casertani e i colleghi di Aversa attesero che tutti i partecipanti alla riunione indetta da Schiavone si presentassero sul posto. Attesero un’intera giornata, nell’ombra. Poi il blitz, che rischiò di trasformarsi in una carneficina. I carabinieri furono costretti ad impugnare i mitra per far fronte al tentativo dei partecipanti al summit di sottrarsi alla cattura. Bidognetti (anch’egli risultava ricercato da un mese) puntò la pistola contro i militari, pronto a fare fuoco per agevolare la fuga di Schiavone. Non ci furono feriti, l’operazione si concluse con la cattura dei due latitanti. Arresti eccellenti, che fecero seguito solo di qualche giorno al blitz che portò in manette un altro ricercato di alto rango: Lorenzo Nuvoletta, capo storico della potente organizzazione di Marano. Nonostante le informative in possesso alle forze dell’ordine, la “voce” dei pentiti e le risultanze di inchieste che inchiodavano i vertici del clan dei Casalesi, la Corte di Cassazione annullò per il boss Schiavone l’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso, a dispetto della richiesta della procura. Una decisione che inciderà in modo positivo anche in sede processuale: i giudici della corte d’Appello del tribunale di Santa Maria Capua Vetere nel gennaio del ‘92 mandarono assolto Schiavone dall’accusa di detenzione abusiva di armi (in primo grado era stato condannato a 4 anni di reclusione) e ne ordinarono la scarcerazione. La fortuna “baciò” allo stesso modo Francesco Bidognetti. Il 28 gennaio del 1992 Sandokan si lasciò nuovamente la prigione alle spalle. E come era accaduto in occasione dell’ultimo arresto, anche questa volta Schiavone fece perdere le sue tracce, violando la misura di soggiorno obbligato per quattro anni a Casal di Principe stabilita dalla Corte contestualmente alla scarcerazione.
A distanza di tre mesi Schiavone finì nuovamente in carcere. Un residuo di pena, tre mesi di cella. Il provvedimento colse di sorpresa il boss, raggiunto dalle forze dell’ordine nella sua villa a Casal di Principe. La detenzione del boss durò poco, solo qualche mese di cella. Un tempo breve, ma sufficiente per creare nuovi contati all’interno del carcere. Con altri tre boss campani nell’agosto ‘93 inviò una lettera all’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, chiedendo la revoca del 41bis, vale a dire la misura del carcere duro, contestando “condizioni inumane di vita”. Nell’ottobre successivo fu scarcerato, e di Schiavone si perse ogni traccia, sebbene gli investigatori abbiano sempre sospettato che il boss, durante i cinque anni in cui si è reso latitante, non ha mai lasciato la sua città. Grazie ad una rete di insospettabili fiancheggiatori il boss Sandokan continuò a gestire gli affari, a frequentare la sua famiglia. E ad intrecciare una relazione sentimentale con due donne sottufficiali della base Nato di Bagnoli al fine di procurarsi facilmente armi e munizioni. Uno spaccato di vita ricostruito grazie alla testimonianza del collaboratore di giustizia Carmine Schiavone.
(Tratto da "Attacco allo Stato", ForumItalia edizioni)

giovedì 22 ottobre 2009

La biografia criminale di Francesco Schiavone "Sandokan"


