mercoledì 11 agosto 2010

Vita violenta del boss Paolo Di Lauro


Il primo capitolo tratto dal mio libro "L'impero della camorra - Vita violenta del boss Paolo Di Lauro", in uscita in autunno in versione economica per i tipi della Newton Compton

«Aniello, scendi, c’ho quella roba per te».
«Va bene, aspettami vicino al cancello. Ma è sicuro che è roba buona?».
«Gioielli, oro, brillanti… è un affare. Muoviti, sto qua sotto…».

Tutto inizia così. Con uno squillo al citofono e una sventagliata di mitra. Aniello La Monica ha poco più di quarant’anni quando viene ammazzato all’uscita di casa. È il boss di Secondigliano, fa parte della Nuova famiglia, il cartello che si oppone all’“esercito” di Raffaele Cutolo. Ma non è il padrino di Ottaviano, che pure ne avrebbe tutti i motivi, a spedirlo al camposanto. La Monica è la prima vittima di un nuovo gruppo criminale che ha lanciato la scalata ai vertici della camorra. Viene assassinato da quelli che considerava i suoi figli, tradito da quelli di cui più si fidava, perché anche un camorrista si deve fidare di qualcuno. E La Monica si era fidato delle persone sbagliate.

«Dottore, se non ricordo male, La Monica venne prima investito e poi ucciso con pistole e kalashnikov. Mi raccontarono che dopo avergli dato la prima botta, uscirono tutti e quattro dalla macchina e iniziarono a sparare mentre ancora stava barcollando. Non gli diedero il tempo nemmeno di cadere a terra…». A distanza di vent’anni, un pentito sta raccontando che cosa avvenne quel giorno a Secondigliano, in una filiera di ricordi che lo avrebbero portato a ricostruire, in una stanza insonorizzata all’ottavo piano della Procura della Repubblica di Napoli, le fortune e i misteri del padrino più enigmatico della malavita partenopea: Paolo Di Lauro.
«Ma chi lo uccise e perché?», gli domandò il magistrato, sedendogli affianco e porgendogli un foglio e una penna per fermare sulla carta le immagini che la memoria non sarebbe riuscita, dopo così tanto tempo, a far affiorare.
«Dottore, statemi a sentire, che la storia è lunga. Chiamate il brigadiere e ditegli di portarmi un bel caffé, che dobbiamo parlare parecchio. Oggi e domani e pure dopodomani. Mettete una cassetta nuova nel registratore e ascoltate quello che vi dico, perché non so se avrò la possibilità di ripeterlo».
Il magistrato si alzò e si diresse verso la porta. Lanciò uno sguardo lungo il corridoio su cui si affacciavano gli uffici della Direzione distrettuale antimafia e si assicurò che la porta fosse ben chiusa. Poi si sedette di nuovo. Chiamò a verbalizzare un agente di polizia di cui si fidava. Questi inserì il foglio nella macchina da scrivere elettronica e – con i due indici – iniziò a battere freneticamente, sotto dettatura, la formula iniziale del verbale di collaborazione: “Immediatamente dopo la mia cattura, a seguito del provvedimento emesso da codesto Ufficio, avuta contezza del livello elevato delle conoscenze al quale erano giunti gli organismi investigativi, ho trovato la necessaria determinazione per rompere in maniera definitiva con l’ambiente criminale nel quale sono vissuto fin dai primi anni Ottanta”.
Inizia il racconto.
***
«Ha visto che dice il giornale oggi?», domandò l’ispettore capo del commissariato di Secondigliano al suo dirigente, appoggiandogli la copia del Mattino sulla scrivania piena di carte e pacchetti di sigarette semivuoti. Erano i giorni della paura a Napoli, i giorni della furia omicida delle batterie di fuoco della Nco e delle condanne del tribunale del popolo delle Brigate rosse contro giudici e politici.
«L’ho letto stamattina, tre giorni di lutto nel quartiere per la morte del padrino che odiava la droga. Bella figura che ci facciamo. A proposito, le indagini a che punto stanno? La Procura ha fatto sapere qualcosa?»
«Dicono che è un regolamento di conti interno, ma su La Monica procede la squadra mobile. Tutto come al solito, nessuno ha visto. Nessuno si è accorto di niente. Teniamo gli occhi aperti, perché qua ho l’impressione che succede la terza guerra mondiale».
Erano da poco passate le settimane convulse del sequestro dell’assessore regionale Ciro Cirillo, cassiere democristiano dei fondi del dopo-terremoto, rilasciato grazie alla mediazione di Cutolo e al pagamento di un ricco riscatto ai terroristi, e il clima era peggiorato, se possibile, con la pubblicazione sull’Unità del falso documento del ministero dell’Interno che riportava i termini della trattativa tra Stato e camorra per la liberazione del politico dc. Documento falso nella forma, ma verissimo nella sostanza.
«Adesso ti compri pure i giornali comunisti? Ma tu non votavi a destra…», scherzò l’ispettore quando il collega tirò fuori da un cassetto dell’armadietto la copia del quotidiano.
«Tu devi sapere che i comunisti le notizie le sanno in anticipo e poi hanno agganci dovunque…», rispose l’altro sorridendo. In quel momento, entrò nella stanza un poliziotto con il mattinale, l’elenco delle denunce raccolte nel week-end precedente. Era un lunedì mattina. Un paio di paginette dattiloscritte, piene zeppe di furti, rapine, scippi, aggressioni. Finanche un tentato omicidio: un uomo aveva tentato di stuprare la vicina a colpi di spranga.
A Secondigliano e Scampia gli echi dei grandi fatti di cronaca arrivavano attutiti, come se i due rioni non avessero titoli per partecipare a ciò che di importante avveniva in città. In effetti, a quel tempo la grande criminalità organizzata considerava i quartieri della cinta extraurbana partenopea un po’ come un vivaio di giovani delinquenti al quale attingere in caso di necessità per i lavori sporchi. I secondiglianesi non avevano pedigree criminale, erano un po’ come i corleonesi di Totò Riina e Bernardo Provenzano, “viddani”, gente di campagna. Spietata, ma con il cervello di una gallina.
«Che cosa abbiamo oggi?», riprese a parlare l’ispettore, prendendo la copia del mattinale dalla scrivania.
«Guarda tu stesso, è una carneficina. A proposito, domani andiamo a fare qualche domanda in giro per il fatto di La Monica, cerchiamo di capire», tagliò corto il dirigente, mettendo di nuovo a posto la copia dell’Unità.

