lunedì 28 dicembre 2009

Il rione fortificato

Un intero rione, a Barra, era stato trasformato nella cittadella fortificata del clan. Un “bunker” inaccessibile, dotato sia di apparecchiature high-tech che di vecchi e solidi muri di cinta per proteggersi dalle incursioni delle forze dell’ordine e dei killer nemici.
Nel corso di un blitz dei carabinieri, nell’ottobre Duemila, furono scoperti telecamere miniaturizzate, grandi appena un centimetro, monitor e potenti proiettori di luce che sorvegliavano le vie di accesso e di fuga al quartier generale della famiglia Aprea-Cuccaro-Alberto. Ma non solo: oltre all’apparato di difesa passiva, i militari del comando provinciale rinvennero pure garitte blindate e cordolature in cemento per rallentare eventuali inseguimenti.
Gli “occhi elettronici” erano stati mimetizzati su lampioni e muri per controllare le strade adiacenti alle abitazioni dei boss. Alla fine dell’operazione, furono undici i monitor sequestrati e ben tredici le telecamere ritrovate. Una di queste, posizionata davanti all’ingresso dello stabile dove vivono i parenti del padrino Giovanni Aprea, era collegata a una centralina in grado di inquadrare, in una sola schermata, quattro diverse angolazioni.

La banca della camorra

Una sorta di circuito creditizio parallelo illegale, gestito dal clan Aprea-Cuccaro, venne scoperto dai carabinieri del comando provinciale di Napoli in una complessa indagine patrimoniale dell’aprile del 1994, che portò anche al sequestro di beni per oltre venti miliardi di lire.
Un vero e proprio impero economico, edificato grazie al riciclaggio di denaro sporco, che aveva permesso ai vertici del sodalizio criminale dell’area orientale di imporsi in alcuni settori commerciali legali, come la grande distribuzione organizzata e l’edilizia, e di snaturare le dinamiche di mercato attraverso il ricorso alla violenza e alla concorrenza sleale.
Nel corso dell’operazione, gli investigatori apposero i sigilli a venti appartamenti, trenta automobili, terreni, capannoni industriali e tre società attive nel settore alimentare.
Secondo quanto ricostruito dagli uomini del comando provinciale dell’Arma, i “colletti bianchi” del clan si finanziavano da un lato con la ricettazione di derrate alimentari, provenienti dalle rapine ai tir, che venivano “riciclate” attraverso apposite aziende del ramo e rivendute in discount e supermercati compiacenti, e dall’altro con richieste di tangenti ai commercianti e ai piccoli imprenditori della zona, ai quali – e così il cerchio infernale si chiudeva alla perfezione – venivano finanche offerti prestiti a tassi usurari per il pagamento del pizzo.
Il flusso di denaro che ne scaturiva, naturalmente, si moltiplicava a ogni passaggio di mano, tanto da rendere necessaria la costituzione di una “banca del clan”, attiva tra Poggioreale, Barra, Ponticelli e San Giovanni a Teduccio, alla quale i negozianti in difficoltà potevano rivolgersi per l’ottenimento di prestiti.
Quella non fu, comunque, l’unica inchiesta che andò a colpire il polmone “finanziario” della cosca, perché beni per altri dieci miliardi furono sequestrati a distanza di qualche settimana a San Giorgio a Cremano (un intero edificio, con diciotto appartamenti, tre capannoni e due terreni) e a Poggioreale, dove la cosca capeggiata da Giovanni Aprea aveva la disponibilità di un palazzo, composto da sette appartamenti, cinque autovetture, sei motociclette e due appartamenti.
Il valore dei beni, in quest’ultimo caso, superava i due miliardi di lire.

Il boss al confino a Benevento

Avrebbe dovuto rispettare il confino per quattro anni, a Cusano Mutri, nel Beneventano. Solo che, all’alba del 2 aprile 1992, il giovane boss di Barra, Giovanni Aprea, decise di incontrare suo cognato, Gaetano Cervone, in un appartamento di corso Sirena. Lì lo trovarono gli agenti della Narcotici, guidati dall’allora vicequestore Sossio Costanzo, dopo un blitz. Era latitante da quattro mesi, Aprea. Da quando, cioè, si era allontanato da quel paesino di montagna per tornare nel suo “feudo” e riprendere la guerra contro le organizzazioni rivali nell’area orientale della città.
Quando seppero dell’arresto e del ripristino del soggiorno obbligato, a Cusano Mutri la reazione fu tutt’altro che rassegnata: il consiglio comunale, d’intesa con il sindaco e con le associazioni locali, decise di chiudere le scuole e i negozi per due giorni per chiedere la revoca del provvedimento al prefetto di Benevento.
A Pasqua, nella chiesa del paese, si arrivò addirittura a organizzare una veglia di preghiera per impedire l’arrivo del boss. A cui, naturalmente, nessuno decise di fittare un appartamento o una stanza, visto che non esistevano alberghi o pensioni, allora. Il consiglio comunale e quello provinciale rimasero convocati in seduta permanente allargati alla cittadinanza per diversi giorni, fino a che la Corte d’appello di Napoli non decise di discutere la richiesta di revoca avanzata dal Comune. Confortati dal clima di resistenza civile a Cusano Mutri, iniziarono a ribellarsi anche tanti altri piccoli centri del Beneventano e dell’Avellinese, dove – all’epoca – si trovavano dodici malavitosi napoletani. Il Comune di Buonalbergo, ad esempio, decise di ricorrere contro la decisione del Tribunale di Napoli di inviare al confino il camorrista Francesco Iossa, appartenente ai clan di Acerra. Prima di lui, c’era stato anche il “braccio destro” del padrino Giuseppe Misso, Alfonso Galeota e altri due sarebbero arrivati nel giro di un altro mese.
Le proteste dei residenti e delle istituzioni locali, però, non convinsero più di tanto i magistrati e il prefetto di Napoli, che non solo chiesero di confermare le destinazioni già individuate, ma lasciarono chiaramente intendere che «di fronte ai sindaci trasformatisi in capi-popolo» sarebbero state adottate forti contromisure e azioni penali.
Alla fine, il problema si risolse da solo, perché Aprea fu raggiunto da un mandato di cattura che lo portò, per parecchi mesi, nuovamente dietro le sbarre.

I boss della cosca Cuccaro

I componenti della famiglia Cuccaro, pur se alleati con gli Aprea, hanno rappresentato una sorta di sottogruppo criminale con una propria, limitata, autonomia nell’ambito della gestione del malaffare a Barra.
Il personaggio più importante della banda è stato certamente Angelo Cuccaro, arrestato nel 1993 per omicidio (secondo l’accusa ammazzò un affiliato che si opponeva alla tregua con l’organizzazione rivale dei Minichini). Si nascondeva in un appartamento in via Bartolo Longo, a poca distanza dal quale vennero ritrovati, nel corso della stessa operazione, un fucile mitragliatore e una pistola.
Coinvolto insieme a Giacomo Alberto, altro “fedelissimo” del boss Giovanni Aprea, nelle inchieste sulla guerra di camorra nell’area orientale, nel gennaio del 2000 sfugge alla maxi-retata predisposta dall’allora pm della Dda di Napoli, Luigi Bobbio, che porta in galera ventitré camorristi appartenenti a sei diversi gruppi malavitosi. In quell’occasione, tredici indagati vennero scarcerati a sorpresa dal giudice delle indagini preliminari, perché, a suo dire, non esistevano pericoli di fuga e per la gran quantità di atti depositati dal pubblico ministero a sostegno della richiesta di convalida, che non avrebbe consentito una decisione entro le 48 ore previste dalla legge.
L’episodio, registrano le cronache dell’epoca, provoca un terremoto nell’ambiente giudiziario partenopeo, perché – in quella sola settimana – si registrarono ben tre omicidi tra San Giovanni e Barra, riconducibili allo scontro in atto.
La fuga di Cuccaro, comunque, dura appena un paio di settimane, perché i carabinieri lo bloccano a casa di Giovanni Aprea insieme a Ciro e Gennaro Aprea e a Gaetano Cervone.
Da detenuto, riceve una nuova ordinanza di custodia cautelare in carcere per l’attentato con il bazooka contro l’auto di Pietro Lago, padrino di Pianura. Un agguato, rimasto senza gravi conseguenze, che avrebbe dovuto sancire la vittoria dell’Alleanza di Secondigliano sul cartello rivale dei Sarno-Misso-Mazzarella, cui Lago si stava avvicinando.
Nel corso del processo che ne deriva, Angelo Cuccaro viene condannato a sedici anni di reclusione. Il 23 gennaio 2007 gli viene notificata in carcere un’altra ordinanza di custodia cautelare per l’omicidio di Luigia Esposito, una giovane tossicodipendente di Pomigliano d’Arco, ammazzata a Sant’Anastasia il 14 novembre di undici anni prima.
Secondo la ricostruzione della procura, Luigia Esposito pagò con la vita l’aver assistito, involontariamente, a un altro delitto di camorra, quello di Ciro Rispoli, cognato del boss Bernardino Formicola, a sua volta responsabile – per i killer del gruppo Aprea – dell’uccisione di Salvatore Cuccaro. A fare luce sulla vicenda, si sono rivelati particolarmente utili i ricordi e le ricostruzioni di Francesco Amen, ex “picciotto” della camorra di Barra, condannato a quattordici anni di carcere proprio per l’omicidio Esposito e a ulteriori sei anni per associazione camorristica.

Il profilo criminale di Giovanni Aprea

Da ex “picciotto” del boss Ciro Sarno a capozona di Barra: gli inizi di Giovanni Aprea nel mondo della criminalità organizzata sono caratterizzati da un’escalation di violenza che lo vede protagonista di numerose inchieste della magistratura su agguati e omicidi compiuti tra Ponticelli e Barra. Il nome del giovane camorrista emergente compare, infatti, anche negli atti sulla strage di Ponticelli, dell’11 novembre 1989, che porta all’uccisione di sei persone.
Il primo arresto risale al 27 aprile 1990, quando trenta poliziotti della Squadra mobile circondano un edificio, in vico Mastellone, a Barra, dove si sono rifugiati Aprea e altri tre guardaspalle. A quel tempo, sono tutti latitanti per associazione camorristica e racket.
Nell’appartamento, protetto da una porta blindata, ci sono pistole e fucili a canne mozze. Il rischio di una sparatoria tra criminali e agenti è concreto, tanto che il capo della Mobile richiede d’urgenza la presenza dei vigili del fuoco per segare i cardini della porta e preparare l’irruzione. Non ce ne sarà bisogno: è lo stesso Aprea ad aprire a e consegnare i polsi. Le inchieste, agli inizi degli anni Novanta, lo indicano già come il capo della malavita locale in lotta con il gruppo rivale dei Nemolato-Andreotti. A lui, si affiancano al vertice della banda, di volta in volta i fratelli e i cognati.
I processi in cui è imputato insieme ai suoi uomini di fiducia, intanto, vanno avanti e altre accuse si aggiungono a quelle originarie: Aprea viene coinvolto anche nella maxi-inchiesta sulle tangenti per la ricostruzione del quartiere di Barra, distrutto dal terremoto del 1980. Ma arrivano pure le assoluzioni, come quella – a sorpresa – che il 31 marzo del 1992 lo scagiona per la faida dell’area orientale che ha imperversato per mesi tra San Giovanni, Barra e Ponticelli.
Meno di un mese dopo, però, torna nuovamente in galera insieme ai sei componenti della sua “scorta” personale. Gli agenti del commissariato San Giovanni-Barra lo bloccano dopo avergli notificato il rinvio del provvedimento di soggiorno obbligato, perché insospettiti dalla presenza di una moto e due auto che attendono all’uscita. A bordo, si scopre, ci sono gli affiliati al clan chiamati a sorvegliare sull’incolumità del boss con pistole e fucili. Il blitz è fulminante: i “fedelissimi” non riescono a fuggire e finiscono tutti in manette.
Peraltro, la disponibilità di numerose e micidiali armi da fuoco è una delle caratteristiche del gruppo, come dimostrano una perquisizione in un cascinale, alla periferia di Barra, dove vengono trovati – occultati in una cassa di mogano, nascosta sotto la paglia – centinaia di munizioni, due mitra, un kalashnikov; e un controllo in un terreno abbandonato, adiacente al locale cimitero, di altri undici fucili, interrati a quaranta centimetri di profondità e recuperati dai poliziotti del commissariato Ponticelli grazie ai metal-detector. A quel tempo, gli Aprea combattevano contro la famiglia rivale dei Formicola di via Taverna del Ferro, al confine tra Barra e San Giovanni.
Una nuova scarcerazione, nel 2003, lo riporta nel “bunker” di famiglia, dove riprende il controllo dell’organizzazione e prepara la risposta al tentativo di scissione portato avanti da alcuni suoi ex affiliati. Solo due anni dopo, il 15 settembre 2005, gli agenti della Squadra mobile partenopea lo fermano per un vecchio ordine di esecuzione a un anno e nove mesi di carcere. Aprea si nascondeva in una intercapedine ricavata tra le pareti della stanza da letto e quelle del ripostiglio esterno all’abitazione.

