lunedì 28 dicembre 2009

La banca della camorra

Una sorta di circuito creditizio parallelo illegale, gestito dal clan Aprea-Cuccaro, venne scoperto dai carabinieri del comando provinciale di Napoli in una complessa indagine patrimoniale dell’aprile del 1994, che portò anche al sequestro di beni per oltre venti miliardi di lire.
Un vero e proprio impero economico, edificato grazie al riciclaggio di denaro sporco, che aveva permesso ai vertici del sodalizio criminale dell’area orientale di imporsi in alcuni settori commerciali legali, come la grande distribuzione organizzata e l’edilizia, e di snaturare le dinamiche di mercato attraverso il ricorso alla violenza e alla concorrenza sleale.
Nel corso dell’operazione, gli investigatori apposero i sigilli a venti appartamenti, trenta automobili, terreni, capannoni industriali e tre società attive nel settore alimentare.
Secondo quanto ricostruito dagli uomini del comando provinciale dell’Arma, i “colletti bianchi” del clan si finanziavano da un lato con la ricettazione di derrate alimentari, provenienti dalle rapine ai tir, che venivano “riciclate” attraverso apposite aziende del ramo e rivendute in discount e supermercati compiacenti, e dall’altro con richieste di tangenti ai commercianti e ai piccoli imprenditori della zona, ai quali – e così il cerchio infernale si chiudeva alla perfezione – venivano finanche offerti prestiti a tassi usurari per il pagamento del pizzo.
Il flusso di denaro che ne scaturiva, naturalmente, si moltiplicava a ogni passaggio di mano, tanto da rendere necessaria la costituzione di una “banca del clan”, attiva tra Poggioreale, Barra, Ponticelli e San Giovanni a Teduccio, alla quale i negozianti in difficoltà potevano rivolgersi per l’ottenimento di prestiti.
Quella non fu, comunque, l’unica inchiesta che andò a colpire il polmone “finanziario” della cosca, perché beni per altri dieci miliardi furono sequestrati a distanza di qualche settimana a San Giorgio a Cremano (un intero edificio, con diciotto appartamenti, tre capannoni e due terreni) e a Poggioreale, dove la cosca capeggiata da Giovanni Aprea aveva la disponibilità di un palazzo, composto da sette appartamenti, cinque autovetture, sei motociclette e due appartamenti.
Il valore dei beni, in quest’ultimo caso, superava i due miliardi di lire.

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