lunedì 31 agosto 2009

La criminalità organizzata albanese


La criminalità organizzata albanese rappresenta uno dei «ceppi» delinquenziali più radicati in Italia ed è strutturata in clan specializzati nel traffico internazionale di stupefacenti e nello sfruttamento della prostituzione. I padrini della mala albanese difficilmente si spostano dalla madrepatria, dove gestiscono – molto spesso con la complicità delle istituzioni locali deviate – i collegamenti con le «cellule» estere e dove investono, in attività lecite, i proventi dei business milionari, creando veri e propri imperi economici alimentati dal riciclaggio di denaro sporco.
Con particolare riferimento al comparto della droga, è stato accertato dagli organi giudiziari che si è creata una sinergia operativa con le cosche italiane – in qualità di acquirenti – e con i clan nordafricani, che velocizza i tempi per l’importazione degli stupefacenti e procura un più alto tasso di profitto, derivante da una migliore e più articolata rete di vendita al dettaglio su tutto il territorio nazionale.
Scrivono gli investigatori della Direzione investigativa nell’ultima relazione semestrale: «I reati commessi da cittadini albanesi si evidenziano nel nord del Paese, specialmente in Liguria e Lombardia, Piemonte e Veneto; nell’area centrale in Abruzzo, Emilia Romagna, Marche e Toscana e, per il Sud, in Campania e Puglia». E ancora: «I sodalizi più strutturati, sulle sperimentate rotte degli stupefacenti, possono veicolare carichi di armi e incentivare i flussi dell’immigrazione clandestina, anche per soddisfare le crescenti richieste di manodopera in nero, a basso costo, e il mercato della prostituzione. La tratta di esseri umani, strettamente collegata all’immigrazione clandestina, ha raggiunto una dimensione tale da rappresentare, subito dopo il narcotraffico, il principale business della criminalità organizzata transnazionale, recando con sé una serie di reati di rilevante gravità, tra i quali meritano una menzione particolare quelli contro la persona».
Circa i rapporti tra la criminalità organizzata albanese e quella italiana, sono invece accertati i contatti con la ’Ndrangheta (come evidenziato dall’operazione «Skoder» che ha dimostrato come la famiglia mafiosa dei Magliari di Altomonte, in provincia di Cosenza, si servisse di albanesi e rumeni per spacciare la droga nel proprio territorio di competenza) e con i gruppi mafiosi della Puglia, sulle cui coste avvengono gli sbarchi più frequenti non solo di immigrati clandestini, ma anche di colossali partite di droga stoccate nei «porti franchi» del mar Mediterraneo.

venerdì 28 agosto 2009

Ecologia, business e mafie straniere


E se il business del futuro della mafia internazionale – quella che opera ai più alti livelli dell’economia criminale europea e mondiale – non fosse più la droga, ma lo stoccaggio e il traffico di rifiuti tossici?
A leggere le relazioni degli apparati investigativi nazionali e scorrendo le inchieste della magistratura, negli ultimi venti anni, il sospetto sembra essere legittimo, tanto più in considerazione del sempre più stretto rapporto che le holding malavitose straniere stanno stringendo con i gruppi criminali del nostro Paese per spartirsi affari miliardari a basso livello di rischio.
I processi per ecomafia che hanno portato alla sbarra i «colletti bianchi» del potente clan dei Casalesi, collettore mafioso-imprenditoriale dei veleni raccolti in tutt’Italia e sversati illegalmente in provincia di Caserta, potrebbero essere soltanto l’apice di una struttura sotterranea ancora più ramificata, capace di trasportare da e per l’Italia ingenti quantitativi di sostanze tossiche e rifiuti speciali, da occultare in aree abbandonate.
Già nel 1995, ad esempio, una indagine della Procura di Palermo portò all’arresto di sette faccendieri – accusati di associazione mafiosa finalizzata allo smaltimento clandestino di rifiuti tossici – in contatti con una misteriosa società svizzera. Il gruppo, secondo le risultanze investigative, avrebbe raccolto rifiuti tossici in Italia e all’estero per poi nasconderli in cave dismesse in Piemonte e in Sicilia.
Il ruolo della mafie straniere potrebbe essere proprio quello di «vettori» dei rifiuti tossici in entrata e in uscita dalla Penisola, una sorta di «vigili» di questo immenso traffico che viaggia per mare e per terra, in accordo con le organizzazioni criminali italiane nel ruolo di promotori e co-gestori del business.
Ma perché le mafie italiane avrebbero bisogno di quelle straniere in questo folle progetto criminale? Semplice: in Italia i controlli delle forze dell’ordine e della magistratura sono sensibilmente aumentati, negli ultimi tempi, e l’attenzione al fenomeno delle eco-mafie si sta rafforzando (il procuratore nazionale antimafia, Piero Grasso, ha proposto ultimamente l’istituzione del reato associativo ambientale, facendolo rientrare nelle competenze degli uffici distrettuali antimafia); ma in Ungheria, in Africa, in Albania, nei Paesi in via di sviluppo chi può controllare che cosa viene sversato nelle discariche? Le capacità di corruzione delle mafie di esportazione sono impressionanti e potrebbero essere utilizzate proprio per «narcotizzare» eventuali attività investigative nei loro paesi d’origine.
D’altronde, ci sarebbe anche un precedente a suffragare questa ipotesi, che circola ormai da tempo negli ambienti giudiziari e investigativi italiani: negli anni Novanta, una nave carica di rifiuti tossici, diretta in Romania, venne fermata nel porto di Genova e posta sotto sequestro; altri due natanti, dello stesso tipo, erano riusciti a giungere a destinazione, appena poche settimane prima. A gestire il malaffare sarebbero stati gruppi affaristici legati alla criminalità organizzata. Solo un’anticipazione di quello che accadrà?