I clan Aprea-Cuccaro

I clan di Barra agiscono in un territorio stretto in una morsa mortale: tra Ponticelli e San Giovanni a Teduccio, dove operano temibili organizzazioni criminali come i Sarno e i Mazzarella, e la vicina provincia vesuviana, dove da tempo sono stanziali cosche parecchio agguerrite.
Nel quartiere, gli affari a più zeri sono stati da sempre collegati al traffico di sostanze stupefacenti, al racket, all’usura e al traffico di armi, oltre che alle rapine ai tir. Reati che hanno assicurato provviste finanziarie in abbondanza per poter sopportare le “stagioni di guerra” che hanno caratterizzato questa porzione del capoluogo.
Pur in assenza di una specifica appendice “economica”, infatti, le organizzazioni malavitose locali sono riuscite nel giro di una quindicina di anni a creare veri e propri imperi economici (una parte dei quali sono stati rintracciati e posti sotto sequestro dalle forze dell’ordine) che stridono con il livello di degrado e di povertà dell’area, dove i pochi coraggiosi titolari di attività commerciali sono costretti a fronteggiare richieste estorsive sempre più pressanti, sempre più feroci e, in alcuni casi, a trasformarsi da proprietari a dipendenti della camorra pur di mantenere una fonte di reddito.
Due episodi lo testimoniano, senza ombra di dubbio: quello che vide protagonista un imprenditore, taglieggiato da cosche rivali – i Reale-Rinaldi e gli Aprea – e costretto a pagare per ben due volte al mese la tassa della tranquillità, e l’arresto dell’ultimo capo degli Aprea, ancora rimasto in libertà, che imponeva il pizzo ai negozianti presentandosi di persona a bordo della propria vettura blindata, una Lancia K di colore blu, senza alcun tipo di timore per eventuali denunce o riconoscimenti.
Anzi, l’atto di “marcare” in prima persona il territorio veniva vissuto come un ulteriore segnale di forza nei confronti delle vittime, chiamate ad assecondare le folli richieste criminali del boss.
Un meccanismo durato anni, che ha spinto commercianti e imprenditori sul lastrico, conclusosi – per fortuna – con la decisione dei più coraggiosi di raccontare all’autorità giudiziaria le vessazioni e le minacce subite dalla malavita locale.
GLI ALLEATI E I NEMICI – Di particolare importanza, nella definizione delle strategie mafiose nella zona est della città, su cui – secondo i programmi di Comune e Regione – dovranno piovere miliardi di euro per il finanziamento di progetti imprenditoriali e di riqualificazione territoriale, sono stati i rapporti che le bande malavitose di Barra hanno stretto con altre organizzazioni partenopee e della provincia vicina.
In base alle risultanze investigative, che poi sono state confermate anche in sede processuale, il gruppo capeggiato dal boss Giovanni Aprea, soprannominato “punta ’e curtiell” – punta di coltello – agli inizi degli anni Novanta siglò un accordo con Edoardo Contini, fondatore, insieme a Gennaro Licciardi e a Francesco Mallardo, dell’Alleanza di Secondigliano.
Un rapporto di collaborazione criminale “esplosivo” a quelle latitudini, vista la vicinanza con la famiglia Mazzarella, impegnata in un durissimo scontro proprio con i “secondiglianesi”, e con gli uomini di Ciro Sarno.
Non è un caso, dunque, che gli Aprea, infatti, siano i primi a offrire manovalanza e appoggio all’ex killer del clan Sarno, Antonio De Luca Bossa, che cerca di conquistare un proprio spazio di azione nel quartiere di Ponticelli e nell’hinterland vesuviano. A sua volta, De Luca Bossa è alleato di Giuseppe Marfella, rivale dei fratelli Lago nella gestione del malaffare tra Pianura, Soccavo e rione Traiano.
Il “gioco” di link e collegamenti di malavita racchiude, in una unica ragnatela, i piani di espansione e gli affari di malavita di gran parte della città. Che si ritrova, così, impreparata di fronte all’esplosione improvvisa di violenza che porta a decine di omicidi in pochi mesi.
Gli Aprea-Cuccaro partecipano, infatti, alle azioni intimidatorie più cruenti di quegli anni, finendo per apparire – agli occhi degli investigatori – come la “mano armata” dell’Alleanza di Secondigliano nell’area orientale.
Il gruppo di Barra viene coinvolto, così, nell’inchiesta condotta dai pm Antimafia, Luigi Bobbio e Giovanni Corona, che ricostruisce il reticolo di rivalità nell’area orientale, dove i Mazzarella e i Sarno sono alleati con i Formicola e i Reale-Rinaldi contro l’offensiva dei “secondiglianesi”.
Al termine del relativo processo, quasi tutti i camorristi coinvolti saranno condannati a pene pesantissime che, salvo qualche eccezione, stanno ancora scontando.
IL FRONTE INTERNO - Sul fronte interno, invece, la camorra di Barra si caratterizza per un’elevata conflittualità, che vede la contrapposizione armata tra gli Aprea-Cuccaro, cui col tempo si uniscono gli esponenti di un sottogruppo capeggiato da Giacomo Alberto, e i Nemolato-Andreotti-Minichini, autori – secondo informative di forze dell’ordine – della strage di Barra, nella quale rimasero uccisi sei affiliati al gruppo rivale.
In tempi più recenti, dopo aver affermato la propria leadership criminale sul territorio, il boss Giovanni Aprea, complice anche una serie di arresti a ripetizione che hanno smantellato gran parte dell’organizzazione, ha soffocato nel sangue un tentativo di scissione, portata avanti dalle famiglie Celeste e Guarino. Una faida che ha riportato l’attenzione degli inquirenti il quartiere di Barra, dove si sono verificati numerosi omicidi in poco tempo.
I RAPPORTI CON LA POLITICA – Negli anni Novanta, il mondo della politica locale viene scosso dalla notizia dell’arresto dell’allora presidente del consiglio circoscrizionale di Barra, da poco rieletto alla carica. L’amministratore, con una lunga militanza nel partito socialista, è indicato dagli inquirenti come «uomo di fiducia» del clan Aprea all’interno del parlamentino locale. Inizialmente, le accuse nei suoi confronti sono di associazione camorristica e traffico di stupefacenti. Nell’ufficio, i poliziotti gli sequestrano un personal computer e numerosi floppy disc che li porteranno ad aprire un nuovo filone d’indagine, relativo – stavolta – alle tangenti imposte dagli Aprea-Cuccaro, e intascate dal politico, agli imprenditori impegnati nelle opere di ristrutturazione edilizia, a Barra, per il piano speciale edilizio del dopo-terremoto. Un fiume di miliardi su cui si è gettata, famelica, la camorra dell’area orientale e che costerà al politico, nel 1997, un nuovo mandato di cattura per estorsione e associazione camorristica.

venerdì 25 dicembre 2009

Chiuso Spartacus III: tre secoli di carcere

Il Gup Claudia Picciotti, con rito abbreviato che riguardava 50 imputati nel procedimento "Spartacus III", ha condannato a complessivi 300 anni di carcere tutti per associazione a delinquere di stampo mafioso. Destinatari della sentenza anche 12 capozona storici dei Casalesi, la maggior parte dei quali con condanne già definitive o imputati anche in "Spartacus I" approdato in Cassazione. Tra questi Luigi Basile (6 anni e 8 mesi), Salvatore Cantiello (5 anni), Giuseppe Caterino (5 anni e 6 mesi), Pasquale Ciocia (2 anni), Antonio Del vecchio (titolare del caseificio sotto sequestro 'San Vito', 5 anni), Sebastiano Ferraro (2 anni e 8 mesi) e Luigi Venosa (zio di Giovanni arrestato nei giorni scorsi, che ha fatto anche l'attore "Gomorra", 10 anni e 5 mesi). Stralciata in precedenza la posizione di Giuseppina Nappa, moglie del boss Francesco Schiavone detto Sandokan, già condannata.

Camorra e rifiuti, parla il Procuratore Lepore

Giovandomenico Lepore tiene alta la soglia di attenzione sull’e mergenza rifiuti. "Quasi, quasi direi ai cittadini di mettere una mascherina e poi infilare i tappi nelle orecchie e aspettare così che passi il buio più profondo" la frase sibillina del procuratore della Repubblica di Napoli nel corso di un'intervista trasmessa integralmente sulle emittenti del circuito Lunaset.
Vi è un collegamento tra le emergenze e la camorra? "C'è chi vuole vedere un filo conduttore legato alla camorra – la risposta di Lepore -. Molte delle nefandezze vengono compiute da chi non c'entra proprio nulla con la camorra. Tuttavia, se intendiamo come camorra non l'organizzazione criminale presente sul territorio ma il fenomeno di carattere sociale, allora sì che esistono tanti tipi di camorra, di criminalità che porta all'emergenza".
"Quello che ci spaventa - spiega Lepore durante l'intervista - è constatare che tutti i tipi di emergenza, da quella occupazionale a quella sui rifiuti, da quella che riguarda la criminalità organizzata alle infrastrutture fino alla corruzione nella pubblica amministrazione sia concentrata soltanto in questa area della Campania".
Da cittadino Lepore si dice poi sfiduciato e crede che l'emergenza rifiuti sia tutt'altro che risolta. "Certo Napoli e più pulita - dice, secondo quanto riferisce la nota dell'emittente - ma credo che intorno ad aprile o maggio ci ritroveremo, nuovamente, con i sacchetti in mezzo alla strada. Già, adesso, fuori l'area metropolitana si stanno notando cumuli non raccolti".
Per il capo della procura è necessario che gli enti locali si rimbocchino le maniche: "E' possibile che una città come Napoli sia ricoperta di rifiuti?". E ancora. "Al momento è attivo il solo termovalorizzatore di Acerra, ma intanto le discariche non possono restare aperte all'infinito. E non è più tempo di discariche".

Imprenditore pagava il pizzo a 2 clan rivali

Comprava il pane per il suo negozio a prezzo maggiorato. Prima da un «fornitore», ovvero un clan di camorra, poi da un altro, diretto rivale. Infine, addirittura, contemporaneamente, subendo una doppia estorsione. Sfiancato dal pressing di ben due organizzazioni criminali, tra loro rivali, un imprenditore di Ercolano ha deciso di denunciare tutto alle forze dell'ordine. Così, dopo una serie di indagini, le continue richieste e le vessazioni sono terminate grazie all'arresto di sei presunti estorsori. La polizia del commissariato Portici-Ercolano ha infatti eseguito un'ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di sei persone, tutte ritenute affiliate ai clan Birra e Ascione-Papale attive a Ercolano, indiziate di estorsione aggravata. Si tratta di Ciro Savino, Marco Cefariello, Francesco Polese, Aniello Taurino, Pasquale Borragine, Alessandro D’Anna.
DOPPIA «RICHIESTA» - Dall'attività investigativa coordinata dalla Dda di Napoli, è emerso che in caso di resistenza, la vittima era spesso convocata nella roccaforte in via Cuparella al cospetto di Marco Cefariello e Ciro Savino. E qui avveniva la richiesta di mille euro a fondo perduto e di 300 euro da versare mensilmente per ogni singolo esercizio commerciale di proprietà, per un profitto complessivo di 7mila euro una tantum e 2.100 mensili. L’imprenditore avrebbe rifiutato di versare la quota, facendo presente che già ogni giorno acquistava forzatamente pane ad un prezzo superiore a quello di mercato: (1,50 euro invece di 80 centesimi) dalla famiglia di Savino, nonchè di altri prodotti, quali carta per imballaggio, da vari esponenti legati ai Birra. Non è finita qui, perchè le indagini hanno messo in luce la responsabilità di Alessandro D’Anna, dagli inquirenti ritenuto un esponente del clan avversario degli Ascione-Papale, che avrebbe costretto l’imprenditore ad acquistare pane dal sodalizio di appartenenza e, anche in questo caso, a prezzo maggiore a quello di mercato.
ASSOCIAZIONE ANTIRACKET - Un risultato importante che avviene grazie al forte impegno della Polizia sul territorio di Ercolano, alle frequenti passeggiate contro il pizzo, e all’impegno dell’Associazione Antiracket cittadina. Da Gerusalemme, dove si trova, il sindaco di Ercolano, Nino Daniele, parla di importante vittoria dello Stato. In un telegramma inviato al dirigente del commissariato scrive: «È una ulteriore riprova della fiducia dei cittadini nei confronti suoi e della Polizia di Stato e di un clima civile, nuovo e vincente che anche grazie a voi abbiamo potuto costruire».