In quelle stesse ore, in via Cupa dell’Arco, a poche centinaia di metri in linea d’aria dal presidio di polizia, era stata convocata una riunione. Uno degli invitati, Domenico Silvestri, detto “Mimì ’a svergognata”, fece per prendere posto a capotavola, quando una mano gli avvinghiò il braccio e glielo strinse. Era Raffaele Prestieri, che gli ricordava che quel posto era occupato.
«Ti devi sedere tu?», rispose sorpreso Silvestri.
«No, ma è meglio che ti metti qua, affianco a me. Là no», disse Prestieri spostandogli la sedia sul lato lungo del tavolo.
La porta di ingresso del salone si aprì lentamente. Il padrone di casa entrò e si sedette al posto d’onore. Accese una sigaretta e chiamò la cameriera, che subito dopo gli portò una bottiglia di champagne Veuve Cliquot e una manciata di bicchieri di cristallo. Al piano di sotto, nella villetta, c’era una bella cantina con tanti vini e liquori raffinati, alcuni dei quali fatti arrivare direttamente da Parigi. La pressione delle bollicine spinse fuori il tappo di sughero che finì contro le tende e rimbalzò a terra, fin sotto il tavolo.
«Pace all’anima di Aniello La Monica. Speriamo che da lassù ci assista e ci aiuti», dissero in coro. Poi tutti brindarono guardandosi negli occhi.

