giovedì 10 dicembre 2009

La storia del clan Alfano

Un’organizzazione camorristica che utilizza metodi di stampo terroristico (un vicequestore della polizia di Stato troppo impegnato sul fronte investigativo diventa un bersaglio da eliminare e un parente di un collaboratore di giustizia muore dissanguato e impiccato, come gli animali, allo stipite di una porta in una masseria a Chiaiano) e che fa affari nei quartieri a più alta densità commerciale di Napoli (Vomero, Arenella, Torretta, Chiaia, Mergellina e Posillipo).
Un’organizzazione – per usare le parole del procuratore aggiunto di Torre Annunziata, Raffaele Marino, ex magistrato della Dda di Napoli e profondo conoscitore delle dinamiche criminali cittadine, «che si modula rispetto alla composizione sociale del territorio di competenza, finendo per operare come un’agenzia di servizi che risolve problemi di natura civilistica: propone, anzi, impone mediazioni, si interfaccia con debitori e creditori, sollecita interventi e chiude, a suo modo, cioè con la violenza e la prepotenza, i vari contenziosi che via via le si prospettano. Addirittura, in un caso, un affiliato minacciò un avvocato perché si trovasse un adeguato risarcimento a una donna che, separatasi dal marito, non era riuscita a impedire la vendita della casa coniugale».
Così, la camorra del Vomero diventa un interlocutore sociale che, se da un lato affama commercianti e imprenditori con il pizzo e l’usura, dall’altro si accredita agli occhi dei cittadini come alternativa rapida ed efficiente alla burocrazia dello Stato.
La vicinanza agli esponenti di maggiore spessore dell’Alleanza di Secondigliano fornisce ai clan dei quartieri collinari (capeggiati, via via, da Giovanni Alfano, Antonio Caiazzo, Luigi Cimmino, Giovanni Totaro) prestigio e potere criminale, come racconta il collaboratore di giustizia Costantino Sarno nell’interrogatorio del 25 agosto 1997: «Il gruppo Alfano-Caiazzo, come ho detto si è costituito dopo la morte di Sergio Vigilante. Naturalmente che loro prendessero il controllo del Vomero era cosa da noi di Secondigliano condivisa, senza il nostro assenso nessuno poteva pensare di controllare una zona di Napoli».
Gli scontri che si susseguono, però, sfuggono alle logiche e alle mappature criminali ordinarie, perché, più che sul fronte esterno, la camorra del Vomero si spacca su quello interno, a causa delle detenzioni cui vengono sottoposti i capi e del lavoro della magistratura inquirente, che ricostruisce trame e identifica personaggi. Tre faide (Alfano contro Caiazzo, Cimmino contro Caiazzo, Caiazzo contro Totaro) e altri piccoli scontri minori indeboliscono la struttura monolitica dell’organizzazione, così da sgretolarla dopo l’omicidio dell’innocente Silvia Ruotolo.
Ricorda Marino, che ha portato a conclusione la quasi totalità delle più complesse indagini sulle bande del Vomero: «Con quel barbaro assassinio, il clan Alfano perde il controllo della situazione, che diventa irreversibile con la decisione di Rosario Privato di collaborare con la giustizia e di svelare i segreti e gli affari illeciti del gruppo».
Privato è la chiave d’accesso al cuore della malavita dell’area collinare, ma i riscontri arrivano da tanti altri collaboratori di giustizia napoletani (Ciro Ruggiero, Salvatore Giuliano, Mario Perrella, Giuseppe Contino, Bruno Rossi, Salvatore Grimaldi, Ciro Castaldo, Giuseppe Fucci, Pasquale Balzano, Massimo D’Amico, Bruno Danese e Franco Albino) e casertani (Domenico Frascogna, Salvatore D’Alessandro, Luigi Diana, Augusto La Torre, Mario Sperlongano e Girolamo Rozzera).
Alcuni rivelano che la storia dei clan del Vomero è peraltro caratterizzata da inquietanti zone d’ombra e connivenze, che porteranno la magistratura a indagare su compiacenti perizie mediche e tecniche che, a diversi livelli, agevolarono i piani criminali dei padrini detenuti, o sotto processo.
È ancora il procuratore aggiunto Raffaele Marino a sottolineare un episodio che vide protagonista proprio il boss Giovanni Alfano, «il quale fu ripreso da un ufficiale di polizia giudiziaria con una telecamera nascosta, mentre nella sua cella allungava la mano che avrebbe dovuto essere paralizzata per ricevere l’ennesima ordinanza di custodia che gli avevamo notificato».
Di simulazioni in carcere per ottenere trattamenti di favore messe in atto da Alfano, ha anche parlato il padrino pentito Luigi Giuliano, che ai magistrati confidò che le malattie invalidanti dei camorristi erano «il frutto di abili simulazioni», a tal punto ben riuscite da aver fatto «ammattire medici e macchinari utilizzati per gli accertamenti diagnostici».
Agli inizi del Duemila, il lavoro di raccolta delle notizie di reato e l’attività investigativa sul territorio da parte delle forze dell’ordine sfociano in alcune maxi-inchieste e in decine di arresti, che decimano le cosche e delineano scenari di alleanze mutevoli, che vedono come garante super-partes le famiglie di Secondigliano, da sempre interessate a mantenere la propria leadership malavitosa su Vomero e Arenella. I magistrati della Direzione distrettuale antimafia partenopea fanno luce su centinaia di episodi di racket (viene minacciato e aggredito finanche l’impresario di Antonello Venditti e Claudio Baglioni in relazione a due concerti, tenutisi negli stadi “San Paolo” e “Collana”) e su una dozzina di delitti, ottenendo pene pesantissime per capi e gregari delle organizzazioni.
L’ultima nota è per i rapporti, accertati anche in sede processuale, con i Casalesi e con l’ala capeggiata da Francesco Bidognetti per la gestione di alcuni discount e, soprattutto, per la guerra di camorra, allora esplosa, tra il sottogruppo di Luigi Cimmino e quello Antonio Caiazzo, che portò all’incriminazione, tra gli altri, di Gianluca Bidognetti per un duplice omicidio.
«Questi gruppi», conclude Marino, «sono entrati sotto il fascio di luce degli inquirenti nel momento in cui le alleanze si sono spezzate e nuovi assetti si sono cercati con il ricorso alla soppressione fisica degli avversari. La lotta contro la camorra del Vomero è durata quasi quindici anni, con risultati importanti».
E pensare che, dalle informative delle forze dell’ordine, si presume che i clan del quartiere più ricco della città fossero composti da non più di quaranta affiliati. Quaranta criminali che hanno tenuto in scacco 119.978 cittadini onesti, quanti ne conta oggi la municipalità Vomero-Arenella.

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