S'impicca in cella il killer del clan Mazzarella

Ciro Giovanni Spirito, 35 anni, il collaboratore di giustizia suicidatosi oggi nel carcere romano di Rebibbia, era detenuto in quanto ritenuto un killer del clan camorristico dei Mazzarella. L’uomo è stato trovato impiccato all’alba di oggi, con la cintura dell’accappatoio allo stipite di un armadietto. Sul posto è arrivato il magistrato di turno Andrea Mosca, che ha avviato accertamenti per stabilire le cause del suicidio. Spirito, a quanto si è appreso, non ha lasciato messaggi per spiegare il gesto. Domani il magistrato affiderà l’autopsia ad un medico legale.
Spirito, insieme con il boss Vincenzo Mazzarella, di 53 anni, fu arrestato nel 1999 a Nizza dalla Squadra Mobile di Napoli in collaborazione con agenti di polizia francesi. I due, come ricostruisce l'Ansa, furono sorpresi in un lussuoso residence dell’ hotel Siracuse a Villeneve Luobet. Mazzarella e Spirito finirono in manette con l’accusa di associazione per delinquere di stampo camorristico. A Spirito, in particolare, si contestava anche l’omicidio di Egidio Cutarelli, avvenuto il 16 febbraio 1998, davanti al carcere di Poggioreale a Napoli. Il delitto avvenne nell’ ambito dello scontro tra gli esponenti del clan Mazzarella e quelli della «Alleanza di Secondigliano». Nella sparatoria morì anche il padre di Vincenzo Mazzarella, Francesco. L’agguato era stato organizzato dai killer dell’«Alleanza di Secondigliano» contro Vincenzo Mazzarella che quel giorno doveva essere scarcerato.

giovedì 10 dicembre 2009

I clan di Posillipo: racket e omicidi

Ex allenatore del “Posillipo calcio”, Giovanni Paesano è il proconsole della Nuova famiglia nel quartiere di Posillipo. Zona tranquilla, residenziale, dove il malaffare assume i contorni indecifrabili del riciclaggio e degli investimenti in odore di mala.
Condannato a sei anni di carcere per associazione camorristica insieme a Gennaro Licciardi, Ciro Giuliano, Antonio Capuano e Francesco Mallardo, Paesano vanta collegamenti con la Sacra Corona Unita e con il gruppo del giovane Rosario Piccirillo, alla Torretta. Tirato in ballo dal pentito Ciro Vollaro a proposito del rapimento di Gianluca Grimaldi, rampollo della dinastia di armatori, Paesano è tra i fondatori dell’Alleanza di Secondigliano, anche se uscirà assolto dal maxi-processo alla Cupola.
Tra Posillipo e Mergellina, organizza una agguerrita banda di malviventi, specializzata nel traffico di droga e nelle estorsioni a tappeto, che gestisce dai covi dell’Arenaccia e di Secondigliano, dove si trasferisce a vivere grazie alla protezione della famiglia Licciardi.
Frequentatore dei salotti chic di Chiaia e Posillipo ed appassionato di cavalli, Paesano viene ammazzato la sera del 4 giugno 1995, davanti all’ippodromo di Agnano, al termine di un gran premio. È in auto con un amico, davanti alla struttura sportiva, quando i killer entrano in azione e mirano alla testa e al petto del boss. Per Paesano non c’è scampo. La fuga all’ospedale San Paolo, a Fuorigrotta, è inutile. Il padrino muore subito dopo il ricovero.
Due anni dopo, sulla Tangenziale viene ammazzato Luigi Giglioso, personaggio emergente legato al clan di Giovanni Alfano, che sta tentando di impossessarsi del malaffare a Posillipo. Le indagini accerteranno che la testa di Giglioso sarà il prezzo pattuito per la pace tra Alfano e Caiazzo su intervento dell’Alleanza di Secondigliano.
Il vuoto di potere viene presto coperto dalla banda di Antonio Calone e Raimondo Anastasio, legata ai Lo Russo di Miano. Nel febbraio 2000, sei componenti della cosca finiscono in manette con l’accusa di aver taglieggiato decine di attività commerciali del quartiere, dalle gelaterie ai ristoranti, fino agli stabilimenti balneari. In un caso, il gruppo ottiene da parte del titolare di una impresa edile, il pagamento di un forte riscatto per la restituzione di alcuni macchinari rubati da un cantiere. Oggi, a Posillipo, sopravvivono ancora i resti della colonia camorristica di Secondigliano.

Il clan e l'ospedale Cardarelli

Il coraggio di un sindacalista dell’ospedale Cardarelli fermò i piani criminali del boss Giovanni Alfano, che voleva impadronirsi della gestione del mega-parcheggio della struttura sanitaria. La vicenda, emersa nella inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Napoli che il 29 maggio 2001 portò all’arresto di quattro camorristi, si concluse con la rabbiosa reazione del clan che punì l’uomo, picchiandolo selvaggiamente davanti alla moglie e alla figlia.
I fatti risalgono al 1999, quando la direzione del nosocomio più grande del Sud Italia autorizza la realizzazione di un parking da affidare ai privati. Del progetto, del valore di parecchi miliardi di lire, si interessano subito i gruppi criminali della zona e, in particolare, la banda capeggiata dal padrino Alfano. A guastare i piani dell’organizzazione, a sorpresa, però, sono le rimostranze di alcune sigle sindacali del Cardarelli, che protestano con i vertici dell’ospedale contro il bando di gara che trasforma l’immensa area verde in un’area di sosta, con tutti i problemi logistici e ambientali che ne derivano.
Il progetto, così, viene ridimensionato e rimesso in discussione, ma il colpo di scena arriva quando una talpa della cosca, all’interno del Cardarelli, informa i capi dell’organizzazione dell’identità di un rappresentante dei lavoratori tra i più attivi sul fronte del no. L’uomo, che nulla sospetta, viene pedinato fin sotto casa e aggredito da due affiliati per aver fatto fallire il piano.
Dell’interesse della camorra del Vomero sul settore sanitario, si ha conferma in un’altra inchiesta – coordinata come la precedente dall’allora pm della Dda, Raffaele Marino – che svela la concorrenza sleale nell’ambito del trasporto infermi, con minacce ai dipendenti e ai gestori delle associazioni private, danneggiamenti di ambulanze (alcune furono distrutte in un incendio) ed estorsioni ai danni dei parenti dei pazienti, costretti a pagare cifre altissime per poter usufruire del servizio.
L’indagine del luglio 2005 si concentrò, in particolare, sulla “Croce Cangiani”, che aveva visto tra i suoi dipendenti – per un breve periodo – anche Giovanni Totaro, boss emergente del Vomero, ammazzato la sera del 6 febbraio 2007, a Marano.

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La violenza e la ferocia della cosca Alfano trovano spazio, per la prima volta, in un approfondito dossier che l’allora capo della Squadra mobile di Napoli, Matteo Cinque, distribuisce a commissariati e uffici investigativi come strumento d’indagine nei confronti delle organizzazioni emergenti più potenti della città. Siamo nel 1988: il volume, di circa 350 pagine, è un’analitica ricostruzione delle alleanze e delle rivalità tra i clan ed elenca capi e gregari che si contendono il ricco mercato del traffico di stupefacenti, i cambiamenti avvenuti al vertice e i rapporti con Cosa nostra siciliana e ’Ndrangheta calabrese. Nei primi dieci mesi dell’anno, c’erano stati già 155 morti e 180 ferimenti dovuti a sconfinamenti territoriali per l’imposizione del racket e la gestione dello spaccio di droga.
Nella mappa della criminalità, il capo della Mobile Cinque si sofferma, in particolare su due personaggi in ascesa: Edoardo Contini, padrino dei quartieri Vasto-Arenaccia, e Giovanni Alfano, appunto, indicato nel testo come «boss di rilievo al Vomero».

Gli altri capi del clan

La struttura unitaria del clan, piegata dagli arresti dei suoi affiliati di maggiore spicco e dalla detenzione del capo, subisce una prima scissione ad opera di Luigi Cimmino, ex braccio destro di Giovanni Alfano a metà degli anni Novanta.
Di lui si parla per la prima volta in una indagine del 1992, quando l’allora sostituto procuratore antimafia Federico Cafiero De Raho ne chiede l’arresto per una maxi-tangente imposta alla ditta impegnata nei lavori di ristrutturazione della villa dell’ex moglie di Corrado Ferlaino, al Vomero. Insieme a Cimmino, vengono indagati anche Antonio Caiazzo e Maurizio Brandi. Secondo la procura, in un primo momento, avrebbero chiesto il pagamento di una mazzetta da cinquecento milioni di lire, ottenendone duecento, in tre rate. Né la ditta, né la proprietà avevano denunciato gli estorsori, tant’è che l’inchiesta parte grazie a una telefonata anonima al numero verde antiracket attivato in Questura.
Col tempo, Cimmino si allontana dal gruppo originario e avvia il reclutamento di giovani affiliati, con i quali tenta di impossessarsi il controllo del racket delle estorsioni tra il Vomero e l’Arenella. Ne nasce una guerra furibonda con i reduci del clan Alfano, che porta all’uccisione di vittime innocenti e a un clima di autentico terrore nei quartieri residenziali della città, con sparatorie tra la folla e attentati dinamitardi. Non vengono risparmiati nemmeno i parenti dei collaboratori di giustizia. Le indagini della magistratura delineano uno scenario in continua evoluzione.
Ricercato per associazione camorristica ed estorsione, Cimmino termina la sua latitanza il 6 luglio del 2001, quando il capo della sezione Catturandi della Squadra mobile di Napoli, Andrea Vitalone, che poche settimane prima aveva catturato Maria Licciardi, lo individua in un appartamento a Marano, dove – si disse – aveva trovato appoggio grazie alla protezione della potente famiglia Polverino.
Gli equilibri all’interno delle organizzazioni del Vomero, così, cambiano di nuovo. Con Alfano e Cimmino in galera, acquisiscono potere Salvatore Varriale e Antonio Caiazzo. A loro tocca prendere il comando delle attività illecite tra il Vomero e l’Arenella. Ma è un interregno che dura poco. Il primo, Varriale, finisce in manette nel giugno del 2002, in un appartamento in via Ruoppolo. Per gli inquirenti, stava riallacciando i rapporti con l’Alleanza di Secondigliano; il secondo – invece – dopo un’altalena giudiziaria, fatta di detenzioni e scarcerazioni, viene bloccato nel gennaio del 2009 in Spagna, al termine di una cena nel ristorante “Bella Napoli”, in un sobborgo di Madrid.
Ciò che resta delle organizzazioni è tutto racchiuso nell’ordinanza di custodia cautelare in carcere che, nel giugno 2007, decapita la camorra del Vomero e porta al sequestro di un vero e proprio tesoro del valore di cinquanta milioni di euro, provento – secondo le indagini della guardia di finanza e della Squadra mobile di Napoli – di venti anni di malaffare nei quartieri chic di Napoli.