***

Il solito giro di perlustrazione, i soliti controlli. Via Bakù, i Sette Palazzi, la villa comunale: la volante del commissariato quella sera avanzava con la seconda marcia innestata e il lampeggiante che proiettava un fascio di luce azzurra sulle aiuole e sulle saracinesche dei negozi chiusi.
«Guarda quel ragazzo là, sta correndo. Ha buttato un sacchetto di plastica sotto la macchina. Raccoglilo e poi inseguilo», urlò all’improvviso il capo-turno al poliziotto alla guida, che accese la sirena e inserì la terza.
Ormai di scene simili ce n’erano a decine ogni giorno, in ogni angolo del rione; Secondigliano e Scampia, se non conosci le strade, sono peggiori dei labirinti. Incroci, scorciatoie, passaggi nascosti da un vicoletto all’altro e poi paletti installati dovunque, come a voler disegnare una mappa nota soltanto a pochi, agilissimi corridori.
L’inseguimento era durato non più di una manciata di secondi, perché il giovane, convinto di trovarla aperta, era andato a sbattere contro una porta di ferro che chiudeva l’entrata secondaria di un condominio. La sua corsa era terminata lì, con una spalla indolenzita e un paio di manette ai polsi.
La volante era tornata in commissariato con il nuovo “ospite” a bordo a fine turno.
«Come ti chiami?», gli chiese l’ispettore, mettendosi a sedere alla scrivania nel suo ufficio, dove la relazione di servizio aspettava soltanto la sua firma.
«Che vi interessa? Chiamatemi l’avvocato, che con voi non parlo più. Qua sta il numero», rispose spavaldo il ragazzo. Aveva circa venticinque anni. Corporatura slanciata, con il giubbotto imbottito, su una polo verde con il coccodrillo, e il jeans stracciato. In tasca gli avevano trovato cinque dosi di eroina confezionate con la carta stagnola e duecentomila lire in banconote di piccolo taglio. Era il terzo arresto della giornata. Uguale al secondo e al primo.
Gli agenti chiamarono il legale indicato dal giovane, il quale spedì negli uffici della polizia un collaboratore a sbrigare le formalità della nomina. Il ragazzo si rimise in tasca il pezzo di carta stropicciato su cui qualcuno gli aveva scritto il numero di telefono del penalista e si avviò, sotto scorta, a Poggioreale. Ridendo.
«Hai notato che chiamano tutti gli stessi avvocati?», domandò il dirigente del commissariato all’uomo che aveva arrestato lo spacciatore.
«Sì e che significa, secondo te?», gli rispose l’agente, rovistando nella busta che aveva recuperato sotto l’auto. All’interno c’erano altri soldi, circa cinquantamila lire, un paio di accendini e delle cannucce, di quelle utilizzate per le bibite in lattina. Bisognava aggiornare la relazione di servizio.
«Significa che stiamo davanti a qualcosa, o a qualcuno molto più grande di quanto immaginiamo. Teniamo gli occhi aperti», chiuse la discussione il dirigente.
Tra il 1982 e il 1984 avviene la trasformazione che segnerà per sempre il destino di Secondigliano e di Scampia: i terremotati, centinaia di famiglie che avevano perso il tetto a causa del sisma, vengono stipate nelle Vele, gli alveari-dormitorio progettati dall’architetto Franz Di Salvo con l’intento di favorire l’integrazione tra i nuclei familiari ma che diventeranno, invece, l’incubatrice di un’illegalità feroce e assassina. Il sogno utopistico di un quartiere modello, a misura d’uomo, con grandi parchi e spazi verdi a dividere le aree abitate, rappresentò in realtà la conformazione urbanistica perfetta per il crimine organizzato.
Subito dopo l’uccisione di La Monica, il sismografo dell’ordine pubblico a Secondigliano aveva subito un’impennata: erano aumentati scippi, rapine e casi di estorsione ai negozianti. L’ufficio denunce del commissariato, che prima era frequentato poco, molto poco dai residenti, era diventato d’un tratto affollatissimo e dalla questura di via Medina avevano dovuto inviare uno dei primi modelli di macchina da scrivere elettronica per velocizzare il lavoro.
Si stava sviluppando la più grande trasformazione economico-criminale della storia della camorra; il contrabbando di sigarette – fonte inesauribile di ricchezza per migliaia di manovali dell’illegalità – era sul punto di cedere il passo al traffico internazionale di stupefacenti. Accanto alle bancarelle con le stecche di Marlboro e di Merit in bella mostra, poco più in là, a poche decine di metri, iniziavano a comparire i primi spacciatori, pronti a rifornire di eroina e marijuana i giovani in cerca di emozioni forti. E con loro apparvero pure le vedette e i guardiani.
La faida tra Raffaele Cutolo e la Nuova famiglia aveva portato alla distruzione di un modello criminale feudale, incapace di proiettarsi nell’economia nazionale e internazionale, confinato ancora negli angusti steccati del racket e del traffico di armi. Un modello al quale sarebbe presto subentrato una organizzazione nuova nella struttura e nelle finalità, fluida, pronta a insinuarsi lungo le feritoie del tessuto socio-economico legale per distorcerne le dinamiche e per indirizzarne i meccanismi.
Allora però nessuno se ne accorgeva, perché quello era il periodo della guerra e non degli affari. Bisognava soltanto eliminare il nemico, infliggergli più male possibile. Non soltanto impedirgli di riprendere le armi, ma annientarlo.
«Ma quelli erano altri tempi, dottore. Ogni giorno un cutoliano ammazzava uno dei nostri e noi rispondevamo con due dei loro. Aniello La Monica, non so perché, ma ce l’aveva a morte con i cutoliani. Se avesse potuto buttare una bomba atomica su Ottaviano, l’avrebbe fatto. Ogni mattina, ci incontrava davanti al bar e ci diceva: “Ragazzi, ricordatevi di colpire i nemici ovunque vi troviate. Non gli dobbiamo dare il tempo di respirare”. Addirittura aveva intitolato un negozio di abbigliamento, vicino casa sua, con il nome della sua pistola preferita: Pyton. La Monica era proprio come un serpente. Un pitone, appunto. Faceva paura solamente a guardarlo». Il pentito non aveva smesso un attimo di ripercorrere con la mente i suoi trascorsi criminali, gli inizi del clan; di tratteggiare la figura delle persone con cui era cresciuto e con cui aveva conosciuto la galera.
Il magistrato ascoltava in silenzio e ogni tanto annotava una data, un nome sull’agendina Moleskine che custodiva nella tasca interna della giacca. «Ma come campava La Monica? Quali erano le sue fonti di reddito, anche lui gestiva il traffico di droga?», chiese al collaboratore, interrompendolo giusto il tempo per cambiare lato alla cassetta.
«Campava come tutti, a quel tempo. Faceva il contrabbando di sigarette con Michele Zaza, di cui era fraterno amico, e con Fiore D’Avino, uno di Nola mi sembra. Non era una cattiva persona, era un padrino vecchia maniera: non ha mai mandato indietro nessuno che volesse lavorare per lui. Poco prima di morire, pagava lo stipendio a ottanta famiglie, compresa la mia. Fu lui a inventare la vendita porta a porta delle lenzuola per i corredi nuziali, affidandola alla rete di magliari che partiva da Secondigliano e arrivava fino in Germania e in Francia. Con questo sistema, faceva un sacco di soldi puliti. Ma pure quell’idea gli hanno rubato, oltre al comando. La droga non la voleva nel suo territorio, anche se era consapevole che per quella polverina bianca ci avrebbe rimesso la pelle, prima o poi. E su questo punto, molto spesso si scontrava con gli altri del gruppo di Paolo Di Lauro».
Il contatore riprese a girare e il pentito dovette fare uno sforzo di memoria per riprendere il filo del discorso dove l’aveva lasciato prima dell’interruzione. Ma prima di continuare a parlare delle origini del clan Di Lauro e della malavita a Secondigliano negli anni Ottanta, pensò bene di arricchire le sue confessioni con un episodio che conoscevano in pochi.
«Ora vi racconto una cosa, dottore», proseguì, dopo aver bevuto tutto d’un sorso il caffè che gli avevano portato. Guardò negli occhi il magistrato e sorrise di un sorriso amaro. «Però dovete credermi sulla parola, perché alcune cose che vi dico non le posso provare».
«Dimmi, ti ascolto», ribatté il magistrato, approfittandone per segnare un altro paio di righe di appunti sull’agendina.
«Lo sapete che un giorno Di Lauro disse vicino a uno dei Giuliano, mi sembra Guglielmo, se voleva giocare a poker?».
«E qual è il problema, che c’è di strano?»
«Il piatto di apertura lo sapete di quant’era?». E si mise ad attendere la risposta che, sapeva, non avrebbe mai potuto essere quella giusta.
«No», rispose incuriosito il pm.
«Due miliardi di lire. In contanti». E stette con l’aria soddisfatta ad attendere il ghigno di incredulità sul volto del suo interlocutore, come ben si aspetta chi fa partecipe un altro di una confidenza che, altrimenti, gli sarebbe stata sempre negata.
«Queste cose non mi servono per il processo», tagliò corto il magistrato, «e poi nel mondo della malavita molto spesso si esagera nei racconti e un granello di sabbia diventa una slavina. Continuiamo con l’interrogatorio».
«Due miliardi in contanti», ripeté il pentito, come se il richiamo del magistrato non ci fosse mai stato, «due miliardi contenuti in una borsa di tela rossa. La posò sul tavolo e disse a Giuliano: “Se proprio vuoi giocare, fatti una partita con me…”. Comunque, ho capito che queste cose non vi interessano, ma per me sono importanti. Dove eravamo rimasti? Ah, sì…»