giovedì 27 agosto 2009

La criminalità organizzata rumena


Non droga, ma frodi informatiche: è questo il segno distintivo, nel nostro Paese, della criminalità rumena, che ancora non riesce a darsi una organizzazione capace di partecipare, in maniera attiva, alla complessa architettura internazionale del narcotraffico ma che – al contempo – è in grado di accreditarsi, nel panorama delinquenziale continentale, come una delle più progredite dal punto di vista scientifico, tanto da rappresentare una seria minaccia allo sviluppo dell’e-commerce in Italia e nel resto d’Europa.
Scrivono gli investigatori della Direzione investigativa antimafia nell’ultima relazione: «In tale contesto, emerge anche la casistica relativa al “phishing”, ossia al furto dei dati personali, acquisiti fraudolentemente attraverso messaggi di posta elettronica». Si tratta di un «fenomeno ormai divenuto cavallo di battaglia della criminalità romena. Riscontri in merito vengono forniti dall’operazione convenzionalmente denominata “Yellow Card”, effettuata nel mese di luglio 2008 a Bologna, che ha consentito di arrestare cinque romeni. I medesimi erano appartenenti ad un’organizzazione criminale finalizzata alla frode informatica, al falso e alla truffa, che aveva raggiunto un volume di affari illeciti per oltre un milione di euro e il cui vertice operava dalla Romania». La specialità di questi pirati informatici sono la clonazione di carte di credito e la duplicazione delle carte bancomat, attraverso un ingegnoso furto delle password che si realizza con micro-telecamere, installate proprio sopra la tastiera dei dispositivi, che «catturano» i codici segreti.
Da un punto di vista strutturale, però, è importante sottolineare che non esistono veri e propri clan rumeni, ma piccole organizzazioni che si aggregano, di volta in volta, con lo specifico obiettivo di commettere un reato, sciogliendosi subito dopo. Ne consegue una polverizzazione dei gruppi che rende più difficile l’identificazione degli autori dei singoli reati e l’attribuzione di specifiche condotte criminali.
Dalle indagini, emerge che ad essere particolarmente ricco è il business dei furti di macchine operatrici (miscelatori di cemento, betoniere, trattori, mini-escavatori, flex, demolitori, gru…) rubate in Italia e trasportate in Romania, dove vengono rivendute con falsi documenti, attraverso l’Austria e la Slovenia; oltre che quello delle rapine, soprattutto nell’area del nord-est.
Resta, comunque, la prostituzione il «core-business» di maggiore interesse per la criminalità rumena, come dimostra una inchiesta della procura antimafia di Torino «nei confronti di appartenenti ad un sodalizio criminale, composto da romeni e albanesi, dediti allo sfruttamento di giovani ragazze, che, non appena maggiorenni, venivano prelevate da orfanatrofi della Romania ed avviate alla prostituzione, una volta giunte in Italia».