Il profilo del boss Giovanni Alfano

Quindici, in origine. Il clan nasce da una banda di quindici malviventi che – rivela una relazione dei carabinieri della compagnia Vomero del dicembre 1982 – impone il pagamento della mazzetta a commercianti e professionisti e gestisce il lotto nero e le scommesse clandestine, investendone il ricavato in un lucroso traffico di stupefacenti.
Il capo si chiama Giovanni Alfano, ha 25 anni ed è soprannominato Giovanni ’o russo. Il suo braccio destro è Antonio Capuano e ha 27 anni. Le indagini dell’epoca dicono che sono collegati alla Nuova famiglia e che sono spregiudicati e che sono pericolosi. Non guardano in faccia a nessuno, quando c’è da guadagnare qualcosa. E questo lo dimostrano i fatti (e i reati) loro contestati.
Di lì a poco, uno della banda finisce coinvolto nel duplice omicidio di Giuseppe Longo e Guido Merillo, entrambi affiliati alla Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo, e altri due picciotti devono scappare dalla magistratura che li vuole ai ceppi per il sequestro di un ricco commerciante dell’Arenella, tenuto in ostaggio per quindici ore come rappresaglia al rifiuto di una maxi-tangente di 500 milioni di lire, poi ridotta a duecento. Alla fine, il commerciante accetterà quest’ultima offerta, strappando anche la dilazione del pagamento e, cosa più importante, tornando a casa sano e salvo.
Due anni dopo, Alfano si trova ricoverato in un letto d’ospedale con ferite d’arma da fuoco al volto e al petto: è caduto in un agguato in via Pigna. Doveva ammazzare il boss Giacomo Cavalcanti, rischia di morire lui, invece. La sparatoria si verifica verso le 20, tra la folla, a poca distanza dall’ingresso di un cinema. Guarisce dopo un mese di ospedale e, quando ritorna in strada, è a tutti gli effetti un uomo d’onore. Gli anni Novanta lo vedono protagonista della «colonizzazione» criminale del Vomero e della Torretta, dove si stabilisce per un certo periodo a vivere. Il matrimonio con Adele Frizziero gli spalanca le porte del malaffare in uno dei territori più ricchi di Napoli, Mergellina e Chiaia, mentre il cognato, Orlando Frizziero, diventa il suo uomo di fiducia per il traffico di droga nel salotto buono della città.
Le riunioni del vertice del gruppo si tengono in un appartamento a piazza Vanvitelli: la cosca conquista, in poco tempo, anche il controllo di un vasto giro di usura che assicura introiti da capogiro. Nel 1993, Alfano è ricercato da polizia e carabinieri per una sfilza di reati e per una condanna a tre anni di reclusione per racket e porto d’armi. Gli dà la caccia, a quel tempo, il pm Giuseppe Narducci, che ricostruisce le relazioni e gli affari dell’organizzazione in una inchiesta chiamata, appunto, «Operazione Vanvitelli».
I pentiti Antonio Buonocore e Nunzio Perrella rivelano che Alfano ha rapporti con i capi dell’Alleanza di Secondigliano, Gennaro Licciardi, Edoardo Contini e Francesco Mallardo, e con il famigerato Francesco Bidognetti, padrino dei Casalesi.
Il 26 luglio 1997 gli uomini della Squadra mobile lo catturano nella sua abitazione, in via Piedigrotta. È accusato di essere il mandante della sparatoria in cui cade, vittima innocente, Silvia Ruotolo: era ritornato in libertà sei mesi prima, grazie a un’assoluzione. Alfano era stato arrestato, quattro anni prima, in una villetta ad Acciaroli, in provincia di Salerno, mentre si trovava in vacanza con la moglie, i tre figli e un nipote.
Con il padrino in carcere, il clan si scompagina: alcuni killer della cosca decidono di passare dalla parte dello Stato e raccontano anni di attività criminali al Vomero e alla Torretta. Arrivano le prime condanne, per droga (24 anni) e per estorsione (20 anni), a cui si aggiungerà l’ergastolo per l’omicidio della giovane mamma a Salita Arenella.

La storia del clan Alfano

Un’organizzazione camorristica che utilizza metodi di stampo terroristico (un vicequestore della polizia di Stato troppo impegnato sul fronte investigativo diventa un bersaglio da eliminare e un parente di un collaboratore di giustizia muore dissanguato e impiccato, come gli animali, allo stipite di una porta in una masseria a Chiaiano) e che fa affari nei quartieri a più alta densità commerciale di Napoli (Vomero, Arenella, Torretta, Chiaia, Mergellina e Posillipo).
Un’organizzazione – per usare le parole del procuratore aggiunto di Torre Annunziata, Raffaele Marino, ex magistrato della Dda di Napoli e profondo conoscitore delle dinamiche criminali cittadine, «che si modula rispetto alla composizione sociale del territorio di competenza, finendo per operare come un’agenzia di servizi che risolve problemi di natura civilistica: propone, anzi, impone mediazioni, si interfaccia con debitori e creditori, sollecita interventi e chiude, a suo modo, cioè con la violenza e la prepotenza, i vari contenziosi che via via le si prospettano. Addirittura, in un caso, un affiliato minacciò un avvocato perché si trovasse un adeguato risarcimento a una donna che, separatasi dal marito, non era riuscita a impedire la vendita della casa coniugale».
Così, la camorra del Vomero diventa un interlocutore sociale che, se da un lato affama commercianti e imprenditori con il pizzo e l’usura, dall’altro si accredita agli occhi dei cittadini come alternativa rapida ed efficiente alla burocrazia dello Stato.
La vicinanza agli esponenti di maggiore spessore dell’Alleanza di Secondigliano fornisce ai clan dei quartieri collinari (capeggiati, via via, da Giovanni Alfano, Antonio Caiazzo, Luigi Cimmino, Giovanni Totaro) prestigio e potere criminale, come racconta il collaboratore di giustizia Costantino Sarno nell’interrogatorio del 25 agosto 1997: «Il gruppo Alfano-Caiazzo, come ho detto si è costituito dopo la morte di Sergio Vigilante. Naturalmente che loro prendessero il controllo del Vomero era cosa da noi di Secondigliano condivisa, senza il nostro assenso nessuno poteva pensare di controllare una zona di Napoli».
Gli scontri che si susseguono, però, sfuggono alle logiche e alle mappature criminali ordinarie, perché, più che sul fronte esterno, la camorra del Vomero si spacca su quello interno, a causa delle detenzioni cui vengono sottoposti i capi e del lavoro della magistratura inquirente, che ricostruisce trame e identifica personaggi. Tre faide (Alfano contro Caiazzo, Cimmino contro Caiazzo, Caiazzo contro Totaro) e altri piccoli scontri minori indeboliscono la struttura monolitica dell’organizzazione, così da sgretolarla dopo l’omicidio dell’innocente Silvia Ruotolo.
Ricorda Marino, che ha portato a conclusione la quasi totalità delle più complesse indagini sulle bande del Vomero: «Con quel barbaro assassinio, il clan Alfano perde il controllo della situazione, che diventa irreversibile con la decisione di Rosario Privato di collaborare con la giustizia e di svelare i segreti e gli affari illeciti del gruppo».
Privato è la chiave d’accesso al cuore della malavita dell’area collinare, ma i riscontri arrivano da tanti altri collaboratori di giustizia napoletani (Ciro Ruggiero, Salvatore Giuliano, Mario Perrella, Giuseppe Contino, Bruno Rossi, Salvatore Grimaldi, Ciro Castaldo, Giuseppe Fucci, Pasquale Balzano, Massimo D’Amico, Bruno Danese e Franco Albino) e casertani (Domenico Frascogna, Salvatore D’Alessandro, Luigi Diana, Augusto La Torre, Mario Sperlongano e Girolamo Rozzera).
Alcuni rivelano che la storia dei clan del Vomero è peraltro caratterizzata da inquietanti zone d’ombra e connivenze, che porteranno la magistratura a indagare su compiacenti perizie mediche e tecniche che, a diversi livelli, agevolarono i piani criminali dei padrini detenuti, o sotto processo.
È ancora il procuratore aggiunto Raffaele Marino a sottolineare un episodio che vide protagonista proprio il boss Giovanni Alfano, «il quale fu ripreso da un ufficiale di polizia giudiziaria con una telecamera nascosta, mentre nella sua cella allungava la mano che avrebbe dovuto essere paralizzata per ricevere l’ennesima ordinanza di custodia che gli avevamo notificato».
Di simulazioni in carcere per ottenere trattamenti di favore messe in atto da Alfano, ha anche parlato il padrino pentito Luigi Giuliano, che ai magistrati confidò che le malattie invalidanti dei camorristi erano «il frutto di abili simulazioni», a tal punto ben riuscite da aver fatto «ammattire medici e macchinari utilizzati per gli accertamenti diagnostici».
Agli inizi del Duemila, il lavoro di raccolta delle notizie di reato e l’attività investigativa sul territorio da parte delle forze dell’ordine sfociano in alcune maxi-inchieste e in decine di arresti, che decimano le cosche e delineano scenari di alleanze mutevoli, che vedono come garante super-partes le famiglie di Secondigliano, da sempre interessate a mantenere la propria leadership malavitosa su Vomero e Arenella. I magistrati della Direzione distrettuale antimafia partenopea fanno luce su centinaia di episodi di racket (viene minacciato e aggredito finanche l’impresario di Antonello Venditti e Claudio Baglioni in relazione a due concerti, tenutisi negli stadi “San Paolo” e “Collana”) e su una dozzina di delitti, ottenendo pene pesantissime per capi e gregari delle organizzazioni.
L’ultima nota è per i rapporti, accertati anche in sede processuale, con i Casalesi e con l’ala capeggiata da Francesco Bidognetti per la gestione di alcuni discount e, soprattutto, per la guerra di camorra, allora esplosa, tra il sottogruppo di Luigi Cimmino e quello Antonio Caiazzo, che portò all’incriminazione, tra gli altri, di Gianluca Bidognetti per un duplice omicidio.
«Questi gruppi», conclude Marino, «sono entrati sotto il fascio di luce degli inquirenti nel momento in cui le alleanze si sono spezzate e nuovi assetti si sono cercati con il ricorso alla soppressione fisica degli avversari. La lotta contro la camorra del Vomero è durata quasi quindici anni, con risultati importanti».
E pensare che, dalle informative delle forze dell’ordine, si presume che i clan del quartiere più ricco della città fossero composti da non più di quaranta affiliati. Quaranta criminali che hanno tenuto in scacco 119.978 cittadini onesti, quanti ne conta oggi la municipalità Vomero-Arenella.

martedì 1 dicembre 2009

Figli di professionisti amici dei camorristi


La notizia tenne banco sui quotidiani napoletani per un bel po’ di tempo: strani e ripetuti furti nello storico liceo classico “Umberto” sarebbero stati facilitati dalle soffiate di alunni in rapporti di amicizia con figli di pregiudicati e camorristi della Torretta. Un rapporto su cui indagarono, agli inizi del Duemila, non solo l’autorità giudiziaria ma anche l’ufficio scolastico provinciale, sollecitato dalle denunce dei genitori.
Al centro dell’istruttoria c’erano i fascicoli di due alunni, Gianluca e Vincenzo, provenienti da famiglie di professionisti della Napoli-bene, arrestati per lo scippo a una ragazzina di undici anni.
A preoccupare gli inquirenti fu una circostanza, in particolare: Gianluca, che all’epoca dei fatti aveva 18 anni, venne rintracciato e bloccato nell’abitazione di malavitosi legati alla famiglia Frizziero, parenti del quindicenne denunciato, alcune settimane prima, per aver accoltellato un altro studente del Liceo Umberto durante l’occupazione del Liceo.
Il sospetto degli inquirenti era focalizzato sui rapporti di frequentazione tra alcuni alunni dell’“Umberto” e componenti di bande giovanili, estranei all’Istituto, che “vendevano” informazioni sui loro compagni in cambio di denaro o di piccole dosi di droga.
Sulla base delle segnalazioni dei “basisti”, infatti, molti studenti subirono furti di giubbini e occhiali griffati e vere e proprie richieste estorsive per la restituzione di orologi e motorini. Aggressioni che spinsero il dirigente del commissariato San Ferdinando a dirottare una volante davanti all’Istituto, nel cuore di Chiaia, per sorvegliare sui ragazzi al termine dell’orario delle lezioni.
Nelle ultime settimane, infatti, si erano verificate diverse risse tra giovani camorristi della Torretta e gli alunni che cercavano di ribellarsi alle loro intimidazioni.

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La bisca del clan si trovava a pochi metri da un famoso bar della riviera di Chiaia. L’accesso era consentito soltanto ai membri “riconosciuti” della camorra locale. La zona era tranquilla e, per di più, il locale nel quale erano ospitati tavoli verdi, fiches e divanetti era protetto da una anonima insegna da associazione socio-culturale, installata proprio con l’obiettivo di tenere lontani eventuali controlli delle forze dell’ordine.
L’espediente, evidentemente, aveva funzionato fino al 18 settembre 2003, quando gli agenti del commissariato San Ferdinando decisero di fare irruzione in un terraneo in via Fratelli Magnoni, sorprendo – con le carte ancora in mano – nove giocatori, tutti affiliati, all’esito di un controllo al terminale investigativo, al gruppo Frizziero-Esposito-Cirella.
Nel corso delle perquisizione, i poliziotti trovarono diversi mazzi di carte e oltre mille euro in contanti. I frequentatori della bisca, tutti con precedenti penali, vennero denunciati per partecipazione a gioco d’azzardo e il locale sottoposto a sequestro da parte dell’autorità giudiziaria.