Erano passate già un bel po’ di settimane dall’omicidio di La Monica, quando a Secondigliano arrivò un messaggio da Poggio Vallesana, la tenuta terriera dei Nuvoletta, una delle famiglie malavitose più potenti della Campania, soci in affari con i mafiosi palermitani.
«Paolo, i maranesi ci hanno chiesto se possiamo andare a trovarli», disse Mimì Silvestri con un pizzico di soddisfazione, perché era il segnale che il giro grosso stava iniziando a interessarsi di loro. «Ci devono parlare di una cosa importante, importante assai…».
«Va bene, organizza un’auto e ci andiamo», gli rispose Di Lauro, accendendosi l’ennesima sigaretta, sprofondato sul divano di casa.
«Come la vogliamo organizzare, chi chiamiamo?»
«Non voglio nessuno armato, sia chiaro. Andiamo io, tu, Rosario, Raffaele ed Enricuccio. E una macchina di appoggio».
«Va bene». Silvestri uscì dalla stanza al piano terra della villa in via Cupa dell’Arco e iniziò a contattare gli altri. Ci mise poco, perché li trovo all’incrocio con corso Secondigliano a parlottare. Erano tutti amici di infanzia di Di Lauro; erano cresciuti con lui e con lui si erano sbarazzati dell’ingombrante presenza di La Monica.
Appena seppero della convocazione, risalirono in auto e si diressero a casa del boss. Dal cancello sbucarono poco dopo una Lancia Delta integrale e una Mercedes, dove sedeva – sul lato posteriore destro – il padrino. L’altra macchina stava davanti a fare strada. Da Secondigliano a Marano saranno stati, sì e no, dieci minuti di viaggio, ma sembrava di non arrivare mai. L’emozione tradiva anche quelli più freddi, perché loro erano una piccola formazione, senza santi in paradiso, con tanta buona volontà e poca esperienza nel settore degli stupefacenti. Avevano iniziato a guadagnare qualcosina con una paranza di una decina di spacciatori, ai quali affidavano dosi di eroina e hashish a cadenza settimanale. Un giro di affari rionale, niente di più. La droga la compravano attraverso i trafficanti del rione Traiano e di Ercolano – le due piazze di spaccio più importanti di Napoli – e la rivendevano a prezzo maggiorato nelle stradine del quartiere, lucrando una piccola percentuale.
Le due auto con a bordo Di Lauro e gli altri imboccarono una stradina sterrata, che si apriva sulla destra della via principale. Percorsero quasi cinquecento metri prima di arrivare a un grande cancello, dove – ad attenderli – c’erano le sentinelle del boss.
«L’avete risolto quel problema, eh?», disse il capo-decina di Marano, andando incontro agli ospiti. Il “problema” a cui si riferiva era Aniello La Monica. «Sì, per fortuna», rispose sbrigativamente uno di loro. Parcheggiarono le vetture poco distante l’ingresso e si incamminarono.
«Don Lorenzo, abbiamo fatto il prima possibile», annunciò Raffaele Abbinante, baciandogli le due guance appena entrato nella villa del boss. Abbinante era nato a Marano ed aveva iniziato a lavorare nel crimine proprio con la famiglia Nuvoletta, con i quali – nel tempo – aveva mantenuto stretti rapporti.
«Dobbiamo parlare di cose importanti, seguitemi», rispose il vecchio padrino, attraversando un corridoio su cui campeggiavano quadri dell’Ottocento napoletano. Uno in particolare attrasse l’attenzione di Paolo Di Lauro, che sostò a guardarlo. «Anche a me piacciono i quadri», aggiunse, riprendendo il passo.
La delegazione del clan di Secondigliano e don Lorenzo Nuvoletta uscirono dal retro dell’abitazione, circondata dalle campagne, e si addentrarono su per un viottolo che portava a una masseria. Lì si accomodarono, attorno a un tavolo, per discutere. In passato doveva essere stata una stalla, perché c’erano ancora gli abbeveratoi.
«Il contrabbando di sigarette è il passato», disse l’anziano mafioso. «Quel mondo non è più il nostro. Ci dobbiamo aggiornare. Ma in grande stile. E io so come».
Paolo Di Lauro osservava in silenzio ogni parola scandita da quella bocca rigata dai segni del tempo. Ascoltava e rifletteva, perché il vecchio boss stava per rivelargli la chiave per diventare i nuovi padroni della città. Mangiarono un po’ di pane cotto a legna e del formaggio, conservati in una dispensa poco distante. Un pasto mafioso, come quelli che si consumavano in qualche sperduto podere nel cuore della Sicilia, a Corleone o a Bagheria.
«E questo è l’accordo, però io pretendo una sola cosa», disse il capo dei maranesi, guardando diritto in faccia ognuno dei suoi interlocutori.
«Sulla nostra lealtà possiamo giurare con il sangue», rispose Di Lauro. Gli altri stettero in silenzio. E annuirono. «Don Lorenzo, quello che ci dite di fare, faremo».
«Questo volevo sentirvi dire. Ci vediamo la settimana prossima, vi faccio arrivare io l’“ambasciata” e ci organizziamo». La seduta fu tolta all’istante. Il gruppetto uscì dalla masseria e si avviò lungo la strada che tagliava a metà la proprietà terriera dei Nuvoletta, mentre le vedette del clan – nascoste chissà dove, tra i cespugli o affianco alle rocce – si lanciavano fischi l’un l’altra per segnalare il passaggio del padrino. Di Lauro e Nuvoletta si salutarono con il bacio sulle due guance. Il vecchio padrino gli batté una mano sulla spalla e gli ricordò il prossimo appuntamento.
«Quello è uno che farà strada», si lasciò andare don Lorenzo con il suo “consigliori”, appena gli ospiti furono andati via. «E’ intelligente, ha ascoltato ciò che dicevo senza battere ciglio. È serio, mi piace».
In auto, tutti parlavano e discutevano di ciò che avevano appena ascoltato. Solo Di Lauro non aprì parola per tutto il tragitto di ritorno, quando – giunto sotto casa – invitò gli altri a salire.
Davanti al tavolo dove avevano brindato alla memoria di Aniello La Monica, li guardò negli occhi e li fece promettere che nessuno al mondo avrebbe rotto il patto che stavano per fare.
«D’ora in poi siamo una sola famiglia. Da oggi, siamo fratelli. Il sangue di uno è il sangue di tutti». Gli altri ripeterono la formula.

