Associazione camorristica, concorso in omicidio, detenzione abusiva di armi e spari in luogo pubblico: con queste accuse, il 28 gennaio 1981, finisce in galera Gennaro Licciardi, all’epoca poco più che ventenne. Insieme al futuro cognato, Gennaro Esposito, ’o curto, è ritenuto l’esecutore materiale dell’agguato costato la vita a una coppia di cutoliani, originaria del Salernitano.
In cambio, secondo l’informativa dei carabinieri del gruppo “Napoli 1”, i due killer avrebbero ricevuto una “Volkswagen” ciascuno.
Al momento dell’arresto, Licciardi viene trovato in possesso di gioielli rubati, per un valore di trenta milioni di lire, nonché di dieci milioni in contanti tra i quali una banconota da 50mila lire proveniente dal riscatto pagato per la liberazione di un ostaggio, avvenuta a Milano nel novembre del 1980.
A quel tempo, è indicato come uomo di fiducia del boss Luigi Giuliano e tra i più feroci sicari del Napoletano. In alcuni rapporti di polizia, si ipotizza che possa addirittura essere il “bombarolo” che ha fatto saltare in aria un’automobile davanti all’abitazione di Raffaele Cutolo, a Ottaviano, provocando una lunga scia di vendette contro gli appartenenti alla Nuova famiglia.
Nell’82 rimane ferito in una sparatoria avvenuta all’interno delle camere di sicurezza del Tribunale di Napoli, mentre si trova in attesa di un processo. A fare fuoco è un cutoliano, Michele Montagna, di Sant’Antimo, che così risponderà al giudice sul possesso dell’arma, una volta bloccato dagli agenti di custodia: «L’ho avuta in sogno dal Padreterno».
La dissoluzione della Nco porta, ben presto, Licciardi a conquistare un ruolo autonomo e predominante nello scacchiere criminale partenopeo, tanto che già agli inizi degli anni Novanta viene considerato il padrino incontrastato della periferia nord.
Il 23 marzo 1992 viene catturato, a un posto di blocco, pochi minuti dopo il blitz che ha portato in manette – per una incredibile e fortunatissima coincidenza – pure Francesco Mallardo. I due, insieme a Edoardo Contini, fanno parte del vertice dell’Alleanza di Secondigliano, il maxi-cartello criminale che, a quel tempo, sta attuando una inarrestabile espansione su tutto il territorio cittadino per impossessarsi, seguendo il folle modello camorristico ipotizzato da Raffaele Cutolo, della totalità dei traffici illeciti di Napoli e della sua provincia. Licciardi, con tutta probabilità, quel giorno doveva incontrarsi proprio con Mallardo in un casolare nelle campagne di Giugliano.
Due anni dopo, esattamente il 2 agosto 1994, il boss di Secondigliano muore nell’ospedale di Voghera, dov’era stato trasferito d’urgenza per un’infezione intestinale. Una settimana prima, i medici lo avevano operato per un’ernia ombelicale. L’autopsia chiarirà che la morte è stata provocata da choc settico per una serie di complicazioni post-operatorie.
I funerali si tengono in forma strettamente riservata tre giorni dopo. A scortare la bara di Licciardi fino al camposanto di Poggioreale sono gli uomini della Squadra mobile e del commissariato di Secondigliano. Oltre cinquanta corone di fiori, tutte rigorosamente anonime, addobbano la cappella dove la salma viene benedetta e inumata.
Qualche anno prima, nel corso di un processo, incalzato dal magistrato, Gennaro Licciardi aveva fatto mettere a verbale: «La Nuova famiglia? So che esiste, perché l’ho letto sui giornali…»
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