I nemici: Dello Russo e Piccirillo


Rosario Piccirillo finisce in manette il 26 luglio 1989 in un lussuoso albergo di Ischia, dove si trova in vacanza con l’ex finanziere d’assalto Ninì Grappone, condannato per il crac miliardario della compagnia di assicurazioni “Lloyd Centauro” e del “Banco di credito campano”.
Nella stanza, gli agenti del commissariato – allertati dalla presenza del pregiudicato sull’isola – trovano dosi di cocaina, duecentocinquanta grammi di hashish e dodici milioni in contanti.
Il giovane – che all’epoca ha 27 anni – è legato al boss di Posillipo Giovanni Paesano e gestisce il traffico di stupefacenti nella zona di Chiaia, in rivalità con la famiglia Frizziero, e il contrabbando di sigarette in collaborazione con il clan di Amedeo Giannoccaro, padrino della Sacra Corona Unita pugliese.
Il suo potere economico cresce grazie al riciclaggio del denaro sporco, su cui si concentrano fin da subito le indagini della magistratura: nell’ottobre 1991, la sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Napoli dispone il sequestro di una gioielleria, in via Ferdinando Galiani, e di uno yacht di dieci metri, battezzato “Topo Gigio”, all’ancora nel porticciolo di Mergellina e utilizzato, secondo l’ordinanza firmata dal giudice Guglielmo Palmeri, per trasportare le bionde a Napoli. Il valore dei beni è di quattro miliardi di lire.
Dieci anni dopo, Rosario Piccirillo torna in galera, insieme a due complici, con l’accusa di usura: un imprenditore finito sul lastrico, perché costretto a pagare il 10 per cento mensile alla banda, decide di denunciare tutto alla magistratura. Le indagini accertano che la riscossione degli interessi avviene attraverso assegni e cambiali o scontando assegni postdatati che vengono ceduti dall’imprenditore in cambio di somme in contanti decurtate degli interessi usurari. Nel corso della perquisizione nell’appartamento di Piccirillo, la polizia trova decine di assegni e cambiali e cinquanta milioni di lire, in contanti, nascosti nel porta-ombrelli.
Tornato in libertà, Rosario Piccirillo, soprannominato ’o biondo, nel luglio del 2005 è coinvolto in una nuova inchiesta sul racket dei pontili turistici a Mergellina. Secondo le accuse della procura antimafia, infatti, tre picchiatori del suo gruppo avrebbero aggredito e minacciato un socio del consorzio di ormeggiatori di via Caracciolo perché rinunciasse a lavorare.
Le inchieste della magistratura sferrano un altro duro colpo alla banda nel dicembre 2008, con l’arresto del fratello del boss, Ciro Piccirillo, e di altri affiliati che hanno chiesto una maxi-tangente di 5mila euro ai commercianti di Chiaia.
Rosario Piccirillo, nel frattempo, ottiene la misura della sorveglianza speciale e lascia il carcere, dove ritorna nell’agosto di quest’anno, dopo il fermo dei carabinieri della stazione del rione Traiano che lo sorprendono, in compagnia di alcuni pregiudicati, all’esterno di un hotel in via Manzoni, dove il padrino di Mergellina aveva eletto domicilio.

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Le prime informative sulla criminalità organizzata nella zona della Torretta, risalenti alla metà degli anni Ottanta, vedono come indiscusso protagonista della scena il boss Mario Dello Russo, soprannominato Marittiello ’o pazzo, braccio destro del padrino di Posillipo, Giovanni Paesano, e suo plenipotenziario nel ricco mercato del traffico di stupefacenti.
Di Dello Russo gli organi investigativi napoletani iniziano a occuparsi in relazione ai festini a base di cocaina della “Napoli-bene” e agli episodi di estorsione ai danni dei commercianti e dei ristoratori di Chiaia, costretti a pagare tangenti salatissime per poter continuare a lavorare.
Il boss è inserito nel sistema camorristico dei Mariano, tant’è che di lui parla – a più riprese – anche la pentita Carmela Palazzo, passata alla storia giudiziaria anticamorra con il soprannome di Cerasella.
Proprio sulla base delle dichiarazioni della donna, Dello Russo viene coinvolto nella maxi-inchiesta del gennaio 1992, condotta dai pm Federico Cafiero De Raho e Maurizio Fumo, e rinviato a giudizio insieme a capi e gregari della malavita dei Quartieri Spagnoli.
La sua posizione processuale si estingue, però, il 15 maggio 1992, quando un commando di killer lo ammazza nei pressi di un distributore di benzina alla riviera di Chiaia; non distante da dove, il 27 novembre 1985, i killer avevano trucidato Alvino Frizziero, padre di Orlando e cognato del padrino del Vomero, Giovanni Alfano. Frizziero aveva iniziato a contendere a Dello Russo e a Rosario Piccirillo, suo giovane affiliato, i traffici illeciti nei quartieri Chiaia e San Ferdinando, riuscendo a imporsi, in particolare, nella vendita al dettaglio dell’eroina e della cocaina.
Al momento dell’agguato, era in libertà, Dello Russo, nonostante due mesi prima fosse finito in manette con l’accusa di tentata estorsione ai danni di un artigiano, a cui la polizia aveva restituito quattro mobili di pregio, da lui realizzati, che erano stati rubati il giorno di Natale di tre anni prima dal suo negozio e ritrovati nell’abitazione del boss alla Torretta.
Il figlio e un complice di Dello Russo avevano avvicinato l’artigiano, mentre questi stava caricando sul suo furgoncino i mobili, e l’avevano minacciato di non riconoscerli nel corso del processo. I mobili erano stati affidati, in attesa del dibattimento, all’artigiano, che per questo motivo era stato autorizzato a prelevarli e a riportarli nella propria bottega.

Il profilo criminale di Orlando Frizziero


Nipote del boss del Vomero Giovanni Alfano, Orlando Frizziero muore per overdose il 22 ottobre 1997 all’età di trentadue anni. È ricercato per rapina, a quel tempo, eppure le informative della Squadra mobile e del commissariato San Ferdinando lo descrivono, da almeno un lustro, come lo spregiudicato capo di una banda di taglieggiatori e spacciatori di droga, che cerca di affermarsi nel panorama criminale cittadino. La sua “roccaforte” è la Torretta, ma per evitare le manette, si nasconde a Fuorigrotta – dove, peraltro, ancora abitano suoi parenti – per alcune settimane.
Un’eccessiva dose di eroina, diranno i medici, gli provoca una crisi che, nel giro di poche ore, lo porta al decesso per arresto cardiocircolatorio. I poliziotti, allertati da una telefonata anonima, lo trovano in un appartamento, privo di sensi, e lo trasferiscono d’urgenza all’ospedale San Paolo, ma ormai è tardi. Il cuore ha cessato di battere e a nulla servono le manovre di rianimazione del personale medico. Alla notizia sul decesso, la struttura sanitaria viene presa d’assalto dai familiari e dagli affiliati e solo l’intervento delle forze dell’ordine riporta alla calma la situazione.
Il primo arresto di Orlando Frizziero porta la data del 1° luglio 1993, quando viene bloccato con l’accusa di tentata estorsione, porto e detenzione abusiva di armi e spari in luogo pubblico. Gli agenti di una volante lo riconoscono quale autore dell’attentato al ristorante “Ciro a Mergellina”, le cui vetrine sono state bersagliate da quattro colpi di pistola.
Frizziero, che all’epoca ha 28 anni, secondo la dinamica ricostruita dall’autorità giudiziaria, ha prima sparato contro la veranda del locale e poi è fuggito a bordo di una Opel Astra, guidata da un complice.
La detenzione nel carcere di Poggioreale dura appena qualche mese, però, perché già dal novembre di quello stesso anno, Orlando Frizziero è ricercato per un nuovo episodio di estorsione, stavolta ai danni di una impresa edile.
La fuga dura esattamente un anno: il 15 ottobre 1994, i poliziotti lo bloccano a pochi metri dall’abitazione in cui si è rifugiato insieme alla famiglia. Lo avvicinano, con discrezione, all’uscita da un taxi e gli chiedono i documenti. Frizziero esibisce una carta di identità contraffatta, ma è un estremo tentativo che non sortisce alcun effetto: uno degli agenti lo riconosce e per lui scattano le manette. Il suo complice già si trovava in galera.
Scarcerato in vista del processo, ritorna alla guida della banda della Torretta e, grazie agli appoggi della mala collinare, intensifica la vendita della droga in zona. Una nuova ordinanza di custodia cautelare in carcere per rapina lo costringe a lasciare il bunker di Chiaia e a trasferirsi a Fuorigrotta, dove muore da latitante.
Dopo la scomparsa di Orlando Frizziero, la famiglia – che conta un seguito tutto sommato limitato, seppur particolarmente feroce – trova comunque il modo di sopravvivere alle inchieste della Direzione distrettuale antimafia di Napoli e alle cruenti lotte con i rivali, riuscendo - nel corso degli ultimi anni - a radicarsi sempre di più sul territorio e a diventare punto di riferimento per gran parte degli affari illeciti che transitano per il centro cittadino. Primo fra tutti il racket delle estorsioni.
L’ultimo dei giovani capi finito ai ceppi è Alvino Frizziero, 22 anni appena, catturato un anno e mezzo fa nell’abitazione di una zia paterna, a Barra. Sfuggito a un agguato in piazza Sannazaro, si era sottratto al provvedimento dell’autorità giudiziaria che lo aveva confinato per due anni in una casa lavoro.

La storia del clan Frizziero


Come quella mala pianta che arriva ad infestare un intero giardino da una zolletta di terra contaminata, così i Frizziero hanno monopolizzato, in silenzio, gli affari illeciti a Chiaia e a Mergellina, partendo dal piccolo rione della Torretta. Di loro parlano, sin dagli anni Ottanta, le informative delle forze dell’ordine che elencano, quartiere per quartiere, le organizzazioni ostili alla Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo. Più che una cosca, è un agguerrito sodalizio familiare, tant’è che nella vita e nella gestione del gruppo – giunto, ormai, alla terza generazione – sono stati coinvolti tutti i parenti, pure minorenni, e finanche la nonna degli attuali capi ha al suo attivo un arresto per la detenzione di una pistola, in casa. Una pistola, evidentemente, di cui si servivano i nipoti.
Ricorda Raffaele Marino, ex sostituto Antimafia a Napoli e attuale procuratore aggiunto a Torre Annunziata: «Dell’esistenza e dell’operatività del gruppo, nato dal matrimonio tra Adele Frizziero e Giovanni Alfano, padrino del Vomero, hanno raccontato diversi collaboratori di giustizia, tra i quali Rosario Privato e Bruno Rossi, che tra l’altro si è autoaccusato dell’omicidio di Alvino Frizziero. Gli affari che controlla sono molteplici e remunerativi: oltre alla vendita di stupefacenti, il racket delle estorsioni (sono costretti a pagare non soltanto attività commerciali e imprese, ma anche i venditori ambulanti del mercatino del weekend), l’usura e il gioco clandestino. E i metodi per convincere le vittime ad assecondare le loro richieste sono brutali. Il 2 maggio del 2006, ad esempio, un estorsore del clan si presenta nel negozio di abbigliamento “Caruso”, che si trova alla Torretta, e di fronte ai tentativi del titolare di ritardare il pagamento di una maxi-tangente da 50 milioni di lire, lo afferra per il collo e gli svuota addosso una intera bottiglia di plastica contenente benzina, aggiungendo: “Allora non avete capito niente… Dovete preparare i soldi che vi abbiamo chiesto, se non lo fate la prossima volta che torniamo vi spariamo proprio…”».
L’aria di omertà e di violenza che si respira in zona e i rapporti con il clan Alfano concorrono, negli anni, a consolidare il potere criminale del gruppo, che non esita a mettere in pratica, sul proprio territorio, atti di vero e proprio terrorismo. Racconta il pentito Rosario Privato, a proposito della faida in atto alla Torretta tra il vecchio gruppo di Mario Dello Russo e i Frizziero: «Un attentato è stato effettuato nel 1991 quando Antonio Caiazzo e Gennaro Formigli hanno collocato nell’auto di Peppe ’a viola (Giuseppe Ceglia, appartenente alla cosca rivale, ndr) una bomba. La notte fu collocata la bomba ed il pomeriggio successivo Giovanni Alfano, a bordo di un’autovettura nella quale si trovava con Alessandro Desio, premette il telecomando che fece esplodere l’autovettura alla Torretta. Peppe ’a viola saltò in aria con tutta la macchina ma rimase solo ferito».
Per un certo periodo lo stesso boss Alfano si trasferisce alla Torretta per seguire meglio gli affari illeciti. È ancora Privato a descrivere quegli anni: «Quando Alfano esce dal carcere, viene sottoposto agli arresti domiciliari; in virtù di quel fatto che noi avevamo una rottura interna, Alfano si fa trasferire il domicilio degli arresti domiciliari a vico Piedigrotta… siamo scesi alla Torretta perché avevamo questa rottura... io sono andato ad abitare alla Torretta dopo che è uscito Alfano, dopo qualche mese, un mese e mezzo, penso di essere andato; sì, questo arco di tempo penso che sia trascorso. Andai ad abitare alla Torretta in virtù del fatto che mi era stata notificata la carta precettiva, quindi dovevo recarmi al Commissariato una volta alla settimana per andare a firmare. Quindi, essendoci una scontro in atto tra il gruppo Alfano e il gruppo Caiazzo, non mi sentivo sicuro a recarmi alla questura del Vomero, quindi spostai il mio domicilio alla Torretta, anche perché poi Alfano era uscito dal carcere, quindi stavamo vicini e lui mi procurò questa abitazione, mi sembra che la signora faceva di cognome Trace, ora non lo ricordo, può essere anche che posso confondere il cognome, ma era un'amica di famiglia di Alfano... demmo dieci milioni alla signora per lasciare la casa e poi noi facemmo un contratto di affitto dal proprietario, ma dieci milioni li demmo alla signora, se non erro mi sembra che me li diede proprio Alfano... ».
«I Frizziero», prosegue Raffaele Marino, autore delle inchieste che hanno portato all’azzeramento del clan, «sono in rapporti di collaborazione con molte altre organizzazioni della città: i Di Biasi, ad esempio, e i Terracciano dei Quartieri Spagnoli». Il motivo è semplice, spiega il magistrato: «A Mergellina e nel quartiere di Chiaia convogliano gli interessi di quasi tutte le cosche più importanti della città, i Misso, i Giuliano, i Sarno, attirate dai guadagni assicurati dalla gestione dei pontili turistici e dal racket degli ormeggi».
La contrapposizione con l’Alleanza di Secondigliano, di cui per un periodo è stato referente Rosario Piccirillo, soprannominato ’o biondo, è particolarmente feroce, dal momento che i Frizziero riescono a infiltrarsi anche a Fuorigrotta, che diventa una sorta di seconda base operativa del gruppo. Come, peraltro, conferma il collaboratore di giustizia Massimo Di Stasio ai pm Antimafia: «Ricordo di avere accompagnato una volta Fausto Frizziero a Fuorigrotta, sotto a un palazzo situato in quella strada posta sulla destra non appena si esce dalla grotta; è una strada che ha dei paletti. Lì Fausto Frizziero andò a prendere della cocaina… La droga veniva spacciata alla Torretta da un ragazzo soprannominato ’o bliz che sta alla Torretta e da un altro ragazzo che ha un negozio di fruttivendolo alla fine del Corso V. Emanuele, di fronte alla stazione della Metropolitana di Mergellina. Non ricordo il nome di questo ragazzo, ricordo però che il negozio di frutta era del suocero… Nell’occasione in cui io mi recai a Fuorigrotta ad accompagnare Frizziero Fausto a prendere la cocaina ebbi in regalo da lui 2-3 grammi di cocaina per mio uso personale. Anche in altre occasioni ho avuto da loro, in regalo, piccoli quantitativi di cocaina in quanto loro erano sempre forniti e ne facevano anche uso».
Dopo un quarto di secolo di soffocante potere criminale, il clan Frizziero è stato quasi completamente sgominato: le inchieste della Dda hanno portato in carcere tutti gli esponenti di maggiore spicco, alcuni dei quali hanno incassato severissime sentenze di condanna per gravi reati.

