martedì 18 agosto 2009

Intervista al pm Antonio Ingroia


Che cosa succederebbe se Cosa nostra decidesse di allungare le mani sul ricchissimo porto di Napoli, estromettendo i clan locali, come suggeriscono i risultati di alcune indagini della magistratura siciliana?
«Ci troveremmo davanti a due possibili ipotesi: una guerra tra mafie, o la creazione di un sistema criminale federativo. In entrambi i casi, gli scenari sono assolutamente terribili».
Per Antonino Ingroia, pm di punta del pool antimafia di Palermo ed «erede» del giudice Paolo Borsellino, tutto dipende dall’esistenza, o meno, di accordi pregressi: «Se non c’è un patto alla base, la possibilità di uno scontro tra mafia e camorra è molto elevata, anche se l’esperienza porta a considerare una eventualità diversa: che le organizzazioni criminali giungano a un rapporto di gestione comune degli interessi finanziari su base nazionale, rendendo gli investimenti sempre meno localizzati e localizzabili. In pratica, creando un unico sistema mafioso».

Una super-cupola, dunque?

«Parlerei piuttosto di un sistema mafioso integrato tra camorra, Cosa nostra e ’Ndrangheta. È in corso un processo evolutivo delle mafie, che cercano di interagire per il raggiungimento di un obiettivo unico. Ciò che si ipotizzava potesse accadere all’indomani delle stragi di Capaci e di via D’Amelio non è più una fantasia, ma una realtà».
Dottor Ingroia, gli scenari di cooperazione tra clan napoletani e siciliani si rinforzeranno, allora?
«I rapporti, su cui si è indagato negli anni Novanta, esistono tuttora e non si sono mai interrotti. Non posso entrare nel dettaglio, ma abbiamo notizie certe di collaborazioni molto solide su specifici affari illeciti»
Quali?
«Soprattutto traffico di droga e armi. Siamo sicuri che si sia creato un processo di scambio tra camorra e mafia siciliana su questi due canali: Cosa nostra rifornisce di armi i gruppi di Napoli e Caserta e, in contemporanea, acquista da loro ingenti partite di stupefacenti. Al contrario di quanto accadeva nel passato, dunque, sono i clan campani a vendere la droga alla mafia e non più viceversa».
Qualche settimana fa, indiscrezioni di stampa parlavano di un carico di tritolo giunto ai Casalesi da un deposito segreto della mafia siciliana. È possibile?
«Abbiamo notizia dell’esistenza di questa “santabarbara”, perché, nella fase stragista di attacco allo Stato, Cosa nostra accumulò un incredibile quantitativo di armi ed esplosivo, che solo in parte negli anni è stato sequestrato e che, probabilmente, si trova ancora nascosto nel Palermitano. Avendo rinunciato nel frattempo alla strategia terroristica, la mafia potrebbe aver deciso di vendere questo materiale bellico ad altre organizzazioni. E non è un caso che proprio i Casalesi siano stati interessati all’acquisto dell’esplosivo, dal momento che, da quanto leggo, hanno alzato il livello di scontro».
Proprio come fecero i Corleonesi nel 1992…
«Sì, è un paragone che regge, perché anche i Casalesi fondano il loro potere sulla intimidazione e sul controllo militare del territorio, ma con una differenza sostanziale, però: i Corleonesi, prima di inaugurare la strategia stragista, attuarono un meccanismo di trasformazione dell’organizzazione interna, dandosi una struttura piramidale e verticistica. Modello che ancora manca alla camorra, che resta una organizzazione orizzontale e di natura federativa».
Il pericolo rappresentato dai Casalesi, intanto, ha suggerito al Governo di inviare l’Esercito in Campania. Lei che ne pensa?
«Nel 1992, in Sicilia, l’invio dei militari diede dei frutti importanti, ma fu accompagnato da sforzi legislativi e di impegno finanziario davvero notevoli. Al contrario, in Campania mi sembra che la questione sia limitata soltanto all’impiego degli uomini in divisa, in un numero peraltro inferiore all’esperienza siciliana».

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