mercoledì 26 agosto 2009

La mafia africana


La presenza di gruppi criminali africani, in Italia, è stata accertata da numerose inchieste giudiziarie, che hanno permesso di identificare tre etnie, particolarmente invasive: nigeriani, maghrebini e tunisini. Si tratta di gruppi criminali che operano, per lo più, in Emilia Romagna, in Puglia e in alcune aree della provincia di Caserta, in Campania. Analizziamone le caratteristiche, sottolineando – però – che le evoluzioni delle dinamiche criminali sono così convulse e veloci da rendere, in ogni caso, complessa una loro «cristallizzazione» in atti giudiziari definitivi.
Le maggiori entrate per i clan della mafia nigeriana derivano dallo sfruttamento della prostituzione, che viene attuato in collaborazione con i gruppi criminali locali (soprattutto in Sicilia), e dal traffico internazionale di stupefacenti, che viaggia lungo linee direttrici Nigeria-Spagna-Olanda-Italia, avvalendosi di appoggi logistici e aree di stoccaggio a cui attendono specifiche organizzazioni criminali.
«E’ indubitabile che, a fronte del numero di sequestri messi a segno su corrieri di cittadinanza nigeriana», scrivono gli 007 della Direzione investigativa antimafia, «più esigue appaiono essere le forme associative contestate, probabile sintomo di un’attività organizzativa criminale che possiede efficienti metodi mimetici per sfuggire alle attività di indagine sul territorio. Infatti, mentre in passato le attività di traffico e di spaccio di stupefacenti erano gestite solo attraverso propri connazionali, nel corso del tempo, a causa del contrasto investigativo, i nigeriani sono stati costretti a diversificare le nazionalità dei corrieri ovulatori (ingoiano gli ovuli di cocaina durante i viaggi, ndr) e a stabilire relazioni operative con gruppi criminali di altri paesi per lo sviluppo del traffico… Le sostanze più trattate sono i derivati della cannabis, ma è in continua ascesa l’inserimento nel traffico e nello spaccio delle droghe pesanti».
Rispetto alle altre organizzazioni straniere, infatti, quella nigeriana appare strutturata secondo gli schemi e le funzionalità proprie dell’associazione mafiosa (non a caso, a Torino, si sta celebrando un processo nei confronti di un clan nigeriano accusato di mafia), che portano anche alla commissione di omicidi e atti di violenza nei confronti di propri connazionali.
Presenze meno significative sono quelle, invece, riferite alle cosche maghrebine e tunisine, che si dedicano non a reati particolarmente complessi (che richiedono cioè ingenti capitali iniziali, come il traffico di droga, ad esempio, o la tratta di esseri umani) ma a quelle tipologie di delitti di «strada», come i furti, le rapine e le estorsioni che destano, nell’opinione pubblica, un elevato livello di allarme sociale. Il loro raggio d’azione è riferito ad alcune regioni del Nord Italia (Lombardia e Piemonte) e del centro (Emilia Romagna, Abruzzo).

lunedì 24 agosto 2009

Arrestato per droga il figlio del padrino Sandokan


I carabinieri di Riccione hanno arrestato per spaccio di droga uno dei sette figli maschi del boss della camorra di Casal di Principe Francesco Schiavone, noto come 'Sandokan'. Il giovane, Emanuele Libero Schiavone, 18 anni incensurato, è stato fermato in un hotel di Riccione dove era in vacanza insieme a un pregiudicato di 22 anni, Mario Affinito, anch'egli nativo di Casal di Principe; i due avevano in camera 40 grammi di hascisc divisi in sei stecche. Schiavone e Affinito sono finiti nella maglia dei controlli antidroga che i carabinieri hanno esteso in agosto su tutta la
riviera romagnola. Notato un sospetto giro di spaccio messo in piedi, secondo l'accusa, dai due - ma sarebbe coinvolta anche una terza persona - i militari si sono appostati e dopo un periodo di osservazione sono intervenuti, facendo scattare le manette.

sabato 22 agosto 2009

Le mafie straniere in Italia - la criminalità organizzata cinese


«Nel panorama complessivo degli insediamenti stranieri in Italia, la comunità cinese occupa una posizione di rilievo per le elevate capacità di inserimento nel contesto economico ed imprenditoriale. Forti delle loro tradizioni e della radicata tendenza all’emigrazione, i cittadini cinesi hanno infatti intrapreso percorsi produttivi e commerciali, spesso coronati da significativi successi, stabilendo consolidate reti internazionali di rapporti». Così gli 007 della Dia tratteggiano le caratteristiche della mafia «dagli occhi a mandorla» nel nostro Paese; una presenza invisibile eppure invasiva, insediatasi «in corrispondenza di alcune aree urbane ad alto indice imprenditoriale e di industrializzazione», dove i cittadini cinesi hanno sviluppato importanti attività produttive, estremamente competitive, «nei settori della ristorazione, dell’abbigliamento, dell’import-export di prodotti artigianali, dell’alberghiero e del turismo, facendo, tuttavia, ampio ricorso a connazionali clandestini, sfruttati come forza lavoro e obbligati a prestare la loro opera, in un regime di violazione delle norme fiscali e in materia di tutela del lavoro, in un elevato numero di aziende o ditte individuali». Il pericolo della mafia cinese, dunque, più che provenire dalle pistole sembra derivare dal potere dei soldi e dalle straordinarie ricchezze accumulate.
Sul fronte dei reati «predatori», la criminalità organizzata si caratterizza comunque per il ricorso ad attività illecite quali: la tratta di esseri umani e l’immigrazione clandestina, l’estorsione e la rapina ai commercianti, i sequestri di persona, la contraffazione e la vendita di marchi industriali. C’è una caratteristica particolare, però, che differenzia la mafia cinese da tutte le altre mafie straniere: esercita violenza esclusivamente nei confronti dei propri connazionali.
L’attività investigativa ha registrato una presenza particolarmente attiva di gruppi criminali cinesi in Emilia Romagna (vera e propria base logistica in Italia), Lombardia, Campania, Lazio, Veneto e Toscana.
E il traffico di droga? Al momento non è tra le voci più importanti del bilancio di questo tipo di malavita, anche se – avvertono gli inquirenti – «per quanto il narcotraffico non si sia ancora attestato come attività primaria dei sodalizi cinesi in Italia, le evidenze investigative costituiscono il segnale di una possibile minaccia futura, non potendosi escludere che il mercato delle droghe sintetiche possa costituire, in prospettiva, una nuova e lucrosa frontiera del variegato spettro di attività criminali».
Nel luglio 2008, nel corso di un’operazione chiamata «Grande muraglia», sono stati spezzati i legami che univano alcuni clan cinesi alla famiglia camorristica dei Giuliano di Forcella, a Napoli, per la commercializzazione di prodotti falsi, importati dalla Repubblica popolare cinese senza alcun tipo di controllo. Un «mercato illecito di grande spessore che costituisce un efficacissimo volano finanziario», capace di proiettare la criminalità organizzata cinese ai vertici della cupola mafiosa internazionale per le enormi disponibilità finanziarie.