Agli inizi del 1990 la procura casertana inizia anche ad indagare sulla penetrazione dell’oramai boss Schiavone nella politica locale. Indagini che partono dalla presenza nella giunta comunale di Casal di Principe di parenti di Sandokan. Fu allora che Vincenzo De Falco, le cui mire espansionistiche sono state messe in evidenza da più di un collaboratore di giustizia, tentò di sganciarsi dai vecchi alleati e correre da solo alla conquista del posto di capo.
De Falco intensificò i rapporti con i politici locali, con il chiaro obiettivo di mettere le mani sugli appalti pubblici. Non ebbe fortuna. Dopo essere scampato ad un agguato organizzato contro di lui nel dicembre del 1990 (sventato grazie all’intervento dei carabinieri), De Falco trovò la morte per mano degli ex alleati il 2 febbraio del 1991 (era stato arrestato nel giugno precedente e successivamente trasferito nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia, dove resta fino al 6 novembre successivo, quando sarà scarcerato) a Casal di Principe. A distanza di un mese arrivò la riposta degli uomini rimasti fedeli a De Falco: il 6 marzo Mario Iovine fu ucciso a Cascais, in Portogallo. Fu allora che si consolidò l’alleanza Schiavone-Bidognetti. Fu quello l’inizio di un nuovo corso del clan dei Casalesi, sebbene il gruppo di affiliati rimasti legati a De Falco (capeggiati dal fratello di Vincenzo De Falco, Nunzio) tentarono di frenare l’avanzata del nuovo sodalizio. Un tentativo che passò per numerosi delitti, ma che non ebbe gli esiti sperati. La nuova faida provocò una ventina di omicidi e si lasciò alla spalle due vittime innocenti colpite per errore durante le sparatorie: un ragazzo di soli dodici anni (durante un agguato in un salottificio nell’aprile del ‘91) ed il barista di un locale di Castelvolturno (nel giugno dello stesso anno). Con un’inchiesta datata ottobre 1991, l’Antimafia fece luce sui retroscena della mattanza, ottenendo l’arresto dei vertici del gruppo De Falco e degli esponenti di maggior rilievo dell’organizzazione. Solo qualche giorno prima la Criminalpol di Napoli aveva identificato e fermato in terra iberica il presunto omicida di Mario Iovine, un trentenne di origini spagnole. Il mandante, secondo quanto fu appurato dalle indagini, fu Nunzio De Falco: un’operazione eclatante, per vendicare la morte del fratello. De Falco infatti fece affidamento su un gruppo di narcotrafficanti della Costa del Sol noti con il nome di “Gabi”: Iovine fu sorpreso da una pioggia di piombo mentre si trovava in una cabina telefonica: due colpi di 38 special, uno allo stomaco, l’altro fra gli occhi. Ma la faida non si placò, e nel Casertano si continuò a sparare. Nel marzo del 1992 fu assassinato Giuseppe De Falco, noto come Barbacane, fratello di Vincenzo e Nunzio e ritenuto un esponente di spicco del gruppo rimasto fedele ai mazzoni. Venti giorni dopo, in un agguato morì il titolare di un salottificio ritenuto un fiancheggiatore dei clan Schiavone e Bidognetti. Nel luglio del 1992 fu uccisa una donna, vittima di una vendetta trasversale. Colpevole di avere intrecciato una relazione sentimentale con un esponente del clan Venosa, attivo a San Cipriano d’Aversa e rivale del sodalizio capeggiato da Francesco Schiavone.
Due settimane dopo fu arrestato il boss dell’omonimo sodalizio, Luigi Venosa, già scampato ad una serie di agguati organizzati contro di lui dal gruppo Schiavone-Bidognetti. La faida culminò nel triplice omicidio del 7 agosto del ‘92: in una officina a Villa Literno furono assassinati il titolare, un suo dipendente ed un cliente. Il giorno dopo furono arrestati tre fratelli Venosa e un affiliato al clan con l’accusa di avere preso parte all’esecuzione. Nel 1994 Francesco Schia-vone è per tutti il padrino indiscusso dei Casalesi, un titolo che nessuno gli porterà più via. La sua scalata è inarrestabile, favorita peraltro dall’arresto di Bidognetti, sul finire del 1993, proprio poco dopo la scarcerazione di Schiavone. Quest’ultimo infatti riconquistò la libertà l’11 ottobre del 1993 (era finito nuovamente in prigione il 14 aprile del 1992). E in carcere Sandokan non ci tornerà prima del 1998, la data del suo ultimo e definitivo arresto (Schiavone violò subito le prescrizioni della sorveglianza e sfuggì all’operazione battezzata Spartacus).
(Tratto da "Attacco allo Stato", ForumItalia edizioni) - continua

venerdì 16 ottobre 2009

La biografia criminale di Francesco Schiavone "Sandokan"