«I Nuvoletta non sono camorristi, non so se mi spiego. Dottore, è una cosa diversa. Marano è come Corleone, come Palermo. È la Sicilia a Napoli. Con quelli non si scherza, sono pericolosissimi. Mi ricordo, addirittura, che tentarono di uccidere il comandante della Stazione di Marano, che rimase ferito, perché stava iniziando a dare troppo fastidio con le sue domande in giro. Ma questo non è niente, sapete che ci stanno i poligoni di tiro nascosti tra le montagne per far allenare i killer? A Marano, tanto tempo fa, venne pure quello che uccise il dottore Falcone, come si chiama, Brusca…». Il pentito riprese il filo dei ricordi, cercando di inserire quante più informazioni possibile in quel verbale.
«Giovanni Brusca, il capo dell’ala militare dei corleonesi…», aggiunse il magistrato, che ben conosceva i brutali metodi di occultamento dei cadaveri praticati dalla cosca di Poggio Vallesana e che, per un certo periodo, tempo addietro, aveva pure indagato sui Nuvoletta. Poi aveva dovuto abbandonare, perché la sua inchiesta era stata accorpata a quella sull’uccisione del giornalista del “Mattino”, Giancarlo Siani. Ricordava ogni dettaglio dell’indagine sull’omicidio del giovane cronista, ogni verbale di interrogatorio, ogni passaggio di quella intricatissima vicenda, che sembrava non finire mai tanti erano i tasselli da dover sistemare. In particolare, gli era rimasta impressa la frase di apertura della requisitoria del pm Armando D’Alterio nel processo di primo grado, che recitava: «Poggio Vallesana è il regno del male, pregno degli umori dei cadaveri dissolti nell’acido». Un attacco sbalorditivo e carico di un simbolismo, che ora gli ritornava in mente a sentir parlare di Lorenzo Nuvoletta e dei suoi affiliati.
«Esatto», riprese il collaboratore di giustizia, «Brusca venne chiamato dalla Sicilia perché doveva insegnare ai maranesi come si sciolgono i cadaveri nell’acido solforico. Se vi recuperate il giornale, lo potete pure leggere. Oppure, telefonate a qualche vostro collega di Palermo. Là pure sanno tutto di don Lorenzo e della famiglia».
Il gruppo di Poggio Vallesana, infatti, è stato al centro delle inchieste di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino per i suoi contatti con Totò Riina, Michele Greco e Leoluca Bagarella: in pratica, dicono le indagini, Lorenzo Nuvoletta era l’unico non siciliano a sedere nella commissione regionale di Cosa nostra, al pari di boss del calibro di Stefano Bontade, Luciano Liggio, Gaetano Badalamenti e Salvatore Inzerillo. I maranesi trafficavano in sigarette di contrabbando con Cosa nostra, sul finire degli anni Settanta, ma non solo: la loro grande intelligenza criminale è stata la capacità di riciclare il denaro sporco, investendolo in società “pulite” per immettersi nel mercato legale, soprattutto nel campo dell’edilizia abitativa e del commercio all’ingrosso. Il loro impero economico è cresciuto a dismisura negli anni, fino a rappresentare una seria minaccia per Cutolo prima e per Bardellino e Alfieri poi, con i quali hanno ingaggiato sanguinose battaglie.
«Perché, dottore, vi dovete mettere in testa una cosa. Il clan di Marano era organizzato come una cosca mafiosa. Avete mai visto il Padrino, il film? Ve lo ricordate quello che stava sempre al fianco di Marlon Brando, l’avvocato? Ecco, quello era il “consigliori”. In America era laureato, faceva l’avvocato ed era una persona istruita. A Marano, forse, il “consigliori” la laurea non ce l’aveva, ma contava parecchio lo stesso. I Nuvoletta erano temuti perché si comportavano da mafiosi, oltre ad avere amicizie tra i mafiosi. Ma voi ve l’immaginate una mezza chiavica di camorrista che si fa a cocaina e che tiene il consigliori? Non è credibile, perché gli manca la stoffa. A Poggio Vallesana, invece, c’era grande rispetto per il ruolo, proprio come a Palermo, a Catania, a Trapani. E il capo-decina dei Nuvoletta fungeva pure da “consigliori”». Ormai il pentito non aveva più bisogno di segnare su carta le parti importanti dei suoi ricordi, quelle su cui sarebbe dovuto tornare per aggiungere qualche particolare utile alle indagini. La sua memoria era di ferro: non gli sfuggiva un fotogramma di quegli anni ormai avvolti dalla nebbia del tempo. E raccontava con grande partecipazione, come farebbe chi prova ancora adrenalina per quello che ha avuto la fortuna di vedere con i propri occhi.
«E qual era il suo ruolo, il ruolo di questo capo-decina, intendo. Che faceva?», s’informò il magistrato, incuriosito dal parallelo con “Il Padrino” di Francis Ford Coppola, il suo film preferito.
«Era l’anello di congiunzione tra il boss e gli affiliati. E dava i consigli al padrino su come comportarsi in certe situazioni. Quando bisognava fare la guerra e quando no, in che cosa investire, cose del genere. E quei consigli erano molto ascoltati», ribadì il pentito.
Era quasi sera, ormai. Il parcheggio della procura al Centro direzionale si stava lentamente svuotando. Il pm si avvicinò alla finestra e scrutò l’orizzonte colorato dall’arancione del tramonto. L’interrogatorio andava avanti da tempo, ormai: c’era ancora il tempo per un’ultima domanda, poi il collaboratore di giustizia sarebbe tornato in carcere.
«Ma ora dimmi una cosa, perché decisero di eliminare La Monica? Mi devi spiegare punto per punto», iniziò a parlare il magistrato, «poi interrompiamo e riprendiamo domani pomeriggio, perché di mattina sarò impegnato in udienza».
«Ora vi spiego, con un po’ di calma. Mi dovete solo ascoltare…» replicò il pentito, chiedendo un bicchiere d’acqua. «Dobbiamo soltanto tornare indietro di qualche mese».