giovedì 20 agosto 2009

Arrestato camorrista del clan D'Alessandro

NAPOLI - Vincenzo D’Alessandro, reggente dell’omonimo clan attivo a Castellammare di Stabia, è stato arrestato dagli agenti della squadra mobile di Napoli in collaborazione con la mobile di Cosenza e con il commissariato di Castellammare di Stabia. Il latitante trentatreenne era a Rende, in provincia di Cosenza, in villeggiatura.
Figlio di Michele D’Alessandro, boss defunto del clan, Vincenzo D'Alessandro ha precedenti di polizia per 416 bis e violazione della legge sugli stupefacenti. Il capoclan è destinatario di una misura di sicurezza per un anno in una casa lavoro. E’ stato sorpreso in compagnia di altre due persone, mentre trascorreva il periodo di vacanza in territorio calabrese, avendo da tempo fatto perdere le proprie tracce.

(da Il Corriere del Mezzogiorno on line)

Il patto tra nigeriani e scissionisti

Il patto di sangue e droga tra la mafia africana, insediata a Castelvolturno e lungo tutto il litorale domizio, e il famigerato cartello degli «scissionisti», che ormai monopolizza il traffico di stupefacenti in entrata e in uscita in Campania, aveva un «garante» davvero speciale: non uno spregiudicato assassino dalla pelle nera, né un temibile capo-camorra, tantomeno un anziano e carismatico padrino alla Marlon Brando. Il «garante» del patto era un bambino. Un bambino innocente, originario della Nigeria, adottato da una famiglia di narcos di Scampia, finita nel mirino dei carabinieri del comando provinciale di Napoli, che appena settantadue ore fa hanno portato in galera i capi di una «cellula» criminale specializzata nello smercio dell’eroina turca ed afghana.
Trattato come un figlio, come uno di casa: il bimbo, di circa sei anni, ha lasciato la famiglia originaria, che abita a Varcaturo, e si è trasferito nella zona dei Sette Palazzi, la piazza di spaccio che – raccontano le carte degli inquirenti – impiega fino a trenta uomini, tra spacciatori, custodi, contabili e vedette, per un volume d’affari quantificato in circa 40mila euro al giorno.
Non si tratta, evidentemente, di un’adozione violenta o dettata da contorte strategie malavitose, ma «della chiara dimostrazione che le alleanze commerciali, nel campo degli stupefacenti, tra i gruppi nigeriani e quelli partenopei si sono a tal punto consolidate da rendere possibile il trasferimento di un giovanissimo membro della comunità nigeriana in una famiglia napoletana», come suggerisce la lettura di un esperto investigatore.
Raccontano le vecchie inchieste sul clan Di Lauro che il primo trafficante a intuire le potenzialità del canale estero per l’acquisto dell’eroina fu Tonino Leonardi, il quale si serviva di un emissario della criminalità organizzata turca per entrare in contatto con i produttori di eroina ed hashish in Afghanistan e in Uzbekistan e trasportare in Italia tonnellate e tonnellate di droga.
Con il passare del tempo – e con gli arresti a ripetizione che hanno smembrato il network mafioso di Ciruzzo ’o milionario – sono scomparsi gli intermediari e i clan di Secondigliano sono entrati direttamente in affari con la mafia nigeriana, che è ben presto diventata titolare unica nel settore dell’eroina così come i colombiani in quello della cocaina.
(Pubblicato sul quotidiano "Il Roma", 5 giugno 2009)