Alla scomparsa del boss Bardellino fece seguito quella del nipote Paride Salzillo (maggio 1988), suo braccio destro, stando a quanto riferito dai pentiti (e da Luigi Basile, ex pentito condannato in via definitiva all’ergastolo per il concorso nell’omicidio di Ciro Nuvoletta, 1984), strangolato con una corda di plastica. Il cadavere sarebbe stato poi trasportato ai Regi Lagni e seppellito nel cemento. Da quel momento tutti i vecchi gregari del boss della Nuova famiglia iniziarono a sentirsi possibili bersagli e lasciarono la città, trovando rifugio a Formia. Rimase invece a San Cipriano d’Aversa, con il fermo proposito di opporsi alla inarrestabile avanzata di Sandokan e i suoi uomini, Antonio Salzillo, il fratello di Paride, accusato di aver partecipato alla cosiddetta “strage di Casapesenna” (18 dicembre 1988). Il mandato di cattura fu eseguito nei confronti di Antonio Salzillo solo a distanza di un anno dai fatti, nel 1989. Il nipote di Bardellino fu stanato a Ginevra, dove viveva sotto falso nome. Nella strage, che si svolse in una bisca clandestina di Casapesenna, in provincia di Caserta, morirono due persone (Michele Pardea e Antonio Salzillo, omonimo del nipote del boss).
Le agenzie di stampa, nel dare la notizia dell’agguato di Casapesenna, si soffermarono sull’ipotesi che uno dei cadaveri rinvenuti all’interno della bisca fosse quello di Sandokan:
Camorra: due morti in agguato nel casertano

Caserta, 18 dic - Due persone sono state uccise a colpi di fucile e pistola in un agguato camorristico la scorsa notte nel centro di Casapesenna (Caserta). Uno dei due, Antonio Salzillo di 27 anni di San Cipriano d’Aversa, omonimo e cugino del figlio della sorella del “boss” Antonio Bardellino è stato identificato dai familiari. Per l’altra vittima, sfigurata al volto dai pallettoni di un fucile a canne mozzate, sono ancora in corso accertamenti. Carabinieri e polizia ritengono che possa trattarsi di Francesco Schiavone, detto “Sandokan” un “boss” della “Nuova famiglia”, che sarebbe subentrato ad Antonio Bardellino al vertice dell’organizzazione che faceva capo a don Antonio.
Camorra: due morti in agguato camorristico nel Casertano (2) Caserta, 18 dic - I carabinieri hanno tramutato in arresto il fermo del pregiudicato ferito ad una gamba e sospettato di essere uno dei responsabili dell’agguato di Casapesenna. Si tratta di Michele Di Bona, di 26 anni, di San Cipriano d’Aversa. L’uomo si trova attualmente piantonato all’ospedale di Caserta. Non è stata confermata, invece, l’identificazione con Francesco Schiavone, noto come “Sandokan”, per l’altra vittima dell’agguato. In serata è stato identificato l’altro cadavere. Si tratta del pregiudicato Vincenzo D’Alessandro, legato ad Antonio Salzillo.
Agli inizi degli anni Novanta ci fu la svolta, e l’avvento definito di Schiavone al vertice del sodalizio che iniziò ad essere identificato “nel gruppo Schiavone”, essendo ormai scomparsi dalla scena Iovine e De Falco (entrambi assassinati) e Francesco Bidognetti (arrestato nel 1993).
(Tratto da "Attacco allo Stato", ForumItalia edizioni)

giovedì 8 ottobre 2009

La biografia criminale di Francesco Schiavone "Sandokan"