«Hai ricevuto l’“imbasciata”? Stasera ci dobbiamo vedere a casa di Paolo. Ci deve parlare di una cosa molto importante», disse Paolo Micillo a Raffaele Abbinante. Erano fermi al Quadrivio di Secondigliano, vicino a un bar.
«Lo so di che ci deve parlare. La Monica sta rubando dalla cassa comune, si sta prendendo i soldi del contrabbando che gli passa Zaza e non li sta mandando ai carcerati», gli rispose l’altro, intento a guardare se arrivava la polizia. Non erano armati, ma due pregiudicati fermi in strada attirano comunque l’attenzione.
«E tu ci credi? Io no», riprese Micillo.
«Me l’ha confermato Paolo l’altro giorno. Ha fatto i conti e non si trova».
«E Mimì Silvestri che ne pensa?».
«Niente, che deve pensare: quello che dice Paolo per lui è legge. E me l’ha confidato personalmente: “Se Paolo ha fatto i conti, non ha sbagliato lui. Sono i conti che sono stati sbagliati. E Aniello li sta sbagliando apposta”. A proposito, ora lo vado a prendere sopra la Vanella. Ci vediamo più tardi…».
Finita la conversazione, Raffaele Abbinante salì in auto e si avviò all’appuntamento con Paolo Di Lauro. Non sapeva che appena mezz’ora prima, Aniello La Monica aveva decretato la loro morte, ormai convinto che non ci fossero più margini di trattativa con quel gruppetto di giovani assetati di soldi e di potere, che volevano a tutti i costi costringerlo a inondare di droga i suoi territori. Lui, questo, non l'avrebbe mai permesso. A Secondigliano, finché aveva respiro, avrebbe comandato solo e soltanto lui.
«Oggi pomeriggio saranno insieme a via Cupa dell’Arco. Me li dovete togliere da mezzo, stanno diventando giorno dopo giorno sempre più pericolosi. Questo è il numero di targa dell’auto di Abbinante e il modello. E ora muovetevi», aveva ordinato il padrino, trincerato nel suo appartamento. I killer - due giovani di Caserta - lo avevano tranquillizzato sull'esito della spedizione e, incassati i soldi, erano saliti in sella. La caccia era aperta. Su una moto Henduro, i sicari avevano iniziato a perlustrare il vialone che costeggia, parallelo, via Cupa dell’Arco. Come gli squali che chiudono a cerchio la preda in spirali sempre più piccole, così i due assassini prezzolati, incaricati dal vecchio padrino di abbattere i traditori, si avvicinavano alle vittime. Incrociarono l’auto dove viaggiavano Abbinante e Di Lauro da lontano. La riconobbero e ne seguirono la tracce fin sotto la casa di La Monica, per poi tornare indietro. A distanza di tiro, il conducente diede una boccata di carburante al motore della Henduro, perché il rombo dei pistoni coprisse il rumore dei colpi di pistola. Ma qualcosa andò storto. Abbinante si accorse appena in tempo dell’agguato, lanciò uno sguardo nello specchietto retrovisore e imboccò una scorciatoia. I killer accelerarono e iniziarono a sparare in strada, all'impazzata. A quell’ora, via Cupa dell’Arco era quasi deserta per fortuna. L’auto sbandò, ma Abbinante riuscì a tenere fermo il volante e a scappare verso corso Secondigliano, dove lui e Di Lauro si sarebbero sentiti al sicuro tra la gente. Il rumore delle detonazioni aveva attirato una volante in perlustrazione in zona, che accese la sirena e raggiunse il luogo dell’agguato. Troppo tardi. I sicari erano già fuggiti, ma i proiettili, comunque, avevano raggiunto l’abitacolo.