mercoledì 19 agosto 2009

La criminalità organizzata in Abruzzo


Tutto inizia con la denuncia pubblica dell’allora direttore del Parco nazionale d’Abruzzo, Franco Tassi. Era il 17 novembre 1990: «Il rischio che interessi criminosi, legati alla camorra, tentino di nuovo l’assalto al Parco Nazionale d’Abruzzo, oggi più che mai possibile, è tutt’altro che ipotetico e va subito denunciato, senza mezzi termini, perché la magistratura e tutte le forze sane contribuiscano a scongiurarlo». Diciannove anni e 281 morti dopo, i clan napoletani tornano all’attacco, consapevoli che – in una terra sconquassata da un tremendo terremoto, così come accadde in Irpinia nel 1980 – le occasioni di «business» sono parecchie e ghiotte. D’altronde, le stesse informative delle forze dell’ordine e le indagini della magistratura riescono a offrire uno spaccato assolutamente realistico della capacità di penetrazione dei capitali mafiosi nel settore dell’edilizia abitativa e del relativo indotto: movimento terra, manodopera e cemento, solo per citare le attività gestite da aziende apparentemente legali, ma che operano – invece – come paravento di ricche e agguerrite organizzazioni mafiose. I clan storicamente più attivi su questo fronte sono i Casalesi (che si sospetta abbiano avuto un ruolo anche nella ricostruzione in Umbria), i Di Lauro, i Nuvoletta, i D’Alessandro e le famiglie dell’area Vesuviana (i Fabbrocino, i Veneruso e i Sarno, soprattutto). Tutti accomunati da una strategia di dissimulazione particolarmente difficile da scoprire dagli organi inquirenti: le ditte edili della camorra hanno il certificato antimafia, mantengono contabilità perfette e vincono le gare e gli appalti pubblici non con il ricorso alla violenza, ma seguendo il principio (legale) del massimo ribasso. Un meccanismo reso possibile dalle ingenti risorse finanziarie a loro disposizione.
Gli inquirenti hanno già accertato simili operazioni di «aggressione economica» in Toscana (con il clan Formicola di San Giovanni a Teduccio), in Emilia Romagna (con alcuni affiliati alla famiglia Zagaria) e in Veneto (con «picciotti» dell’Alleanza di Secondigliano), ma la mappa degli investimenti e degli interessi è certamente molto più estesa.
A rendere particolarmente critica la situazione del dopo-sisma, comunque, c’è la circostanza che negli ultimi anni – come testimoniato dalle risultanze investigative e dai numerosi arresti effettuati – sono state scoperte in Abruzzo «cellule» di clan campani particolarmente attive sul fronte del traffico di stupefacenti, che potrebbero aver agito come «testa di ponte» per il successivo radicamento sul territorio di strutture più complesse – attività imprenditoriali, commerciali e finanziarie di estrazione camorristica – in grado sfruttare ogni occasione utile (appalti, subappalti, gare) per infiltrarsi nel tessuto socio-economico regionale e impiantarsi stabilmente.
(Pubblicato sul quotidiano "Il Roma")

martedì 18 agosto 2009

Intervista al pm Antonio Ingroia


Che cosa succederebbe se Cosa nostra decidesse di allungare le mani sul ricchissimo porto di Napoli, estromettendo i clan locali, come suggeriscono i risultati di alcune indagini della magistratura siciliana?
«Ci troveremmo davanti a due possibili ipotesi: una guerra tra mafie, o la creazione di un sistema criminale federativo. In entrambi i casi, gli scenari sono assolutamente terribili».
Per Antonino Ingroia, pm di punta del pool antimafia di Palermo ed «erede» del giudice Paolo Borsellino, tutto dipende dall’esistenza, o meno, di accordi pregressi: «Se non c’è un patto alla base, la possibilità di uno scontro tra mafia e camorra è molto elevata, anche se l’esperienza porta a considerare una eventualità diversa: che le organizzazioni criminali giungano a un rapporto di gestione comune degli interessi finanziari su base nazionale, rendendo gli investimenti sempre meno localizzati e localizzabili. In pratica, creando un unico sistema mafioso».

Una super-cupola, dunque?

«Parlerei piuttosto di un sistema mafioso integrato tra camorra, Cosa nostra e ’Ndrangheta. È in corso un processo evolutivo delle mafie, che cercano di interagire per il raggiungimento di un obiettivo unico. Ciò che si ipotizzava potesse accadere all’indomani delle stragi di Capaci e di via D’Amelio non è più una fantasia, ma una realtà».
Dottor Ingroia, gli scenari di cooperazione tra clan napoletani e siciliani si rinforzeranno, allora?
«I rapporti, su cui si è indagato negli anni Novanta, esistono tuttora e non si sono mai interrotti. Non posso entrare nel dettaglio, ma abbiamo notizie certe di collaborazioni molto solide su specifici affari illeciti»
Quali?
«Soprattutto traffico di droga e armi. Siamo sicuri che si sia creato un processo di scambio tra camorra e mafia siciliana su questi due canali: Cosa nostra rifornisce di armi i gruppi di Napoli e Caserta e, in contemporanea, acquista da loro ingenti partite di stupefacenti. Al contrario di quanto accadeva nel passato, dunque, sono i clan campani a vendere la droga alla mafia e non più viceversa».
Qualche settimana fa, indiscrezioni di stampa parlavano di un carico di tritolo giunto ai Casalesi da un deposito segreto della mafia siciliana. È possibile?
«Abbiamo notizia dell’esistenza di questa “santabarbara”, perché, nella fase stragista di attacco allo Stato, Cosa nostra accumulò un incredibile quantitativo di armi ed esplosivo, che solo in parte negli anni è stato sequestrato e che, probabilmente, si trova ancora nascosto nel Palermitano. Avendo rinunciato nel frattempo alla strategia terroristica, la mafia potrebbe aver deciso di vendere questo materiale bellico ad altre organizzazioni. E non è un caso che proprio i Casalesi siano stati interessati all’acquisto dell’esplosivo, dal momento che, da quanto leggo, hanno alzato il livello di scontro».
Proprio come fecero i Corleonesi nel 1992…
«Sì, è un paragone che regge, perché anche i Casalesi fondano il loro potere sulla intimidazione e sul controllo militare del territorio, ma con una differenza sostanziale, però: i Corleonesi, prima di inaugurare la strategia stragista, attuarono un meccanismo di trasformazione dell’organizzazione interna, dandosi una struttura piramidale e verticistica. Modello che ancora manca alla camorra, che resta una organizzazione orizzontale e di natura federativa».
Il pericolo rappresentato dai Casalesi, intanto, ha suggerito al Governo di inviare l’Esercito in Campania. Lei che ne pensa?
«Nel 1992, in Sicilia, l’invio dei militari diede dei frutti importanti, ma fu accompagnato da sforzi legislativi e di impegno finanziario davvero notevoli. Al contrario, in Campania mi sembra che la questione sia limitata soltanto all’impiego degli uomini in divisa, in un numero peraltro inferiore all’esperienza siciliana».