Nella sentenza emessa dal tribunale di Napoli nel 1983 contro la Nuova famiglia, si legge che la maxi-federazione anticutoliana nasce ufficialmente nel 1978. Un dato che emerse dalla documentazione rinvenuta durante la perquisizione della vettura di Mario Fabbrocino (siamo nel 1981): si tratta di lettere, vaglia postali assistenziali ai detenuti e alle loro famiglie, in cui si fa riferimento all’accordo tra le diverse realtà criminali, tra cui il gruppo Bardellino, che avevano deciso di contrastare Cutolo (scrive il boss Francesco Mallardo: “Bisogna trucidare le vili cotolette…”, riferendosi agli affiliati alla Nco).
Alla fine degli anni Settanta, fu proprio Bardellino a farsi promotore della ribellione ai cutoliani, rompendo una tregua voluta dai Nuvoletta e mal sopportata dalle altre cosche confederate nella Nuova famiglia (tra Nuvoletta e Bardellino si arriverà ad uno scontro cruento che, nel 1984, culminerà con l’omicidio di Ciro Nuvoletta; all’agguato, su mandato di Carmine Alfieri, parteciperà anche lo stesso Bardellino). Tutti coloro che confluiranno nel clan dei Casalesi hanno militato nel gruppo Bardellino. Francesco Schiavone viene indicato dai collaboratori di giustizia tra i componenti del gruppo di fuoco e, secondo il pentito Umberto Ammaturo, Sandokan era tra gli uomini fidati del padrino, tanto da diventarne l’autista. Bardellino riuscì in poco tempo ad individuare i canali di accesso al mondo della politica locale (nei Comuni di Casal di Principe e San Cipriano di Aversa soprattutto). Gli ingranaggi del sistema affaristico-politico-camorristico erano saldamente tenuti insieme dagli esponenti del gruppo dei Casalesi, tra i quali spiccava la figura di Mario Iovine. E fu così fino al 1988, quando Bardellino sparì nel nulla in Brasile. Fu allora che apparve chiaro che nella perfetta organizzazione di Bardellino si era aperta una falla. E che gli stessi affiliati che un tempo gli avevano garantito copertura e appoggio durante la sua latitanza e nella sua corsa al potere contro i cutoliani, gli avevano voltato le spalle. Fu proprio Iovine, dice l’Antimafia, ad assassinare Bardellino, il cui corpo non sarà mai ritrovato. Secondo quanto ricostruito nelle inchieste, l’eliminazione del vecchio padrino fu decisa per porre un freno alle ambizioni del gruppo dei fedelissimi che ruotava attorno al padrino. Nel 1987 infatti Bardellino aveva chiuso un grosso affare, assicurandosi una maxi-tangente sui lavori per la sistemazione dei Regi Lagni (come confermerà Carmine Alfieri, al quale fu offerta una cospicua quota dell’importo in cambio dell’autorizzazione a procedere nell’affare).
Bardellino, nel corso del tempo, iniziò ad accentrare la ricchezza nelle proprie mani (e in quelle dei familiari più stretti), generando una situazione di malcontento tra gli affiliati di cui seppe approfittare Mario Iovine. Un malcontento che si trasformò in diffidenza con l’omicidio del fratello di quest’ultimo, Domenico (11 gennaio 1988), un agguato deciso da Bardellino che da sempre sospettava che la vittima fosse, in realtà, un informatore della polizia di Casal di Principe (secondo le dichiarazioni di Alfieri lo stesso Mario Iovine votò a favore del delitto, sacrificando il fratello per avere il pretesto per uccidere poi Bardellino).
Schiavone e le famiglie Bidognetti e De Falco intuirono che si prospettava l’inizio di un nuovo corso e decisero di prendere posizione, appoggiando senza riserve l’ascesa criminale di Iovine. Si rafforzò il gruppo dei Casalesi, che iniziò a rendersi autonomo sganciandosi dalla struttura confederativa voluta da Bardellino. Il comando dell’organizzazione fu preso da Mario Iovine (all’epoca latitante e spesso all’estero, in Francia o in Brasile, per occuparsi di affari di droga), Francesco Schiavone, Francesco Bidognetti e Vincenzo De Falco. Sandokan iniziò a distinguersi dagli altri affiliati per le sua spiccata capacità imprenditoriale e per la scelta di affidare ruoli di primo piano ai propri familiari (il fratello Walter ed il cugino Francesco, figlio di Luigi, alias Cicciotto, nonché il cugino Carmine Schiavone, poi pentitosi), così come sottolineano i giudici nelle motivazioni della sentenza che ha chiuso il primo processo scaturito dall’inchiesta battezzata Spartacus I. “E’ risultato uno dei promotori del fenomeno di ribaltamento del vertice operativo della precedente organizzazione”, spiegano i giudici, ma è dopo l’omicidio di Vincenzo De Falco (febbraio del 1991) e di Mario Iovine (marzo del 1991), “che si assiste ad costante progressione nella scalata di Francesco Schiavone verso il vertice del gruppo criminoso. Da semplice soldato posto alle dipendenze di Antonio Bardellino (fine anni ‘70 ed inizio anni ‘80) - si legge nelle motivazioni della sentenza – Francesco Schiavone diventa, per sua particolare freddezza ed abilità operativa, prima uno dei suoi uomini di maggior fiducia (nello svolgimento di compiti di assoluto controllo del territorio nella lotta contro i cutoliani) e successivamente aderisce al progetto omicidiario di Mario Iovine in danno dello stesso Bardellino, progetto che include anche l’eliminazione di Paride Salzillo”.
(continua)

martedì 6 ottobre 2009

La biografia criminale di Francesco Schiavone "Sandokan"