mercoledì 25 novembre 2009

Agguato a San Pietro a Patierno, uccisi capozona e suo figlio

Gennaro Sacco, 58 anni, considerato il capozona del clan camorristico Sacco-Bocchetti, ha perso la vita in un agguato a San Pietro a Patierno, quartiere della periferia di Napoli. Nell'imboscata è rimasto gravemente ferito anche Carmine Sacco, il figlio ventinovenne del boss. Il ragazzo, trasportato in gravissime condizioni all'ospedale San Giovanni Bosco, è morto poco dopo il ricovero.
I due erano rispettivamente zio e cugino di Costanzo Apice, il giovane killer ripresa da una telecamera durante un'esecuzione al rione Sanità del maggio scorso e arrestato pochi giorni fa. Il giovane avrebbe manifestato l'intenzione di pentirsi, forse questo agguato è un avvertimento a lui.

IL VIDEO CHE HA INCASTRATO APICE

Secondo quanto ricostruito dai carabinieri, i due Sacco erano a bordo di una moto, guidata da Carmine, quando i killer, alle loro spalle, forse anche loro a bordo di una moto, hanno iniziato a sparare. Hanno colpito alla testa Gennaro Sacco. Il figlio ha tentato la fuga ma, forse già ferito, si è schiantato con la moto contro un muro. Ha continuato la fuga a piedi ma è stato raggiunto dai killer che gli hanno sparato contro altri colpi di arma da fuoco.
Il clan Sacco-Bocchetti è attivo principalmente a San Pietro a Patierno; gli affari sono concentrati nel settore della droga.
(tratto da www.repubblica.it)

Sequestro record al clan dei Casalesi

Agenti della Direzione investigativa antimafia di Napoli hannio eseguito in tutta Italia sequestri patrimoniali a carico di persone ritenute riciclatori per conto del clan dei Casalesi. L'operazione e' denominata "Faraone". I beni - nella disponibilita' attraverso prestanome delle famiglie Belforte, Bidognetti e Zagaria - ammontano a oltre 120 milioni di euro, di cui 2 milioni in contanti.
Molti degli imprenditori destinatari della misura di sequestro in passato erano gia' stati coinvolti in indagini di camorra e persino destinatari di ordini di custodia cautelare.
In particolare, a Salvatore Partaglione, ritenuto vicono al clan Belforte, e' stata sequestrata in Sardegna una villa di 2mila metri quadrati a Porto San Paolo, in costruzione.
Sequestro di una villa anche per Luigi Tamburrino, considerato vicino alla fazione del clan dei Casalesi che fa capo a Francesco Bidognetti, il boss detenuto. Inoltre, 39 appartamenti, 43 garages, 17 societa', 52 rapporti finanziari e una villa con parco e piscina di quasi 5mila metri quadrati in una zona panoramica di Caserta, localita' Vaccheria.

martedì 24 novembre 2009

Il boss Panico tenta di togliersi la vita

Con una busta di plastica in testa avrebbe tentato di togliersi la vita Antonio Panico, capo dell'omonimo clan camorristico, detenuto in regime di 41 bis (il cosiddetto carcere duro) nel penitenziario romano di Rebibbia. Negli ultimi tempi Panico, 51 anni, arrestato nel 2006, si è lamentato per le difficoltà di incontrare la moglie, Concetta Piccolo, anch'essa detenuta a Rebibbia femminile: le nuove misure sul 41 bis hanno reso più severe le procedure per i colloqui con i familiari. Il boss avrebbe tentato il suicidio venerdì scorso, ma la notizia si è appresa in giornata. A salvare la vita a Panico è stato il tempestivo intervento degli agenti penitenziari.

Sequestrati beni a clan casertani

I carabinieri del comando provinciale di Caserta hanno sequestrato beni per un valore di 50 mln appartenenti al clan Farina-Martino-Micillo. Si tratta di beni immobili, mobili, quote societarie e conti correnti ritenuti nelle disponibilita' di capi e gregari del clan camorristico operante a Maddaloni, comune poco distante da Caserta, e nelle zone limitrofe. Alcuni dei beni sequestrati apparterebbero a elementi legati al clan Casalesi e ai Belforte di Marcianise.

lunedì 23 novembre 2009

Il boss Michele Zaza


Figlio di un pescatore di Procida, Michele Zaza, ’o pazzo, diventa il più importante contrabbandiere di sigarette d’Europa tradendo gli antichi soci del clan dei Marsigliesi e passando sotto la protezione di Cosa nostra siciliana, che lo ripaga dei soldi guadagnati e della lealtà innalzandolo al rango di uomo d’onore. Di lui parlerà con i giudici del pool antimafia di Palermo anche il pentito Tommaso Buscetta.
Il quartier generale di Zaza è nel budello di Santa Lucia, da dove comanda una flotta sterminata di motoscafi blu che inondano le coste della Campania e del Sud Italia di decine di migliaia di casse di tabacco fuorilegge.
Il suo non è il cliché del mafioso silenzioso, che vive nell’ombra: si fa costruire due ville faraoniche, a Posillipo e a Beverly Hills, e viaggia tra la Francia e gli Stati Uniti. Rilascia interviste - l’ultima, a un giornalista dell’agenzia Ansa, in Costa Azzurra, nel 1991, gli offre l’opportunità di sottolineare parole di stima per il giudice Giovanni Falcone («È un grand’uomo») e di ironia per i politici («Se nasco un’altra volta mi butto in politica») – e veste i panni dell’imprenditore chiacchierato perseguitato dai magistrati: «Facevo il commerciante, perché i carichi di sigarette li pagavo e facevo vivere tante di quella gente che mi chiamavano l’Agnelli del Sud. Ci sono ancora tante persone che a Napoli mi vogliono bene».
Arrestato una prima volta a Roma con indosso un giubbotto antiproiettile e un miliardo di lire, tra banconote e assegni, arrotolato nelle tasche, a Capodanno del 1984 evade dalla clinica “Mater Dei” di Roma per rifugiarsi in Francia. Catturato prima di imbarcarsi con la famiglia su un aereo per la California, torna in libertà per gravi problemi di salute. Nel 1989, i poliziotti lo bloccano a Villeneuve Loubet, tra Nizza e Marsiglia, con l’accusa di contrabbando e corruzione. La libertà, due anni dopo, gli costa una cauzione di 220 milioni, ma la sua situazione processuale è definitivamente compromessa. I magistrati napoletani lo accusano di traffico internazionale di droga, associazione mafiosa e duplice omicidio. Nel 1994, viene estradato dalla Francia e rinchiuso nel carcere di Regina Coeli. Michele Zaza ’o pazzo muore per un infarto il 18 luglio di quello stesso anno al Policlinico “Umberto I”, dov’è stato trasferito due giorni prima per una serie di accertamenti.

Il leopardo nascosto nel garage del boss


La leggenda dei vicoli che lo vuole al guinzaglio del padrone è certamente fantasia, ma ciò che apparve agli occhi increduli dei poliziotti quel 17 marzo di undici anni fa non era affatto frutto di un’allucinazione, o di una svista. In una gabbia, sistemata nel garage del boss Vincenzo Mazzarella, in via Murialdo, a Poggioreale, ondeggiavano le forme sinuose di un leopardo. Impossibile sbagliarsi: i ruggiti di disapprovazione per la quiete turbata dall’irruzione delle forze dell’ordine indicavano senza ombra di dubbio la presenza del principe della savana, di sicuro poco abituato ai visitatori in divisa. Il predatore era l’animale da compagnia del capo della potente famiglia malavitosa dell’area orientale.
Al ritrovamento del felino, femmina e di grossa taglia, gli agenti di una “volante” arrivarono quasi per caso, inseguendo tre giovani fuggiti alla vista del lampeggiante. Due di questi, un 26enne e un 24enne, dopo una corsa di un centinaio di metri, si rifugiarono nell’edificio, nel quale abitano altri parenti del padrino. Erano gli addetti alla custodia e all’alimentazione dell’animale, tenuto peraltro in pessime condizioni igienico-sanitarie.
Durante i controlli nel garage, i poliziotti furono raggiunti dalla moglie di Vincenzo Mazzarella e dal nipote, che cercò inutilmente di giustificare il possesso del predatore, dichiarando che era stato acquistato dallo zoo di Roma per sette milioni di lire, ma di non poterlo dimostrare perché la documentazione sanitaria era ancora in possesso del giardino zoologico. Anche per lui scattò la segnalazione all’autorità giudiziaria. Il leopardo finì nelle gabbie, ben più sicure, dello zoo di Napoli, dove – un paio di anni dopo – l’avrebbe raggiunto il leone di Raffaele Bambù, capozona dei Contini. Un leone chiamato Simba.

