Più che a un gangster metropolitano, Paolo Di Lauro assomiglia – nella gestione del potere criminale – ai padrini siciliani, o meglio ai capi delle ’ndrine calabresi. Poco incline alle plateali manifestazioni di forza, riservato, regista occulto di grandi fortune economiche, non rilascia interviste come Raffaele Cutolo e non telefona ai giornalisti per smentire le notizie, come Michele Zagaria o Antonio Iovine. La sua forza è sempre stata l’invisibilità, nei confronti tanto dei nemici quanto degli amici. Lo dimostra, chiaramente, una intercettazione telefonica che cattura le lamentele del boss Raffaele Abbinante, a proposito del perenne stato di irreperibilità del padrino Ciruzzo ’o milionario: «Ma quello quando va scappando e non lo trovate e quando non va scappando, nemmeno lo trovate. Perché quello non esce mai…».
Di Paolo Di Lauro, fino al momento dell’arresto, esisteva una sola fotografia, negli archivi delle forze dell’ordine, scattata al momento dell’interrogatorio in Procura, a seguito del pestaggio di Cosimo Infante, insegnante di educazione tecnica nella scuola media “Pascoli II” di Secondigliano. Un pestaggio, raccontano le cronache giudiziarie dell’epoca, ordinato da Nunzio Di Lauro, figlio tredicenne del boss, per punire il docente che aveva rimproverato sua cugina. È il 6 novembre 1998, quando Paolo Di Lauro – su cui la direzione distrettuale antimafia di Napoli e la sezione Narcotici della Squadra mobile stanno indagando già da qualche tempo – si presenta davanti al pm Luigi Bobbio per offrire la sua versione dei fatti. Al magistrato, Di Lauro racconta di essere un uomo di pace e di rifiutare il ricorso alla violenza, aggiungendo di non conoscere i motivi dell’aggressione al docente. Addirittura, Di Lauro si spinge a lamentarsi per la fastidiosa etichetta di uomo d’onore che, nel suo quartiere, gli hanno attribuito sottovoce e finanche per i continui controlli della guardia di finanza presso la sua azienda tessile, ad Arzano, che lo costringeranno, prima o poi, a chiudere bottega. Gioca la sua partita, il padrino, ma la gioca anche il magistrato. La trappola, raffinatissima, la spiegherà, infatti, qualche tempo dopo lo stesso Bobbio: «Mentre era in corso l’interrogatorio, mettemmo sotto controllo i telefoni dei suoi più stretti uomini di fiducia, molti dei quali si trovavano all’esterno degli uffici, preoccupati delle nostre reali intenzioni. Non sapevano, infatti, il motivo della convocazione era legato al pestaggio del professore e temevano un arresto. Li intercettammo anche quando chiesero a Vincenzo Di Lauro, che allora era poco più di un ragazzo, se dovevano andare a proteggere “Pasquale” armati all’uscita dalla Procura. Quella fu la conferma, in diretta, che Paolo Di Lauro era un padrino della camorra e che Pasquale era il soprannome usato a Secondigliano per indicarlo».
Nel 2002, è costretto a darsi alla latitanza perché inseguito da un mandato di cattura per traffico internazionale di stupefacenti e associazione camorristica. L’inchiesta, passata nel frattempo al pm Giovanni Corona, assesta un primo colpo alla maxi-organizzazione, portando all’arresto di una sessantina di affiliati. Nel 2004, il ministero dell’Interno lo inserisce nell’elenco dei trenta ricercati più pericolosi d’Italia e, il 16 settembre 2005, viene arrestato dai carabinieri del Ros in un anonimo appartamento in via Canonico Stornaiuolo, nel cuore della vecchia Secondigliano. Quando i carabinieri bussano alla porta, alle 3 del mattino, lo trovano già vestito. Sei mesi dopo, sarà condannato a trent’anni di carcere per droga.
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