La militanza nella Nuova camorra organizzata assicura a Ciro Sarno una veloce e feroce carriera criminale: le prime notizie risalgono al 1984, quando viene destinato, per due anni, alla sorveglianza speciale insieme ad altri cinquanta malavitosi. Cinque anni dopo, con la disgregazione della maxi-cupola cutoliana, è a capo della banda che imperversa tra Ponticelli e Barra e, per questo, sospettato di essere il mandante della strage del bar “Sayonara”, il punto più cruento della lotta contro il rivale Andrea Andreotti. Al termine di quell’assurda spedizione di morte, restano sull’asfalto i cadaveri di sei uomini.
Protetto dalla omertà del rione De Gasperi, quartier generale del gruppo, Ciro Sarno riesce a imporre il proprio predominio nella gestione del malaffare (droga, racket, usura, lotto clandestino, appalti, armi e rapine ai tir) e a reclutare nuovi affiliati tra i giovani sbandati di periferia. Nell’ottobre 1990, finisce in manette, insieme a due guardaspalle, mentre si trova in un circolo ricreativo: i poliziotti della Narcotici devono far arrivare i rinforzi per respingere l’assalto delle donne che, dai balconi e dalle strade vicine, li bersagliano con pietre, piatti e bicchieri. Il boss esibisce anche una carta di identità contraffatta, ma viene riconosciuto da un agente. Era ricercato da un anno per evasione dai domiciliari.
In carcere non ci resta molto, però. E, una volta fuori, riprende da dove era stato costretto a interrompere. Denunciato da un macellaio di Ponticelli che non aveva voluto pagare una tangente di 50 milioni di lire, malgrado fosse stato minacciato dai “picciotti” del boss con una bomba a mano, e inseguito da un duplice mandato di cattura per associazione camorristica e omicidio, è catturato nel 1992 a Marina di Tortora, in provincia di Cosenza, dove si trova in vacanza insieme alla famiglia. All’irruzione dei carabinieri, cerca inutilmente di fuggire sul terrazzo della villa.
Con le prime, pesantissime, condanne per traffico di sostanze stupefacenti, il comando passa nelle mani dei fratelli Vincenzo, Luciano e Giuseppe Sarno. Il primo, capo dell’“ala” militare della cosca, è stato arrestato nell’aprile di quest’anno nell’appartamento di un dipendente incensurato dell’Asìa; il secondo – già denunciato per essersi recato in commissariato con una scorta di tre auto blindate – è indagato per un episodio di “lupara bianca” nei confronti di Carlo Amico, camorrista di Acerra, scomparso nel 2004; e il terzo, invece, bloccato a Roma mentre tentava di scappare sui tetti di Trastevere, è considerato il vero “numero due” dell’organizzazione e “mente finanziaria” del network criminale di Ponticelli. Nel 2001, gli furono confiscate due Lancia Thema e un’Alfetta blindate, che l’uomo utilizzava per proteggersi durante gli spostamenti nelle aree “a rischio” della provincia vesuviana. Alla notizia del suo pentimento, secondo quanto racconta una indagine della Dda di Napoli, il figlio Salvatore arrivò addirittura a minacciare la propria madre, Anna Emilia Montagna, perché convincesse il marito a ritrattare le dichiarazioni nei confronti degli altri esponenti dell’organizzazione. Richiesta rimasta senza risultato.
Il resto è storia recente: un eccezionale lavoro della magistratura, condotto dal pm Vincenzo D’Onofrio e dall’aggiunto Rosario Cantelmo, manda in galera decine di affiliati e scopre che, benché detenuto, Ciro Sarno continuava a ordinare esecuzioni e attentati contro i nuovi nemici. Messo spalle al muro, il padrino non può far altro che decidere di iniziare a collaborare con la giustizia.
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