Gli altri fratelli


Vero erede dello zio, Michele Zaza, Ciro Mazzarella, ’o scellone, più che un camorrista è un broker del contrabbando. Tant’è che non ha un suo clan, come invece i fratelli Vincenzo e Gennaro, e fin da subito si allontana da Napoli per arricchirsi con il commercio delle bionde sulle rotte internazionali che uniscono, in un unico triangolo, il Marocco, il Montenegro e la Svizzera.
Le prime informazioni sul boss risalgono al 1974, quando viene identificato durante un summit tra uomini d’onore in un albergo del lungomare. Tre anni dopo, presiede un vertice tra contrabbandieri napoletani e mafiosi siciliani in un circoletto di Santa Lucia. Nel 1978 è in compagnia del padrino di Cosa nostra Stefano Giaconia all’aeroporto di Capodichino, ma riesce a evitare l’arresto.
Nell’aprile del 1981 evade dall’ospedale Cardarelli, dov’è stato ricoverato in rianimazione dopo un agguato, calandosi dalla finestra di un bagno. Lo arresta, un anno dopo, il vicequestore Antonio Ammaturo, stanandolo in un appartamento di San Giovanni a Teduccio. Nel 1983 viene coinvolto nel “processo dei 101” dal giudice Arcibaldo Miller insieme a Luigi Giuliano e Carmine Giuliano, Luigi Vollaro e Carlo Biino, ex luogotenente di Raffaele Cutolo passato con la Nuova famiglia.
Nel settembre del 1993, la Squadra mobile di Napoli lo cattura a Lugano, in Svizzera, dove Mazzarella vive in una villa di lusso sulle colline di Viganello. È inseguito da un mandato di cattura richiesto dai pm Paola Ambrosio, Luigi Bobbio e Lucio Di Pietro per associazione per delinquere. In Svizzera ha sede anche la sua società di import-export, la “Gestex Sa”, che secondo gli investigatori è l’ombrello di copertura di affari illeciti in mezzo mondo. Afflitto da problemi cardiaci, Ciro Mazzarella tornerà più volte in libertà (e in carcere), fino all’ottenimento degli arresti domiciliari, per motivi di salute, a Roma, dove tuttora si trova. La sua ultima fuga all’estero è stata in Spagna.
Diverso, invece, è il profilo di Gennaro Mazzarella, soldato della Nuova famiglia negli anni Ottanta e protagonista di due spettacolari fughe (l’una riuscita, l’altra no): la prima, nel novembre del 1985 dall’ospedale Monaldi; la seconda a nuoto, nelle acque del Borgo marinari inseguito dai poliziotti che lo bloccano, dopo parecchie bracciate, al largo del Castel dell’Ovo.
Nell’agosto del 1998, viene rintracciato in un residence extralusso a Porto Banus, Marbella, dove il soggiorno quotidiano costa dieci milioni di lire. È inseguito da una condanna a cinque anni per una rapina a un portavalori compiuta quattro anni prima a Venezia. Altre ordinanze di custodia cautelare si susseguono negli anni, soprattutto per traffico di droga, in accordo con la famiglia Giuliano di Forcella, e per usura; accuse che lo trattengono in carcere, mentre indagini patrimoniali particolarmente accurate della polizia e della guardia di finanza portano al sequestro di beni per svariati milioni di euro.
Un altro fratello, Salvatore Mazzarella, impiegato comunale incensurato e lontano dalle illogiche dinamiche criminali, viene ammazzato per vendetta nel maggio del 1995 da un killer 17enne, sorpreso dai poliziotti al momento di sparare il colpo di grazia alla testa.

Il boss Vincenzo Mazzarella


La traversata nel tempestoso mare del crimine di Vincenzo Mazzarella inizia una calda serata di luglio del 1988 a bordo di un traghetto per Ischia, dove i poliziotti lo arrestano per droga.
Il suo nome compare già da alcuni anni nelle informative delle forze dell’ordine che indagano sulla Nuova famiglia, il maxi-cartello criminale che raggruppa le cosche anticutoliane, a Napoli e in provincia, e combatte una guerra senza esclusione di colpi contro la Nuova camorra organizzata.
Nipote del boss Michele Zaza, contrabbandiere fatto uomo d’onore dalla commissione palermitana di Cosa nostra, Vincenzo Mazzarella affianca alla “classica” attività del commercio del tabacco fuorilegge, cui si dedica la quasi totalità della sua famiglia, affari ben più rischiosi e remunerativi: il racket delle estorsioni, l’usura e, soprattutto, il traffico di droga.
Agli inizi degli anni Novanta, sposta il suo quartier generale da via Comunale Ottaviano (San Giovanni a Teduccio) al rione Luzzatti (Poggioreale). Qui vive barricato in un appartamento difeso come una banca: telecamere a circuito chiuso e porte blindate proteggono lui e i suoi familiari.
Tra brevi detenzioni e lunghe latitanze, il potere criminale del padrino, soprannominato ’o pazzo, cresce velocemente, tanto da iniziare a infastidire anche l’Alleanza di Secondigliano.
Inseguito da un mandato di cattura per associazione camorristica, Vincenzo Mazzarella viene arrestato il 5 luglio del 1999 a Nizza. La Squadra mobile di Napoli lo intercetta in un lussuoso residence dell’hotel “Siracuse”, a Villeneuve Luobet. Insieme a lui, in vacanza in Costa Azzurra, gli agenti trovano anche il killer di fiducia del gruppo, Ciro Giovanni Spirito, allora venticinquenne, ricercato per associazione camorristica e omicidio, la nuora Marianna Giuliano e il figlio Michele, che il mese dopo finirà in manette con l’accusa di aver ammazzato un pregiudicato.
L’estradizione per il capoclan avviene in tempi record: il 27 gennaio del 2000, Vincenzo Mazzarella è consegnato alle autorità italiane all’ex valico di Ponte San Luigi, dove si raduna un piccolo esercito di forze dell’ordine per la scorta. Ad attenderlo ci sono i poliziotti di Ventimiglia e un elicottero dei carabinieri, che sorveglia dall’alto le operazioni.
Nel 2002, la situazione processuale di Mazzarella si complica ulteriormente, perché la Direzione distrettuale antimafia di Napoli lo accusa di droga e armi. In particolare, i pm contestano al padrino di aver rifornito di cocaina ed eroina il clan Giuliano e di aver trattato l’acquisto di una partita di kalashnikov. Al centro dell’inchiesta ci sono le dichiarazioni di alcuni collaboratori della banda di Forcella: Raffaele e Guglielmo Giuliano, Fabio Riso e Pasquale Avagliano.
Il 23 luglio di quello stesso anno arriva il colpo di scena: la riduzione della condanna in Appello da undici a sei anni gli spalanca le porte del carcere, dove ritorna soltanto un mese e mezzo dopo, grazie al blitz della polizia che lo scova in un appartamento di San Sebastiano al Vesuvio. Era ospite di una coppia di vecchi contrabbandieri.
Ritornato in libertà nel 2004, si dà alla latitanza all’estero, grazie a una soffiata che lo avverte di un nuovo provvedimento giudiziario nei suoi confronti. Viene identificato e arrestato il 17 dicembre 2004 all’interno del parco Eurodisney, a Parigi. All’arrivo degli uomini della squadra mobile, il boss si trova in auto e sta incassando del denaro da tre senegalesi, uno dei quali in possesso di passaporto diplomatico.
I pm Beatrice, Narducci e D’Avino lo accusano di una sfilza di reati che da allora lo tiene dietro le sbarre, in regime di carcere duro.

La storia del clan Mazzarella

Da borgo di pescatori, San Giovanni a Teduccio diventa, a metà degli anni Settanta, il centro nevralgico del contrabbando internazionale di sigarette: con la crisi delle aziende conserviere e la riduzione di commesse per la locale sede della Cirio – che fin dagli anni Trenta offre lavoro agli abitanti della zona -, il crimine diventa l’unica e solida fonte di sostentamento per i residenti.
È una storia che può apparire vecchia, ma purtroppo vera.
Comincia, per prima, la famiglia Zaza a cui succedono, nel corso di un decennio, i nipoti Vincenzo, Gennaro e Ciro Mazzarella, al seguito dei quali s’ingrossa, di anno in anno, un esercito senza nome di disperati e disoccupati, sbandati e tossici che cercano la ricchezza facile senza troppa fatica. Molti di loro finiranno in carcere e altri, più sfortunati, in una cassa di legno, sottoterra.
L’espansione dei traffici illeciti – dal commercio delle bionde si passa ben presto all’usura e alle truffe – comporta una corrispondente espansione territoriale che si sviluppa seguendo i vicoli bui che, dall’area orientale, portano al cuore della città: Vincenzo Mazzarella si insedia nel rione Luzzatti, a Poggioreale, mentre il fratello Gennaro inizia a controllare il business del malaffare nella zona del Mercato e del Pallonetto di Santa Lucia, per arrivare fino a Chiaia e alla Torretta. Con loro ci sono parenti e amici d’infanzia che vanno a formare gli organi direttivi del clan.
L’ingresso nei ranghi della Nuova famiglia e la vicinanza dei Mazzarella alle cosche mafiose siciliane (ne parleranno pentiti del calibro di Antonino Calderone, Francesco Marino Mannoia, Gaspare Mutolo) incrementano gli utili del clan, che a metà degli anni Ottanta trova una sconosciuta e gigantesca forma di guadagno: il traffico di droga.
Per meglio gestire il business, i Mazzarella stringono accordi con i Giuliano di Forcella, finendo per inglobarli sul finire degli anni Novanta e sostituirli alla guida del rione, con i Misso della Sanità, con i Sarno di Ponticelli e con i trafficanti del network camorristico Di Lauro di Scampia.
La piccola famiglia criminale, nata e cresciuta all’ombra del padrino Michele Zaza, diventa così una delle realtà delinquenziali più pericolose e agguerrite del capoluogo, con interessi legali e paralegali nel settore alimentare, nell’abbigliamento e nell’edilizia.
L’espansione territoriale procede, infatti, non solo in direzione del centro di Napoli, dove si avverte la mancanza degli storici gruppi, spazzati via dalle inchieste antimafia, ma anche e soprattutto in provincia; i soldati dei Mazzarella iniziano una lenta e inarrestabile colonizzazione nel Vesuviano (Marigliano, Mariglianella, Brusciano, Castello di Cisterna e Pomigliano d’Arco) sulla quale, da qualche anno a questa parte, la magistratura sta indagando con crescente incisività, e in alcune regioni del Centro (Umbria e Abruzzo).
L’ombra della famiglia di San Giovanni a Teduccio si allunga su una sostanziosa fetta del malaffare cittadino (suoi referenti si trovano anche a Fuorigrotta e Bagnoli) tanto da suscitare la furia omicida dell’Alleanza di Secondigliano, che ingaggia una guerra senza quartiere per farla sparire dalla mappa della malavita organizzata della Campania. Una battaglia estenuante, che porterà su Napoli l’attenzione della stampa nazionale e internazionale.
Sul fronte interno, la cosca dei Mazzarella deve respingere gli attacchi sferrati dai Rinaldi, ex alleati cui è legata anche da vincoli di parentela, che controllano il rione Villa e alcuni territori al confine con Barra. La posta in gioco è sempre una: il controllo del mercato della droga.
La doppia contrapposizione armata provoca una lunga scia di sangue che, con tutta probabilità, non è ancora terminata, visti gli ultimi sviluppi. Due dati fanno riflettere sulla brutalità di questo conflitto: dal 9 al 18 febbraio 1998 si contano sull’asfalto dieci morti ammazzati in dieci giorni; mentre dal 2 al 13 giugno 2000 sono tredici i cadaveri raccolti tra nell’area orientale della città. Gli agguati, gli attentati e le intimidazioni – ferimenti, gambizzazioni – continuano per settimane e settimane.
Sul finire degli anni Novanta, gli uffici investigativi registrano una prima riorganizzazione del clan riguardante il profilo finanziario. Sottogruppi dei Mazzarella si trasferiscono nel Comasco, con l’obiettivo di trasferire, in conti cifrati in Svizzera, i soldi – due miliardi di lire alla settimana – incassati con il contrabbando di sigarette nel nord Italia. Tre fiduciari della banda camorristica saranno identificati e arrestati e, da allora, i canali di esportazione del denaro sporco prendono altre strade.
Ma quasi tutte le proiezioni internazionali della famiglia sono oggetto di indagine dell’Interpol e della Dia, che individuano “cellule” del clan in Spagna, in Montenegro e in Francia, dove – peraltro – trovano rifugio i capi costretti alla fuga dalle inchieste dell’autorità giudiziaria e dalla caccia all’uomo scatenata dai sicari rivali.
L’incessante azione delle forze dell’ordine e della procura antimafia, negli ultimi anni, hanno demolito il potere militare della cosca – come dimostrato dai pentimenti di alcuni dei suoi esponenti di maggiore spicco – e ridimensionato quello economico, grazie alle indagini patrimoniali che hanno portato al sequestro e alla confisca di ingenti patrimoni illegali, intestati a prestanome ma nelle disponibilità dei capicamorra e dei loro parenti.
Da recenti inchieste, è emerso che dal solo racket delle estorsioni a Forcella e alla Maddalena – commesso finanche nei confronti di poveri venditori ambulanti, costretti a pagare 70 euro a settimana, e dei commercianti cinesi – il clan incassa oltre 200mila euro al mese, parte dei quali serve a stipendiare gli affiliati detenuti mentre la restante porzione viene investita in attività lecite, come pizzerie, ristoranti e Internet point.
Che il clan, dopo gli arresti e le condanne pesantissime che hanno di fatto decapitato l’organizzazione, sia in difficoltà emerge dagli atti di una indagine del 2006 a carico delle paranze di estorsori dei Mazzarella.
In una intercettazione, infatti, si ascolta un commerciante lamentarsi al telefono con un amico, a proposito dei rastrellamenti effettuati dagli emissari della famiglia: «Il fatto è che questi vedono fare un buco in mezzo alla strada? Vanno lì e vogliono 100 euro. Fermano un cantiere la settimana scorsa, hanno fermato un cantiere per 200 euro al mese, è stato due giorni sopra ad un cantiere per avere 200 euro, siamo proprio alla fine...».