Il sole era tramontato e il parcheggio vuoto. Il magistrato ordinò al poliziotto di sospendere la verbalizzazione e di sistemare le audiocassette nella cassaforte. Avrebbero continuato l’indomani.
«Si salvarono per miracolo. Di Lauro rimase illeso. Abbinante, invece, dovette essere ricoverato al Cardarelli. Era stato ferito», tagliò corto il pentito, stanco. Aveva parlato per più di cinque ore, senza fermarsi mai, bevendo solo un bicchierino di caffè.
Il giorno dopo, il collaboratore di giustizia si era attrezzato, a suo modo: aveva chiesto un paio di panini e una bottiglia d’acqua minerale in vista della lunga giornata di confessioni. Alle 14.30 precise, il pubblico ministero entrò nella stanza con il pc portatile e il registratore per riprendere l’interrogatorio. Prima di partire, però, lanciò uno sguardo ai titoli del giornale che aveva comprato l’agente, che lo stava attendendo per riprendere l'interrogatorio. C’era scritto, a caratteri cubitali, “Mattanza a Secondigliano”. Tre morti in un giorno: una passante, soltanto grazie alla fortuna, non era rimasta coinvolta nella sparatoria.
Il collaboratore incrociò lo sguardo del magistrato e disse: «Con Paolo Di Lauro una cosa del genere non sarebbe mai accaduta». E scosse il capo, come a rimpiangere i bei tempi andati.
Il magistrato sistemò tutto e aprì di nuovo l’agendina Moleskine. Sfogliò le ultime pagine, su cui aveva annotato le proprie riflessioni, e fece segno al poliziotto di iniziare. «E poi che cosa successe dopo l’agguato?», chiese, mentre il contatore del registratore riprendeva il suo lento giro.
«Che l’appuntamento di quella sera saltò, naturalmente», rispose il collaboratore di giustizia, che si era appuntato sul foglio di carta da dove riprendere il discorso. «Ma nessuno aveva il coraggio di accusare l’altro né dell’agguato né della questione dei soldi mancanti. Ognuno fingeva, dal lato suo, e si dimostrava amico con tutti. La Monica era convinto che la prossima volta sarebbe andata meglio e che i killer non avrebbero sbagliato mira, Di Lauro sapeva che la prossima volta per La Monica non ci sarebbe stata. Ormai uno dei due era di troppo a Secondigliano».
«Ma realmente La Monica rubava dalla cassa comune?»
«Mah, questo io non lo so. Si diceva che non mandava più i soldi ai carcerati coi vaglia postali. E questo era un compito di Paolo, i soldi passavano tutti per lui, quindi solo lui può confermare, o smentire. Posso dirvi quello che penso io, dottore: sono convinto che fu più la paura a far uccidere La Monica che la voglia di potere. La Monica era sospettosissimo e più di ogni altro temeva proprio Di Lauro, perché era il più intelligente tra di noi. Di Lauro l’aveva capito e, forse, agì prima che finisse lui sotto terra. Era un gioco di velocità».
«Perché La Monica temeva Di Lauro?», si incuriosì il magistrato.
«Lo sapete come si dice: il coraggioso teme il furbo e il furbo teme il violento. Paolo era quello che La Monica voleva essere: freddo, calcolatore, astuto e capace di tenersi lontano dai guai. Di Lauro non lo hanno mai sorpreso con una pistola, non girava armato. Non partecipava alle risse, non era un attaccabrighe. Sempre educato, sempre con la sigaretta tra le mani. La Monica lo sapeva che Mimì Silvestri, quando si incazzava, era incontenibile. Di Lauro non si incazzava mai, ma era molto più pericoloso, perché navigava sott’acqua e anche la storia dei soldi che mancavano potrebbe essere una sua invenzione. Perché era cosciente del fatto che solo puntando sul denaro avrebbe potuto convincere gli altri affiliati ad ammazzare La Monica, o - in alternativa - a non vendicarlo».
«Ho capito, riprendiamo il racconto».