lunedì 17 agosto 2009

Arrestato uomo del clan D'Alessandro

Ciro Vitale, 32 anni, residente a Castellammare di Stabia, affiliato al clan D'Alessandro, è stato arrestato dai carabinieri all'ingresso di un bar a Nocelleto di Carinola, in provincia di Caserta. Deve scontare 9 anni e 27 giorni di prigione per associazione di stampo camorristico e droga.
Era ricercato dal 2 luglio scorso.

venerdì 14 agosto 2009

Veleni sull'Arma dei carabinieri


La foto in alto servirebbe da sola a rispondere, con la potenza dell’immagine, alla follia estiva di Giorgio Bocca, che questa settimana su “L’Espresso” accosta mafia e Arma dei carabinieri in un articolo farneticante, che non fa onore alla sua storia e alla sua firma.
Che significato ha sporcare l’immagine della Fiamma che arde e illumina questa società in cui la penombra è il vestito preferito di chi delinque, di chi infanga, di chi insinua, di chi oltraggia, di chi uccide con il piombo o con le parole, di chi ruba, di chi razzia, di chi rapina, di chi truffa, di chi raggira, di chi violenta e di chi mistifica la realtà?
Che vergogna leggere del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e di Totò Riina nello stesso rigo, nella stessa pagina, come se il primo fosse ancora vivo a godersi la pensione in qualche sperduto angolo di paradiso e il secondo fosse ancora latitante, sulla tolda di comando di Cosa nostra; quando in realtà Dalla Chiesa è stato ammazzato su ordine proprio di Riina (condannato all’ergastolo per quest’omicidio in qualità di mandante), il quale ultimo – al momento della cattura – venne immortalato in una foto che ha fatto il giro del mondo; con gli occhi spaesati, vestito come un contadino, spalle contro il muro, proprio sotto l’immagine del Generale in alta uniforme.
Questi sono i carabinieri che conosciamo e che amiamo.
Come può un giornalista prestigioso come Bocca pensare di accostare il bianco e il nero, il pulito e lo sporco, il diavolo e l’acquasanta senza riflettere?
Come riesce a pensare che possano esistere accordi tra l’Arma dei carabinieri e la mafia che, in questi anni, ha ucciso decine di militari e per molti altri ha emanato sentenze di condanna a morte che penderanno, per sempre, sulle teste di valorosi e indomiti investigatori?
Come si può pensare che i reparti investigativi dell’Arma coesistano con forme di criminalità più o meno organizzata? I carabinieri che hanno arrestato killer e narcotrafficanti, boss e luogotenenti, smantellato organizzazioni assassine e portatrici di sventura e dolore, che vanno a braccetto con i mafiosi è una immagine indegna, che svilisce il sacrificio di tanti uomini e donne che vivono lontano da casa, costretti a operare con pochi mezzi, a infiltrarsi nei ranghi nemici per distruggere il cancro dall’interno, con sommo rischio della vita?
Accostare le dichiarazioni (tutte da verificare) di Ciancimino o di Riina alle lacrime delle vedove, delle mamme, delle fidanzate dei caduti dell’Arma non può non suscitare imbarazzo. Come si riesce a giustificare una colossale infamia?