sabato 21 novembre 2009

Simba, il leone del boss Brancaccio


Quei ruggiti, nel cuore della notte, sono inspiegabili per gli abitanti di via Piazzolla al Trivio. Echi lontani che riportano a ben altre praterie che non quelle di cemento e lamiere al confine tra i quartieri Arenaccia e Poggioreale. Ruggiti che provengono dal giardino di Raffaele Brancaccio, soprannominato Bambù, camorrista e orgoglioso proprietario di Simba. Simba è un leone di tre anni, pesante un quintale e mezzo, che vive in una gabbia di appena quattro metri, da cui accede – attraverso uno stretto corridoio – a un piccolo vano coperto, nel quale può trovare riparo dalle intemperie.
Lo “scovano” i carabinieri in collaborazione con le guardie venatorie della Lipu. È il 23 marzo del 1998 e, a quel tempo, il padrone di casa è detenuto, perché sospettato di essere uno dei prestanome del boss Edoardo Contini, nonché amministratore unico di un impero finanziario di decine di miliardi di lire. A sostituirlo, in funzione di guardiano della villa, è proprio il re della giungla.
A poca distanza dalla gabbia del leone, i militari trovano anche una voliera con uccelli rarissimi e altri esemplari di animali imbalsamati. Non una novità, tant’è che quattro anni prima, nel corso di un analogo controllo, Brancaccio – che a proposito del leone dirà ai magistrati di averlo avuto in regalo e di essere stato impossibilitato a separarsene – viene sorpreso mentre alleva un Ara Macao, una specie di pappagallo in via di estinzione. Nella sua villa in stile liberty – confiscata e destinata dal Comune di Napoli a sede di un’associazione di volontariato – il boss, in passato, aveva allestito un vero e proprio zoo personale, con tanto scimmie e serpenti.
Simba, il leone del boss, morirà undici anni dopo nello zoo (ufficiale) di Napoli.

***

Rapporti antichi, iniziati al tempo del «signore della droga», Pablo Escobar, e coltivati da una sponda all’altra dell’Atlantico: hanno toccato anche Medellin, in Colombia, le indagini sui colossali traffici di cocaina gestiti, fin dal principio degli anni Novanta, dal clan Contini.
In due distinte inchieste, risalenti al 1991 e al 1997, gli inquirenti scoprono che i narcos dell’Arenaccia acquistano la droga dai cartelli sudamericani e la importano in Campania, passando per il Belgio. Mezza tonnellata di cocaina all’anno, secondo le informative. Quanto basta per trasformare la banda di Edoardo ’o romano in una perfetta macchina da soldi, che moltiplica per dieci, venti, trenta la puntata iniziale.
A coordinare l’attività, a quel tempo, è il numero due del gruppo, Giuseppe Scuotto, che sarà trucidato in strada, a corso Novara, nel maggio del 2000. Lo sostituirà, qualche anno dopo, un trafficante taciturno, che abita nella zona di via Cupa dell’Arco, a Scampia. Un criminale arrivato ai vertici della potentissima famiglia Di Lauro: Raffaele Amato, il futuro capo degli scissionisti di Secondigliano.

I "numeri due" del clan Contini


La forza di un clan si misura, anche e soprattutto, con la capacità di generare nuovi capi, in grado di reggerne le fila durante l’assenza forzata dei padrini storici.
La banda del Vasto-Arenaccia, per lunghi periodi, è stata guidata da Patrizio Bosti, cognato del capoclan Edoardo ’o romano e suo uomo di fiducia.
Libero, una prima volta, nel 1996 per un permesso premio, torna in galera dopo una rocambolesca latitanza, conclusasi nel marzo del 2000 in un casolare nel Giuglianese, dove vive protetto dai Mallardo. Legato sentimentalmente, per un breve periodo, a Celeste Giuliano, è l’artefice del riavvicinamento tra la cosca di Forcella e l’Alleanza di Secondigliano, che chiude una delle pagine più cruenti delle faide di camorra a Napoli, con oltre quindici morti ammazzati.
Uomo di mediazione più che di guerra, ottiene la libertà nel 2005, per decorrenza dei termini di custodia cautelare in carcere. Il nuovo mandato di cattura per camorra, racket e droga, lo costringe alla fuga, che si conclude il 10 agosto del 2008 in un ristorante di Plaja de Aro, in Spagna.
È a tavola con una quindicina di persone, quando i carabinieri e la Guardia Civil gli chiedono i documenti. La carta di identità contraffatta non inganna gli investigatori, ai quali Bosti si rivolge con queste parole: «Siete stati bravi». E consegna i polsi.
In tasca, il padrino ha 24mila euro in contanti, in banconote da 500, e le chiavi della sua Audi R8, parcheggiata poco distante. Nel frattempo, nei suoi confronti è maturata la condanna a 23 anni di carcere per il duplice omicidio dei fratelli Giglio, che si inserisce proprio nello scontro con i Giuliano di un decennio prima.
Altro cognato di Edoardo Contini con i “galloni” di vice è Salvatore Botta, una delle menti finanziarie dell’organizzazione. Finisce in cella, una prima volta, nel dicembre del 1997, mentre si trova in un ristorante, a Bacoli, con la sua convivente. Il suo lavoro ufficiale è portantino dell’ospedale Vecchio Pellegrini, ma le informative delle forze dell’ordine lo descrivono come un malavitoso abituato agli abiti firmati e alle auto costose. Tra il marzo e il maggio del 1992, a Botta vengono sequestrati beni mobili e immobili per un valore di oltre sette miliardi di lire, tra cui una villa bunker di tre piani con quindici stanze, sei bagni, marmi pregiati e giardino (che sarà confiscata dal Tribunale e destinata a ospitare il centro della Protezione civile e la polizia municipale del quartiere) e una quindicina di vetture di grossa cilindrata. Salvatore Botta è in carcere dal 2002.
C’è infine Paolo Di Mauro, reggente dei Contini nel quartiere di Poggioreale, al confine con il bunker dei Mazzarella: braccato dal 2002 dalle forze dell’ordine, è inserito nello speciale elenco del Viminale dei ricercati più pericolosi del Paese. Deve espiare 24 anni di reclusione e, dal maggio del 2007, le ricerche sono state estese a livello internazionale.

I "magliari" del clan Contini


Una struttura economica occulta, che vale almeno 300 milioni di euro. È il polmone finanziario dell’Alleanza di Secondigliano che la polizia di Napoli, su disposizione del pm Antimafia Filippo Beatrice, fa emergere nel corso di un lungo lavoro investigativo, che culmina con una quarantina di arresti e svariati provvedimenti di sequestro di decine di aziende e società.
L’organizzazione è modellata come un consiglio di amministrazione, in cui siedono per conto degli “azionisti” rappresentanti dei vari gruppi criminali dell’area nord: Licciardi, Di Lauro e Contini.
Il gruppo che fa riferimento al padrino Edoardo ’o romano è tra i più agguerriti, in circolazione, grazie a una estesa rete di contatti nazionali e internazionali che fornisce assistenza logistica ai magliari, venditori di merce al dettaglio, e agli “spalloni”, coloro che trasportano valuta estera provento di attività illecite in indumenti per farla arrivare in Italia. Le cellule commerciali della cosca del Vasto-Arenaccia sono operative in tutto il mondo: Francia, Svizzera, Grecia, Stati Uniti, Canada e Australia. I magliari del clan Contini sono veri e propri specialisti nel piazzare, a prezzi da occasione, materiali contraffatti o con marchi simili a griffes famose, che facilmente possono trarre in inganno gli acquirenti stranieri. Le indagini hanno accertato, ad esempio, che veniva riprodotta la testa di Gorgone su capi di abbigliamento per far credere ai clienti che si trattasse di prodotti firmati “Versace”, mentre macchine fotografiche prodotte in Cina, con la scritta Canon Matic, servivano a richiamare il marchio della multinazionale Canon.
Nel corso dell’inchiesta sui magliari, è stato anche accertato che Edoardo Contini ha soggiornato per alcune settimane a Lione, in Francia, dove ha incontrato i propri uomini di fiducia per una riunione di coordinamento sulle varie aree commerciali. In una conversazione intercettata alle 10.20 del 3 dicembre 2001, infatti, due affiliati al clan discutono in una Fiat Seicento di affari e vacanze. Il primo afferma: «Gaetano, Gaetano, Gaetano, ora te la spiego un poco io la cronistoria…» e l’altro, di rimando, gli risponde: «Io la so, Mario… io sono stato quindici giorni da Edoardo…».
Il padrino di San Giovanniello, però, resterà nella penombra della latitanza per altri sei anni.

Il profilo del boss Edoardo Contini


Racconta Costantino Sarno, ex padrino di Miano legato all’Alleanza di Secondigliano: «Edoardo Contini non era nessuno, faceva solo rapine e solo successivamente entrò a far parte del nostro gruppo, anzi posso dire che Edoardo l’ho creato io, dopo averlo salvato dalla morte decretata da Luigino Giuliano, a seguito di un contrasto, non ricordo per quale motivo, che questi ebbe con Ciro Mantice, spalleggiato a sua volta da ’o romano».
Da quel giorno, la carriera criminale di Edoardo Contini diventa una inarrestabile ascesa nello scacchiere mafioso cittadino e regionale, tanto da far dire all’allora coordinatore della Dda Franco Roberti, nel corso della conferenza stampa per il suo arresto: «Contini è la più grande mente criminale della camorra napoletana, un vero capo».
Protagonista di lunghe latitanze e spettacolari arresti, viene catturato a 39 anni dai carabinieri del reparto operativo speciale di Napoli in una villa a Cortina d’Ampezzo. È il 31 dicembre del 1994, quando i militari lo bloccano mentre si sta preparando per il veglione di mezzanotte in uno degli alberghi più chic della famosa località sciistica. Ricercato da cinque mesi per inosservanza degli obblighi della sorveglianza speciale, che avrebbe dovuto trascorrere a Favignana, il boss chiede ai militari di cambiarsi d’abito, per scaramanzia. Ed è così, senza la giacca dello smoking e con la sola camicia di seta merlettata, che i fotografi lo riprendono attorniato dai militari.
Dopo sei anni, Contini è di nuovo libero per decorrenza dei termini di custodia cautelare. Del suo clan continuano a occuparsi gli uffici investigativi napoletani e la magistratura, che nel frattempo hanno mandato sotto processo il vertice dell’Alleanza di Secondigliano, il maxi-cartello criminale di cui ’o romano è fondatore, insieme ai Mallardo di Giugliano e ai Licciardi di Secondigliano. Le informative delle forze dell’ordine descrivono la potenza imprenditoriale ed economica della cosca, che diversifica i propri investimenti in svariati settori, in tutt’Europa. I pentiti parlano di lui sottolineandone più che la ferocia e la cieca violenza, l’intelligenza strategica e la furbizia nel nascondere gli affari miliardari di famiglia ai radar dell’Antimafia. Amante delle belle donne e del lusso, il boss governa con mano ferma l’organizzazione, riciclando i milioni di euro incassati col traffico di stupefacenti e stipendiando centinaia di affiliati. Nessuno dei quali ha finora sentito il desiderio di tradirlo, passando a collaborare con la giustizia.
Non passa molto tempo perché Contini finisca nell’elenco dei trenta latitanti più pericolosi d’Italia: le polizie di mezzo mondo gli danno la caccia, ma nessuna segnalazione sembra essere quella giusta. C’è chi lo cerca in Sardegna, chi a Ischia (dove era solito cenare sulla spiaggia dei pescatori, prima di fuggire), chi in Spagna o in Brasile.
Lo troveranno, il 15 dicembre 2007, i poliziotti della Squadra mobile di Napoli, diretti da Vittorio Pisani, in un appartamento a Casavatore, ospite di una vedova e dei suoi cinque figli.
Al momento dell’irruzione, il padrino sta mangiando una pizza. Alza le mani e si consegna, complimentandosi con gli agenti: «Siete stati bravi».
Edoardo Contini, per comunicare, non utilizzava mai il telefono, ma soltanto «pizzini»: ordini precisi per gestire da una piccola stanza scritti in minuscoli fogli di carta arrotolati, alla maniera di Bernardo Provenzano. Per evitare sospetti, non voleva neanche che la sua biancheria fosse lavata: preferiva comprarla e poi buttarla. Alla fine, è stato comunque tradito da una intercettazione ambientale nella quale si ascoltava la voce del padrino mentre si informava sul menù del giorno.