Il giorno dopo il fallito attentato, Di Lauro convocò i suoi amici più fidati e mandò un’“imbasciata” ai Nuvoletta. Abbinante non c’era, perché si trovava ancora in ospedale. Una pallottola gli aveva trafitto la spalla e necessitava di almeno una settimana di riposo. Il messaggio di ritorno da Marano arrivò direttamente in serata. Era l’autorizzazione che Di Lauro attendeva, da parte dei Nuvoletta, per poter uccidere La Monica; una precauzione necessaria a causa dei legami del vecchio boss con Michele Zaza e, tramite questi, con la famiglia Gambino di New York.
Erano tutti nella villa di Di Lauro, in via Cupa dell’Arco. Ormai era in atto una faida. E di questo avevano consapevolezza. Il più deciso era Mimì Silvestri. «Allora è tutto pronto, dobbiamo soltanto decidere chi viene con me», prese a parlare all'inizio della riunione.
«Ma non credi che è pericoloso? E poi mica Aniello sarà così stupido da cadere in trappola? Ci sarà sicuramente un guardaspalle con lui», intervenne Raffaele Prestieri, che in quel momento più degli altri cercava di mantenere la calma e di capire quali potevano essere le alternative al sangue e ai proiettili.
«Sì, ci sarà Enzo», rispose Di Lauro. «Ma io non me ne preoccupo. Già me lo sono comprato. Rosario, domani mattina una persona ti aspetta dietro al Monterosa per consegnarti le armi. E ora non pensiamoci più e beviamo», troncò il discorso il giovane padrino.
La mattina dopo, il gruppo di fuoco composto da Paolo Di Lauro, Domenico Silvestri, Raffaele Prestieri e Raffaele Abbinante entrò nell’auto e si nascose a poche decine di metri dall’abitazione di La Monica. Un affiliato, che era passato dalla loro parte, fece da esca. Per tradire il padrino volle un milione di lire. I soldi li anticipò Di Lauro.
Citofonò a La Monica e gli chiese di scendere, perché voleva mostrargli della refurtiva che avrebbe potuto interessargli. Fu convincente, perché molto spesso – in passato – gli aveva proposto oro e diamanti da acquistare, provento delle rapine nelle gioiellerie del nord Italia. E poi era insospettabile, perché tutti nel rione sapevano che aveva paura del boss.
Quando La Monica riattaccò la cornetta, era comprensibilmente nervoso. Titubante sul da farsi: accettare l’offerta, oppure no. Il suo dubbio era anche di natura psicologica: un capo non può rinchiudersi in casa, pensava, e se oggi non esco, non avrò più la possibilità di farlo per il resto della mia vita. Sarà la mia condanna.
«Dammi la pistola», disse al guardaspalle che era con lui in casa.
«Aniello, la mantengo io. Se ci fanno un controllo, è meglio che prendono me che te. Non credi?», gli rispose pronto il “gorilla”.
«Hai ragione, scendiamo e facciamo presto che non voglio dare a nessuno l’occasione di colpirmi. Enzo, ci sono i proiettili nel tamburo?».
«Stai tranquillo, è tutto a posto».
Dopo due rampe di scale, La Monica era sul ciglio della strada. Urlò il nome del giovane che lo aveva cercato al citofono, ma non ce n’era traccia. Mosse qualche passo al centro della carreggiata, voltando le spalle alla traversa da dove sbucò a folle velocità l’auto con i killer a bordo. La Monica fece appena in tempo ad accorgersi della sgommata che si girò verso il guardaspalle. Ma Enzo, ormai, era dietro il cancello chiuso ad osservare la scena, con la pistola in pugno.
Un impatto tremendo lo travolse mentre tentava di tornare sul marciapiedi. Il muso della macchina lo tramortì, ma La Monica non cadde. Restò stordito, camminando come camminano gli ubriachi. A zigzag. Si mosse da destra a sinistra, maledicendo il nome del guardaspalle. Il commando uscì dalla vettura e finì la missione. Il primo a sparare fu Paolo Di Lauro, ma con una pessima mira.
«Tu devi fare il capo, mica il killer», scherzò qualche ora dopo Silvestri, battendogli una mano sulla spalla.
«Infatti non prenderò mai più una pistola in mano», ribatté pronto l’altro.
Così moriva Aniello La Monica, il primo capo dei secondiglianesi.
«Sono convinto di una cosa». Il dirigente del commissariato di Secondigliano ruppe il silenzio all’improvviso. Era stato il primo ad accorrere sul posto, dopo una telefonata anonima al 113 che avvertiva di una sparatoria con un morto. A terra c'era una macchia di sangue che sembrava pomodoro, tanto era denso: il corpo di La Monica era stato straziato dai proiettili. Aveva il braccio proteso verso il cancello di casa, come in un ultimo - disperato - tentativo di arrivare al sicuro.
«Sono convinto che la morte di La Monica è funzionale a un progetto, perché già da un po' di tempo avvertivo che nell’aria qualcosa stava cambiando. Sono scomparse le bancarelle dei contrabbandieri. Passa per corso Secondigliano, non ce n’è più nessuna in giro. Ora, secondo te, tutte queste persone che fine faranno?», si interrogava ad alta voce, mentre camminava lungo il marciapiedi su cui giaceva, supino, il corpo senza vita del vecchio padrino.
«Si troveranno un’altra attività, è logico», rispose un agente che veniva dalla Sicilia e che era abituato a ragionare immedesimandosi nei delinquenti a cui dava la caccia. L'ufficiale se l'era portato appresso perché si riconosceva in lui, molto intuito e modi spicci. I due poliziotti sapevano che l'esecuzione di un capoclan può segnare la fine, ma anche l'inizio di una organizzazione malavitosa. E ora osservavano quella scena straziante con tanti dubbi e una grande paura in fondo al cuore. «Il problema è capire quale sarà quest'altra attività... Non stanno nemmeno più facendo le estorsioni. I negozianti sono terrorizzati. Non sanno a chi devono rivolgersi. Hanno paura che succeda qualcosa. Due giorni fa un mio informatore mi ha chiesto se c’era in previsione qualche scarcerazione. Voleva sapere se, finalmente, qualcuno tornava a chiedere il pizzo. Perché, finora, nessuno si sta muovendo», aveva concluso il pensiero il più giovane, iniziando a raccogliere le notizie per la relazione di servizio sull'agguato.

Il giorno 1 maggio dell'anno 1982, in questa via Cupa Vicinale dell'Arco, in Secondigliano, personale della stazione dei carabinieri di Secondigliano, intervenuto a seguito di una telefonata anonima, ha rinvenuto il corpo privo di vita di La Monica Aniello, in atti generalizzato, attinto mortalmente da numerosi colpi di arma da fuoco esplosi da ignoti. Il La Monica, pregiudicato per contrabbando, reati contro la persona e il patrimonio, porto e detenzione illegale di arma da fuoco, già denunciato per il reato di associazione per delinquere e omicidio, era da considerarsi il capo-zona di Secondigliano per conto dell'organizzazione camorristica nota come "Nuova famiglia", facente capo ai noti pregiudicati Zaza Michele, Bardellino Antonio e Nuvoletta Lorenzo.
Non è stato possibile rintracciare alcun testimone, né ottenere informazioni di natura confidenziale, perché dei residenti nessuno era presente in strada al momento dell'agguato. E' probabile che il commando assassino sia giunto sul posto a bordo di un'auto, stante il ritrovamento di alcune strisce sull'asfalto provocate da una brusca frenata. A sparare sono state diverse armi da fuoco, almeno tre di calibro differente.

Pochi istanti dopo arrivò anche il capo della squadra mobile, Antonio Ammaturo, il coraggioso poliziotto che stava indagando sul sequestro Cirillo e sui rapporti tra camorra e politica. Lesse la relazione di servizio e si fermò a osservare la scena del delitto: notò che La Monica non era armato e che non c'erano i suoi uomini di fiducia in giro. Quest'assenza lo incuriosì molto, perché per gli affiliati a un clan è un dovere vegliare il cadavere del boss caduto sotto il piombo nemico. Raccolse un altro po' di materiale, utile per le indagini, e ordinò di perquisire l'abitazione di La Monica. Poi, tornò in ufficio.Il questore dell'epoca aveva un nome letterario, quasi epico, ma scarsa dimestichezza con i fatti di camorra: Walter Scott Locchi si sentiva franare sotto i piedi il terreno ogni volta che dalla squadra mobile gli telefonavano per avvisarlo di un omicidio "importante". Quello di La Monica, oltre ad essere importante era anche "anomalo". Una doppia preoccupazione per il capo della polizia napoletana omonimo dello scrittore scozzese creatore di Ivanhoe, il cavaliere senza macchia e senza paura.