martedì 27 ottobre 2009

Il padrino finisce in manette


L’operazione era pronta da tempo. La Dia, grazie anche al contributo della Dda, era riuscita a rintracciare il luogo in cui si nascondeva il boss una settimana prima dell’arresto, ma già da un anno gli spostamenti di Francesco Schiavone, ritenuto al tempo uno dei latitanti più pericolosi d’Italia, erano tenuti sotto controllo. Il boss era intercettato, seguito, spiato. Sandokan tornava in quella casa, nella sua villa a Casal di Principe, almeno due volte al mese da un rifugio sistemato al Nord-Italia, forse in Piemonte o in Lombardia. L’11 aprile del 1998, a mezzogiorno e un quarto, gli investigatori misero fine alla sua latitanza. Francesco Schiavone non oppose resistenza, sebbene trascorsero alcune ore prima che gli uomini della Dia riuscissero a localizzarlo all’interno della villa. E così il fratello Mario, che era con lui, e la moglie Giuseppina Nappa. In quel momento in casa erano presenti anche i figli più piccoli del boss, quasi irriconoscibile con la barba rada e diversi chili in più rispetto alla “vecchie” fotografie di archivio. “State fermi, ci sono le bambine, mi arrendo, ma attenzione alle bimbe”, gli uomini della Dia raccontarono che al momento dell’irruzione Schiavone aveva in braccio la sue figlie, una bambina di poco piu’ di un anno, l’altra di tre. Un vero proprio plotone di uomini fu impegnato nell’operazione. In oltre quaranta passarono al setaccio la villa bunker di via Salerno, a Casal di Principe, una piccola fortezza su due piani senza finestre, realizzata in modo da rendere agevole una eventuale fuga di emergenza, attraverso un sofisticato sistema di cunicoli e grotte naturali sotterranee, e predisposta per ospitare cinque o sei persone. L’irruzione degli uomini della Dia nel rifugio bunker iniziò poco dopo le ventitré della sera del 10 luglio. La villa fu circondata dopo avere buttato giù un pesante cancello di otto metri. Ma all’interno apparve deserta. Gli investigatori non si arresero. Avevano visto Schiavone entrare nella villa, sapevano che era lì. E che non era solo. Una lunga notte di ricerche affannate, perquisizioni, nel tentativo di individuare il varco segreto. L’accesso ad un passaggio sotterraneo che gli investigatori erano certi esistesse. Alla fine Schiavone uscì allo scoperto. Il rifugio era stato ricavato all’interno di un capannone utilizzato come deposito di attrezzi agricoli e materiali edili, l’entrata era nascosta tra cassette di plastica vuote ed attrezzi da giardinaggio. L’appartamento di Schiavone, al quale si giungeva attraversando un breve corridoio, era accessibile grazie ad una sorta di parete di granito mobile, una parete che scorreva avanti e indietro su due binari e che una volta chiusa, celava perfettamente la casa, composta da una camera da letto, un grande salone rettangolare, un bagno ed una camera da letto matrimoniale. All’interno due frigoriferi ben forniti, soprattutto di scatolame. Tutti gli ambienti erano dotati di aria condizionata, le pareti tappezzate di quadri, molte immagini sacre, e di libri. Videocassette per imparare le tecniche di disegno (Schiavone era appassionato di pittura) e tele dipinte dallo stesso boss. Tra queste, una immagine di Napoleone visto di spalle che ammira quello che sembra un tramonto, una tela dai colori accesi. Gli investigatori individuarono anche un autoritratto di Sandokan: un uomo dal volto pulito – raccontano le cronache di allora - con barba, baffi e capelli curati, occhiali grandi da vista ed una maglietta bianca girocollo. Tra gli oggetti personali di Schiavone c’erano anche la Bibbia, due volumi, ancora chiusi nel cellophane (“I Borboni di Napoli” e “Gli ultimi Borboni di Napoli”), e una videoteca con centinaia di cassette sugli argomenti più disparati dal film “Spartacus” ai video porno e film storici. Nonché una trentina di occhiali, di forme diverse, tutti conservati nel suo comodino. Luci al neon, pavimenti di maiolica bianca e un arredamento semplice ed “essenziale” in un appartamento di un centinaio di metri quadrati, munito di videocitofono. Un’intera parete era occupata da un sofisticato impianto stereo, con videoregistratori e proiettori. Nel bagno c’era una vasca-doccia con idromassaggio. Bastò una perquisizione dettagliata per scoprire la “botola“ che dava accesso al sottopassaggio segreto. Fu trovata per terra, nel salone. Una volta aperta, occorreva scendere una scala metallica per raggiungere poi un tunnel formato da anelli ovali prefabbricati lungo circa 15 metri. Alla fine del tunnel un muro di tufo e, al centro, un varco attraverso il quale si accedeva ad un’altra entrata: a destra una seconda botola, dotata di un sofisticato sistema di chiusura scorrevole, su rotaie, impossibile da identificare dall’esterno, sulla sinistra un carrello elevatore con il quale si raggiungeva il soffitto. Dietro la botola invece un sistema di cunicoli (ben undici ne furono individuati) e scale che portavano ad un altro rifugio segreto, dove gli investigatori rinvennero tende canadesi con coperte e materassini, nonché un piccolo arsenale: fucili, mitragliatori, pistole e tutte le relative munizioni. Nei pressi di un muro che dava direttamente all’esterno, sulla strada, furono trovati calcinacci ed un piccone: secondo l’analisi degli uomini della Dia l’estremo tentativo di sottrarsi alla cattura. All’atto dell’arresto Schiavone risultava destinatario di ben otto mandati di cattura per reati, a vario titolo, di estorsione, omicidio, associazione di stampo mafioso, armi e truffa. Dinnanzi al giudice per le indagini preliminari negò tutte le accuse, puntando l’indice contro i pentiti. Nell’agosto successivo il nome di Sandokan fu di nuovo alla ribalta delle cronache. In una lettera indirizzata ad un quotidiano casertano, Francesco Schiavone volle rendere nota la sua ferma volontà di non passare a collaborare con la giustizia, forse anche per smentire le voci che lo volevano sulla strada del pentimento. Parlò di clima persecutorio nei suoi confronti il boss, difendendo a spada tratta la sua famiglia e guadagnandosi l’attenzione di tutti i media. Dieci anni dopo il boss Sandokan si rese protagonista di una nuova azione eclatante contro il 41bis. Schiavone per diversi giorni non toccò cibo, ma questo non convinse i magistrati a revocare la misura del carcere duro, alla quale è a tutt’oggi sottoposto, sebbene solo nel 2005 sia arrivata una sentenza che conferma il ruolo di boss della camorra di Schiavone. Dopo numerose assoluzioni, nel luglio del 2004, Schiavone fu condannato in primo grado al suo “primo ergastolo”, per un omicidio compiuto vent’anni prima. Fu solo l’inizio. Nell’ottobre successivo nuova sentenza di condanna al carcere a vita, fino al 2005, quando con la sentenza che chiuse il primo grado del processo scaturito dall’inchiesta Spartacus Schiavone fu riconosciuto colpevole del reato di omicidio ben cinque volte.
(Tratto da "Attacco allo Stato", Forumitalia edizioni)

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