venerdì 14 agosto 2009

"La donna del boss deve morire"


Una storia di offese mai dimenticate e di strategie criminali per il controllo della città ha portato, il 14 marzo 1992, a quello che la Procura antimafia definisce «uno dei più eclatanti fatti di sangue mai commessi dalla camorra napoletana»: l’agguato in cui persero la vita la moglie del boss Giuseppe Misso, Assunta Sarno, e il suo migliore amico, Alfonso Galeota, e rimasero gravemente feriti Giulio Pirozzi e la sua consorte, Rita Casolaro. A ordinare quell’attentato furono i vertici dell’«Alleanza di Secondigliano» per piegare il gruppo della Sanità e costringerlo all’ubbidienza.
I magistrati della Dda (coordinata da Franco Roberti) hanno ottenuto dal gip Giuseppe Ciampa l’arresto di Costantino Sarno, Vincenzo Licciardi e Giovanni Cesarano – tutti detenuti per altri reati – con l’accusa di essere stati ideatori ed esecutori della strage. Una mattanza che avvenne, nel traffico, sulla bretella autostradale Caserta Sud-Napoli, all’altezza dello svincolo Afragola-Acerra. I killer agirono con fucili da caccia e mitragliatori, scrivono i pm, «accanendosi contro le quattro persone e devastando i corpi della Sarno e di Galeota».
A puntellare la ricostruzione inquirente sono stati i verbali di numerosi collaboratori di giustizia, tra cui lo stesso Giuseppe Misso, a riscontro dei quali i carabinieri del nucleo investigativo del comando provinciale di Napoli hanno svolto lunghe e delicate indagini. L’inchiesta, però, è tutt’altro che conclusa, dal momento che il gip non ha accolto la richiesta di detenzione in carcere – per mancanza di gravi indizi – anche per Giuseppe e Francesco Mallardo, Maria Licciardi, Gaetano Bocchetti ed Edoardo Contini, nei cui confronti continuano le indagini. È certo che la Procura ricorrerà al Tribunale del riesame per ottenere le misure cautelari.
L’attentato si verificò al termine dell’udienza, celebratasi davanti alla Corte di assise di appello di Firenze, che portò alla sentenza per la strage del «Rapido 904», il treno dilaniato da una bomba piazzata – secondo l’accusa – da camorristi e mafiosi per sviare l’attenzione della magistratura dalla criminalità organizzata al terrorismo. Misso – detenuto ininterrottamente dall’aprile 1985, dopo una lunga latitanza in Brasile e una plastica facciale che ne aveva cambiato i connotati – era reduce da una condanna all’ergastolo in primo grado: fu quella l’ultima occasione che gli fu concessa per vedere vivi sua moglie e Galeota, titolare di un famoso negozio di abbigliamento in via Duomo.
Per la Procura, l’imboscata fu decisa dai secondiglianesi «per decapitare il gruppo Misso e annientarlo sul piano militare, così da permettere agli alleati (le famiglie Tolomelli, Vastarelli e Guida) di assumere pieno potere nel rione Sanità».
Anni dopo, il boss Giuseppe Misso scriverà nel suo libro, «I leoni di marmo», a proposito di quell’episodio: «Si è voluto ammazzare deliberatamente una donna innocente e inerme soltanto per pubblicizzare un nuovo “modello” di potenza infame e per lanciare un monito triste e crudele, del tipo: “Ieri abbiamo ucciso i bambini. Oggi anche le donne”». Sedici anni dopo se n’è scoperto il motivo.
LA STRAGE DEL RAPIDO 904 - Il treno «Rapido 904», diretto da Napoli a Milano, salta in aria la sera del 23 dicembre 1984 a San Benedetto Val di Sambro: le vittime sono 16 e i feriti 266. Le indagini, condotte dai pm Pier Luigi Vigna e Gabriele Chelazzi, ipotizzano la saldatura degli interessi di Cosa nostra siciliana e camorra napoletana nell’allontanare l’attenzione degli investigatori dai grandi affari della criminalità organizzata per orientarla verso il terrorismo, allora particolarmente attivo nella destabilizzazione dell’opinione pubblica (solo poco tempo prima si erano verificati gli attentati alla stazione di Bologna e al treno «Italicus») e delle istituzioni democratiche.
In primo grado, il 25 febbraio 1989, la Corte d’assise di Firenze condanna tutti gli imputati – tra cui Giuseppe Misso, Giulio Pirozzi, Alfonso Galeota e Pippo Calò, il famigerato cassiere della mafia, arrestato in provincia di Roma qualche mese prima – alla massima pena. Il 14 marzo 1992 i giudici di secondo grado riformano la sentenza, assolvendo il gruppo dei napoletani e condannando il solo Misso per armi. È il crollo del teorema dell’accusa: non esistono «eversori» ma solo criminali nelle fila dell’allora nascente clan capeggiato da Giuseppe Misso.
NESSUN GESTO DI SOTTOMISSIONE - L’attentato sull’autostrada poteva essere evitato. A una condizione che Giuseppe Misso rifiutò, sdegnato, di accettare. È il retroscena dell’inchiesta della Procura antimafia di Napoli sul duplice omicidio del 14 marzo 1992: i vertici dell’«Alleanza di Secondigliano» chiesero al boss della Sanità un gesto di sottomissione per impedire la carneficina e, non avendolo ottenuto, decisero per la rappresaglia.
Scrivono i pm: «Tale decisione non era irrevocabile e poteva essere anche ripensata se Misso, in carcere ad Ascoli Piceno, avesse accolto l’invito di Angelo “Enzuccio” Moccia, esponente dell’Alleanza, a mandare i propri saluti a Gennaro Licciardi, ovvero avesse, con tale gesto, accolto l’invito ad aderire al cartello secondiglianese. Misso in carcere rifiutò e questo diniego indusse la cupola secondiglianese ad abbandonare ogni esitazione a passare all’azione».
La scelta di ammazzare a sangue freddo la compagna di Misso – secondo la ricostruzione dei magistrati partenopei – sarebbe derivata anche dall’insulto che la donna avrebbe indirizzato a Maria Licciardi, sorella dei padrini di Secondigliano. Assunta Sarno, infatti, le aveva detto che, qualora fosse stato scarcerato Giuseppe Misso, Gennaro Licciardi ’a scigna avrebbe dovuto pulirgli le scarpe. Un oltraggio imperdonabile nel mondo della malavita, che sarebbe stato all’origine della sanguinosa azione di fuoco. Eppure, prima di agire, i sicari dell’«Alleanza di Secondigliano» si premurano di eliminare l’uomo che, per coraggio e preparazione militare, avrebbe potuto organizzare una possibile reazione armata. Dieci giorni prima dell’imboscata sull’autostrada, infatti, i killer ammazzarono Vito Lo Monaco, originario di Palermo e perciò soprannominato «’o siciliano», fedelissimo del boss Giuseppe Misso. Lo trucidarono poco prima di mezzanotte all’altezza dell’uscita della Tangenziale, a Capodimonte: in quell’occasione fu ferito in modo grave anche il «guardaspalle» della vittima, Salvatore Giacobelli. All’identificazione di Lo Monaco – considerato uno degli assassini più spregiudicati e temuti della camorra napoletana – gli inquirenti arrivarono grazie alle impronte digitali: indosso, l’uomo, aveva un documento falso, intestato a Sergio Zarnia.
(Pubblicato sul quotidiano "Il Roma")

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