"La donna del boss deve morire"


Una storia di offese mai dimenticate e di strategie criminali per il controllo della città ha portato, il 14 marzo 1992, a quello che la Procura antimafia definisce «uno dei più eclatanti fatti di sangue mai commessi dalla camorra napoletana»: l’agguato in cui persero la vita la moglie del boss Giuseppe Misso, Assunta Sarno, e il suo migliore amico, Alfonso Galeota, e rimasero gravemente feriti Giulio Pirozzi e la sua consorte, Rita Casolaro. A ordinare quell’attentato furono i vertici dell’«Alleanza di Secondigliano» per piegare il gruppo della Sanità e costringerlo all’ubbidienza.
I magistrati della Dda (coordinata da Franco Roberti) hanno ottenuto dal gip Giuseppe Ciampa l’arresto di Costantino Sarno, Vincenzo Licciardi e Giovanni Cesarano – tutti detenuti per altri reati – con l’accusa di essere stati ideatori ed esecutori della strage. Una mattanza che avvenne, nel traffico, sulla bretella autostradale Caserta Sud-Napoli, all’altezza dello svincolo Afragola-Acerra. I killer agirono con fucili da caccia e mitragliatori, scrivono i pm, «accanendosi contro le quattro persone e devastando i corpi della Sarno e di Galeota».
A puntellare la ricostruzione inquirente sono stati i verbali di numerosi collaboratori di giustizia, tra cui lo stesso Giuseppe Misso, a riscontro dei quali i carabinieri del nucleo investigativo del comando provinciale di Napoli hanno svolto lunghe e delicate indagini. L’inchiesta, però, è tutt’altro che conclusa, dal momento che il gip non ha accolto la richiesta di detenzione in carcere – per mancanza di gravi indizi – anche per Giuseppe e Francesco Mallardo, Maria Licciardi, Gaetano Bocchetti ed Edoardo Contini, nei cui confronti continuano le indagini. È certo che la Procura ricorrerà al Tribunale del riesame per ottenere le misure cautelari.
L’attentato si verificò al termine dell’udienza, celebratasi davanti alla Corte di assise di appello di Firenze, che portò alla sentenza per la strage del «Rapido 904», il treno dilaniato da una bomba piazzata – secondo l’accusa – da camorristi e mafiosi per sviare l’attenzione della magistratura dalla criminalità organizzata al terrorismo. Misso – detenuto ininterrottamente dall’aprile 1985, dopo una lunga latitanza in Brasile e una plastica facciale che ne aveva cambiato i connotati – era reduce da una condanna all’ergastolo in primo grado: fu quella l’ultima occasione che gli fu concessa per vedere vivi sua moglie e Galeota, titolare di un famoso negozio di abbigliamento in via Duomo.
Per la Procura, l’imboscata fu decisa dai secondiglianesi «per decapitare il gruppo Misso e annientarlo sul piano militare, così da permettere agli alleati (le famiglie Tolomelli, Vastarelli e Guida) di assumere pieno potere nel rione Sanità».
Anni dopo, il boss Giuseppe Misso scriverà nel suo libro, «I leoni di marmo», a proposito di quell’episodio: «Si è voluto ammazzare deliberatamente una donna innocente e inerme soltanto per pubblicizzare un nuovo “modello” di potenza infame e per lanciare un monito triste e crudele, del tipo: “Ieri abbiamo ucciso i bambini. Oggi anche le donne”». Sedici anni dopo se n’è scoperto il motivo.
LA STRAGE DEL RAPIDO 904 - Il treno «Rapido 904», diretto da Napoli a Milano, salta in aria la sera del 23 dicembre 1984 a San Benedetto Val di Sambro: le vittime sono 16 e i feriti 266. Le indagini, condotte dai pm Pier Luigi Vigna e Gabriele Chelazzi, ipotizzano la saldatura degli interessi di Cosa nostra siciliana e camorra napoletana nell’allontanare l’attenzione degli investigatori dai grandi affari della criminalità organizzata per orientarla verso il terrorismo, allora particolarmente attivo nella destabilizzazione dell’opinione pubblica (solo poco tempo prima si erano verificati gli attentati alla stazione di Bologna e al treno «Italicus») e delle istituzioni democratiche.
In primo grado, il 25 febbraio 1989, la Corte d’assise di Firenze condanna tutti gli imputati – tra cui Giuseppe Misso, Giulio Pirozzi, Alfonso Galeota e Pippo Calò, il famigerato cassiere della mafia, arrestato in provincia di Roma qualche mese prima – alla massima pena. Il 14 marzo 1992 i giudici di secondo grado riformano la sentenza, assolvendo il gruppo dei napoletani e condannando il solo Misso per armi. È il crollo del teorema dell’accusa: non esistono «eversori» ma solo criminali nelle fila dell’allora nascente clan capeggiato da Giuseppe Misso.
NESSUN GESTO DI SOTTOMISSIONE - L’attentato sull’autostrada poteva essere evitato. A una condizione che Giuseppe Misso rifiutò, sdegnato, di accettare. È il retroscena dell’inchiesta della Procura antimafia di Napoli sul duplice omicidio del 14 marzo 1992: i vertici dell’«Alleanza di Secondigliano» chiesero al boss della Sanità un gesto di sottomissione per impedire la carneficina e, non avendolo ottenuto, decisero per la rappresaglia.
Scrivono i pm: «Tale decisione non era irrevocabile e poteva essere anche ripensata se Misso, in carcere ad Ascoli Piceno, avesse accolto l’invito di Angelo “Enzuccio” Moccia, esponente dell’Alleanza, a mandare i propri saluti a Gennaro Licciardi, ovvero avesse, con tale gesto, accolto l’invito ad aderire al cartello secondiglianese. Misso in carcere rifiutò e questo diniego indusse la cupola secondiglianese ad abbandonare ogni esitazione a passare all’azione».
La scelta di ammazzare a sangue freddo la compagna di Misso – secondo la ricostruzione dei magistrati partenopei – sarebbe derivata anche dall’insulto che la donna avrebbe indirizzato a Maria Licciardi, sorella dei padrini di Secondigliano. Assunta Sarno, infatti, le aveva detto che, qualora fosse stato scarcerato Giuseppe Misso, Gennaro Licciardi ’a scigna avrebbe dovuto pulirgli le scarpe. Un oltraggio imperdonabile nel mondo della malavita, che sarebbe stato all’origine della sanguinosa azione di fuoco. Eppure, prima di agire, i sicari dell’«Alleanza di Secondigliano» si premurano di eliminare l’uomo che, per coraggio e preparazione militare, avrebbe potuto organizzare una possibile reazione armata. Dieci giorni prima dell’imboscata sull’autostrada, infatti, i killer ammazzarono Vito Lo Monaco, originario di Palermo e perciò soprannominato «’o siciliano», fedelissimo del boss Giuseppe Misso. Lo trucidarono poco prima di mezzanotte all’altezza dell’uscita della Tangenziale, a Capodimonte: in quell’occasione fu ferito in modo grave anche il «guardaspalle» della vittima, Salvatore Giacobelli. All’identificazione di Lo Monaco – considerato uno degli assassini più spregiudicati e temuti della camorra napoletana – gli inquirenti arrivarono grazie alle impronte digitali: indosso, l’uomo, aveva un documento falso, intestato a Sergio Zarnia.
(Pubblicato sul quotidiano "Il Roma")