Il primo arresto di Francesco Schiavone in qualità di “persona vicina al gruppo Bardellino” risale al 1983, quando Sandokan, il cugino Carmine Schiavone e altre tre persone furono sorpresi durante un summit: era lo stesso anno in cui il tribunale di Napoli firmò la prima sentenza contro gli esponenti della Nuova famiglia, tra i quali spicca il padrino Antonio Bardellino, legato alla famiglia di Cosa nostra facente capo al gruppo dei cosiddetti scappati (Badalamenti, Bontade e Inzerillo), all’epoca ancora vincenti e in conflitto con i Corleonesi di Totò Riina. Risale, invece, all’aprile del 1986 la prima sentenza contro il clan Bardellino: anche Schiavone fu condannato per il reato associativo.
Attorno al gruppo di Bardellino, iniziarono a muoversi anche altri clan influenti nella zona di Mondragone e di Sessa Aurunca, certi dei benefici che avrebbero ricevuto alleandosi con uno dei personaggi più forti della Nuova famiglia di Carmine Alfieri.
“Antonio Bardellino, uno degli uomini più fidati di Lorenzo Nuvoletta – scrivono i giudici del tribunale di Santa Maria Capua Vetere – rappresentava, con lo stesso Nuvoletta e con Michele Zaza, la costola campana dell’organizzazione mafiosa denominata Cosa nostra”, così come emerge nel maxi-processo celebrato a Palermo e conclusosi in primogrado il 16 dicembre 1987.
Racconta Tommaso Buscetta, interrogato dal giudice istruttore Giovanni Falcone il 23 luglio 1984: “Anche nella Campania vi sono famiglie mafiose, trattasi di tre famiglie che fanno capo rispettivamente a Michele Zaza di Napoli, Antonio Bardellino ed ai fratelli Nuvoletta di Marano… ad eccezione delle famiglie di Napoli che rientrano nella giurisdizione della Commissione di Palermo, ogni provincia è autonoma, anche se le decisioni adottate dalla commissione di Palermo sono indicatrici di una linea di tendenza, adottata dalle altre commissioni…”. “I Nuvoletta – prosegue Buscetta – sono diventati famosi in virtù dei loro vincoli di amicizia con i Corleonesi e prima di tutto con Luciano Leggio. Bardellino invece ignoro sulla base di quali rapporti e interessi sia entrato a far parte della mafia… E’ possibile che ciò sia avvenuto per creare un argine a Raffaele Cutolo, notoriamente avverso alla mafia siciliana”.
(3-continua)

venerdì 2 ottobre 2009

La biografia criminale di Francesco Schiavone "Sandokan"


