lunedì 26 ottobre 2009

Il boss scrive al capo dello Stato

Il 26 aprile del 1990, con un provvedimento del tutto inaspettato, Francesco Schiavone e Mario Iovine, entrambi in attesa di essere estradati in Italia, riconquistarono la liberta persa un anno prima in Francia (23 maggio ‘89). I giudici del tribunale di Santa Maria Capua Vetere emisero un ordine di scarcerazione nei confronti dei due vertici dei Casalesi detenuti nelle prigioni transalpine. Decorrenza dei termini massimi della custodia cautelare (al tempo fissati in sei mesi): fu questa la motivazione posta alla base del provvedimento inoltrato all’autorità giudiziaria francese. Un provvedimento che fece seguito di poche settimane alla decisione del tribunale del Riesame di annullare il secondo mandato di cattura che aveva raggiunto il boss Sandokan mentre era detenuto in Francia (Schiavone era accusato di avere “partecipato all’omicidio di Paride Salzillo”). I giudici della libertà, con il loro verdetto, annullarono l’ultimo provvedimento che teneva bloccato in carcere Schiavone, agevolandone la successiva scarcerazione per decorrenza dei termini di custodia cautelare. A nulla servì il tentativo degli investigatori casertani di bloccare l’esecuzione del provvedimento, Iovine e Schiavone lasciarono la prigione l’11 maggio del 1990. E all’indomani il nome di Sandokan risultava già sulla lista dei ricercati: il boss Schiavone non si fece trovare in casa all’atto della notifica, da parte delle forze dell’ordine, di un provvedimento di sorveglianza speciale e divieto di soggiorno nelle regioni meridionali, emesso dagli stessi giudici del tribunale casertano contestualmente all’ordine di scarcerazione. Iovine si trasferì a Cascais insieme con la sua compagna brasiliana, e lì trovò la morte l’anno dopo. Per Sandokan tuttavia la libertà durò poco: si trattò solo di una “boccata d’aria”, il tempo di tornare a Casal di Principe e riorganizzare il clan. Il tempo di convocare un summit di camorra presso la villa dell’allora assessore alle finanze del comune di Casal di Principe. Accadeva il 13 dicembre del 1990 (cosiddetto blitz di Santa Lucia). I carabinieri casertani e i colleghi di Aversa attesero che tutti i partecipanti alla riunione indetta da Schiavone si presentassero sul posto. Attesero un’intera giornata, nell’ombra. Poi il blitz, che rischiò di trasformarsi in una carneficina. I carabinieri furono costretti ad impugnare i mitra per far fronte al tentativo dei partecipanti al summit di sottrarsi alla cattura. Bidognetti (anch’egli risultava ricercato da un mese) puntò la pistola contro i militari, pronto a fare fuoco per agevolare la fuga di Schiavone. Non ci furono feriti, l’operazione si concluse con la cattura dei due latitanti. Arresti eccellenti, che fecero seguito solo di qualche giorno al blitz che portò in manette un altro ricercato di alto rango: Lorenzo Nuvoletta, capo storico della potente organizzazione di Marano. Nonostante le informative in possesso alle forze dell’ordine, la “voce” dei pentiti e le risultanze di inchieste che inchiodavano i vertici del clan dei Casalesi, la Corte di Cassazione annullò per il boss Schiavone l’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso, a dispetto della richiesta della procura. Una decisione che inciderà in modo positivo anche in sede processuale: i giudici della corte d’Appello del tribunale di Santa Maria Capua Vetere nel gennaio del ‘92 mandarono assolto Schiavone dall’accusa di detenzione abusiva di armi (in primo grado era stato condannato a 4 anni di reclusione) e ne ordinarono la scarcerazione. La fortuna “baciò” allo stesso modo Francesco Bidognetti. Il 28 gennaio del 1992 Sandokan si lasciò nuovamente la prigione alle spalle. E come era accaduto in occasione dell’ultimo arresto, anche questa volta Schiavone fece perdere le sue tracce, violando la misura di soggiorno obbligato per quattro anni a Casal di Principe stabilita dalla Corte contestualmente alla scarcerazione.
A distanza di tre mesi Schiavone finì nuovamente in carcere. Un residuo di pena, tre mesi di cella. Il provvedimento colse di sorpresa il boss, raggiunto dalle forze dell’ordine nella sua villa a Casal di Principe. La detenzione del boss durò poco, solo qualche mese di cella. Un tempo breve, ma sufficiente per creare nuovi contati all’interno del carcere. Con altri tre boss campani nell’agosto ‘93 inviò una lettera all’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, chiedendo la revoca del 41bis, vale a dire la misura del carcere duro, contestando “condizioni inumane di vita”. Nell’ottobre successivo fu scarcerato, e di Schiavone si perse ogni traccia, sebbene gli investigatori abbiano sempre sospettato che il boss, durante i cinque anni in cui si è reso latitante, non ha mai lasciato la sua città. Grazie ad una rete di insospettabili fiancheggiatori il boss Sandokan continuò a gestire gli affari, a frequentare la sua famiglia. E ad intrecciare una relazione sentimentale con due donne sottufficiali della base Nato di Bagnoli al fine di procurarsi facilmente armi e munizioni. Uno spaccato di vita ricostruito grazie alla testimonianza del collaboratore di giustizia Carmine Schiavone.
(Tratto da "Attacco allo Stato", ForumItalia edizioni)

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