lunedì 10 agosto 2009

Il cellulare diventa una spia. Grazie a un sms

Lo scandalo dei programmi di spionaggio telefonico tramite sms arriva sul tavolo del Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica che controlla l’attività dei servizi segreti militari e civili italiani.
Nella relazione annuale inviata qualche giorno fa alle Camere, è stato dedicato all’argomento un intero capitolo, nel quale si analizzano i rischi connessi alla possibilità «di effettuare vere e proprie intercettazioni sulle reti commerciali della telefonia mobile, attraverso un sistema di interferenze legato ai sistemi operativi che sono a disposizione delle diverse compagnie produttrici per la commercializzazione dei telefoni cellulari».
Il meccanismo per poter effettuare intercettazioni abusive è molto semplice e anche pericolosamente accessibile al pubblico: si acquista, in un qualsiasi negozio di telefonia, o tramite appositi siti Internet, uno spy software («Esistono in commercio programmi diversi i cui costi variano in base alle funzionalità offerte: si va dai più semplici che trasmettono via sms un avviso di cambio della sim e possono essere utili in caso di furto del cellulare, a quelli che permettono di avere il completo controllo del cellulare bersaglio, consentendo anche l’ascolto in diretta e la registrazione delle telefonate, nonché l’utilizzo dello stesso cellulare come microfono e telecamera ambientale anche a cellulare spento») e lo si installa sul cellulare da controllare, direttamente o a distanza. In quest’ultimo caso – il più frequente – lo spy software viene inviato tramite mms o bluetooth, «presentandolo come un gioco, una foto o un brano audio o anche come un aggiornamento software del cellulare stesso, di cui deve comunque essere accettata e avviata manualmente l’installazione».
La consapevolezza (o meno) da parte del proprietario del cellulare bersaglio di essere a conoscenza del contenuto del messaggio ricevuto e del mittente è fondamentale per la buona riuscita dell’attività di spionaggio. Non sono stati, infatti, trovati in commercio software-spia in grado di installarsi manualmente; dunque, la prevenzione – anche in questo caso – è fondamentale per annullare del tutto, o quasi, il rischio di essere spiati dal proprio cellulare.
A questo punto, il controllo è distanza è cosa fatta, grazie all’invio di sms che contengono i codici di richiesta informazioni («rubrica telefonica, lista delle telefonate, copia degli sms, posizione del dispositivo… ascolto delle telefonate in diretta, accensione del microfono e della telecamera») e lo spionaggio può avere inizio.
Soltanto in alcuni casi è stata accertata la possibilità – attraverso un file manager esterno – di rintracciare nella memoria del cellulare i files di installazione del programma-spia; il più delle volte, scrivono i relatori del Copasir «questo rimane generalmente invisibile a una normale ricerca dei programmi installati».
Sui software-spia stanno indagando la magistratura, il ministero dell’Interno e l’Autorità garante per la privacy.

(pubblicato su Terra)