Disposti a tutto, pur di arrivare a brillare nel firmamento dei boss. Privi di scrupoli, senza porre alcun limite nella ricerca del denaro e del potere. E come Riina, Schiavone non si separò mai dalla sua famiglia: concepì due dei suoi sette figli durante la latitanza, sfidando a viso aperto lo Stato. L’ultima figlia nacque nel marzo del 1997 nella clinica Ruesch di Napoli. Ma non furono questi gli unici punti di contatto tra il boss dei Casalesi e il padrino di Cosa nostra. Si incontrarono faccia a faccia i due capi. Nel 1993 Schiavone e Riina condivisero la cella nel carcere dell’Asinara. Con loro anche Augusto La Torre (poi passato a collaborare con la giustizia) e Luigi Venosa, entrambi ritenuti capi dei clan che da loro prendono il nome e che, negli anni Novanta, si opporranno proprio ai Casalesi. Si trattò forse di una distrazione, o almeno così volle considerarla l’allora presidente della commissione Antimafia Luciano Violante, che alla stampa dichiarò: “E’ necessario che siano quanto prima separati perché altrimenti si ricostituirebbe una cupola di cui non abbiamo bisogno. Inoltre, se si tiene conto che c’è un colloquio al mese per ogni detenuto, arriverebbero a Caserta direttive ogni dieci giorni rendendo inutile le misure di mandarli all’Asinara e di limitare i contatti con l’esterno”.
Della tappe della carriera criminale di Schiavone c’è ampia traccia nei fascicoli dei magistrati antimafia. Sandokan, lo chiamano così da sempre, per la barba ed i folti capelli neri, particolari che ricordano l’attore Kabir Bedi, protagonista del celebre film salgariano del ‘63.
Un sopranome che Francesco Schiavone, figlio di Nicola Schiavone, il capostipite della famiglia, non ha mai gradito. Il boss di Casal di Principe ha attraversato la storia della camorra, lasciando un segno tangibile della sua forza criminale nel passato politico e imprenditoriale dei Comuni che rientrano nella zona di influenza dei Casalesi.
Le leggende legate alla sua particolare ferocia e alla spietatezza contro amici e nemici si intrecciano alle verità accertate in sede processuale. Schiavone tradì il boss Bardellino, il padrino in contatto con i picciotti della Cupola siciliana legati a Stefano Bontade e Tano Badalamenti, prese parte alla congiura che portò alla sua morte per mano di Mario Iovine e, nello stesso giorno in cui gli fu comunicata l’uccisione di Bardellino, partecipò all’agguato contro il nipote del vecchio padrino, Paride Salzillo. Dicono le cronache giudiziarie che fosse pronto anche ad ammazzare quello che poi diventerà il suo braccio destro, Francesco Bidognetti, Cicciotto ‘e mezzanotte per tutti. “Fremeva di ucciderlo”, sostengono i collaboratori di giustizia.
(2-continua)

giovedì 1 ottobre 2009

La biografia criminale di Francesco Schiavone "Sandokan"


Cinque anni vissuti nell’ombra, senza mai lasciare la sua terra. Lontano dai riflettori della cronaca, vicino, vicinissimo, agli affiliati e alla sua famiglia. Poi, l’arresto del capo dei capi della camorra casertana e la rivalsa dello Stato sullo strapotere della camorra che a Casal di Principe, Caserta e San Cipriano d’Aversa ha i volti e i nomi degli esponenti del clan dei Casalesi.
La cattura di Francesco Schiavone, 54 anni, capo indiscusso dell’organizzazione criminale nata alla fine degli anni Ottanta sulla scia della disfatta del gruppo di Antonio Bardellino, segnò l’inizio della controffensiva dell’Antimafia in Terra di Lavoro.
Innamorato del mito di Napoleone, Francesco Schiavone viene definito dagli inquirenti una mente criminale di primissimo livello, capace di intessere rapporti di affari con la politica e con gli imprenditori, di gestire flussi economici di portata miliardaria e di imporre il suo potere di capoclan feroce ed astuto su un territorio tanto vasto quanto ambito dai sodalizi più forti della camorra campana, godendo dell’appoggio di esponenti della vita politica locale.
“Una intelligenza criminale – per dirla con un magistrato che ha dedicato grande impegno alla inchieste sulla camorra casertana, il pm Federico Cafiero de Raho – che non ha eguali in Campania”.
Quella villa bunker, oggi destinata a diventare un centro sociale per i giovani, Francesco Schiavone l’aveva fatta costruire su misura. L’11 luglio del 1998 i carabinieri violarono il fortino, mettendo fine alla latitanza di un uomo spietato, come solo i boss mafiosi sanno essere. Dotato di una freddezza particolare, si legge nelle carte processuali. Schiavone negli ultimi venti anni ha scalato i vertici di una delle più potenti organizzazioni criminali della regione, scardinando logiche di potere consolidate nel tempo e riconducibili a un capoclan del calibro di Antonio Bardellino, uno dei protagonisti della ribellione allo strapotere di Raffaele Cutolo, “il professore” di Ottaviano.
Il primo arresto di Sandokan risale al 1972, quando Schiavone aveva appena diciotto anni. Fu fermato per detenzione abusiva di armi, ma già si sospettavano legami con la criminalità organizzata. Come il padrino mafioso Totò Riina, anche Schiavone iniziò da giovanissimo ad inseguire il sogno di diventare un uomo d’onore.
(1-continua)