lunedì 28 dicembre 2009

Il boss al confino a Benevento

Avrebbe dovuto rispettare il confino per quattro anni, a Cusano Mutri, nel Beneventano. Solo che, all’alba del 2 aprile 1992, il giovane boss di Barra, Giovanni Aprea, decise di incontrare suo cognato, Gaetano Cervone, in un appartamento di corso Sirena. Lì lo trovarono gli agenti della Narcotici, guidati dall’allora vicequestore Sossio Costanzo, dopo un blitz. Era latitante da quattro mesi, Aprea. Da quando, cioè, si era allontanato da quel paesino di montagna per tornare nel suo “feudo” e riprendere la guerra contro le organizzazioni rivali nell’area orientale della città.
Quando seppero dell’arresto e del ripristino del soggiorno obbligato, a Cusano Mutri la reazione fu tutt’altro che rassegnata: il consiglio comunale, d’intesa con il sindaco e con le associazioni locali, decise di chiudere le scuole e i negozi per due giorni per chiedere la revoca del provvedimento al prefetto di Benevento.
A Pasqua, nella chiesa del paese, si arrivò addirittura a organizzare una veglia di preghiera per impedire l’arrivo del boss. A cui, naturalmente, nessuno decise di fittare un appartamento o una stanza, visto che non esistevano alberghi o pensioni, allora. Il consiglio comunale e quello provinciale rimasero convocati in seduta permanente allargati alla cittadinanza per diversi giorni, fino a che la Corte d’appello di Napoli non decise di discutere la richiesta di revoca avanzata dal Comune. Confortati dal clima di resistenza civile a Cusano Mutri, iniziarono a ribellarsi anche tanti altri piccoli centri del Beneventano e dell’Avellinese, dove – all’epoca – si trovavano dodici malavitosi napoletani. Il Comune di Buonalbergo, ad esempio, decise di ricorrere contro la decisione del Tribunale di Napoli di inviare al confino il camorrista Francesco Iossa, appartenente ai clan di Acerra. Prima di lui, c’era stato anche il “braccio destro” del padrino Giuseppe Misso, Alfonso Galeota e altri due sarebbero arrivati nel giro di un altro mese.
Le proteste dei residenti e delle istituzioni locali, però, non convinsero più di tanto i magistrati e il prefetto di Napoli, che non solo chiesero di confermare le destinazioni già individuate, ma lasciarono chiaramente intendere che «di fronte ai sindaci trasformatisi in capi-popolo» sarebbero state adottate forti contromisure e azioni penali.
Alla fine, il problema si risolse da solo, perché Aprea fu raggiunto da un mandato di cattura che lo portò, per parecchi mesi, nuovamente dietro le sbarre.

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