Struttura economica prima ancora che criminale, il clan Di Lauro ha monopolizzato l’attenzione dei media nazionali e internazionali tra il 2004 e il 2005, in occasione della faida di Secondigliano che vide contrapposto il network mafioso di via Cupa dell’Arco a un cartello di fuoriusciti per la gestione del più ricco mercato di droga all’aperto d’Europa.
Racconta il pentito Maurizio Prestieri, a proposito degli affari sviluppati all’ombra delle Vele: «Io versavo mediamente 200 milioni di lire a settimana, per le piazze insediate nell’Oasi del Buon Pastore, lo chalet Bakù ed una parte del lotto P. Fulvio Montanino, ogni settimana, versava 250 milioni, che riguardavano gli introiti delle piazze cosiddette della “Ciampa” e di giù alle “Cappe”, gestite anche dalla famiglia Di Natale, ossia dai fratelli Vincenzo, Raffaele, detto Lelluccio, Antonio detto ’o chiapparo ed altri figli e nipoti di Vincenzo Di Natale, oltre che dal genero di quest’ultimo; in più, Montanino, presso una macelleria che faceva da base di appoggio vendeva quantitativi di droga a terzi soggetti che la volevano spacciare. Altri 200-250 milioni a settimana li portava Antonio Leonardi per la piazza della Vela Bianca; la quota maggiore la portava Gennaro Marino ed era di circa 300 milioni per la piazza delle Case celesti, che era molto remunerativa. Inoltre, anche lui faceva i cosiddetti “passaggi di mano”, ossia aveva l’autorizzazione da Paolo Di Lauro di vendere la droga da questi fornita a terze persone e anche di acquistarla da altri quando mancava. Voglio precisare che raramente Di Lauro non era in grado di rifornirci di droga».
Il business, basta una calcolatrice per rendersene conto, è gigantesco: «Il volume di affari settimanale minimo, tenuto conto di tutte le oscillazioni sia del mercato che legate agli interventi delle forze dell’ordine, era di due miliardi. Il massimo, invece, era di più di tre miliardi a settimana». Montagne di soldi cui si deve aggiungere il fatturato del contrabbando di sigarette, delle rapine, delle estorsioni, dell’usura, dei “cavalli di ritorno” e dell’industria della contraffazione (abbigliamento, utensileria, tecnologia) affidata alla rete internazionale dei magliari; sicché la stima, formulata tempo addietro dalla procura antimafia partenopea, di un miliardo di lire al giorno guadagnato dal boss Paolo Di Lauro appare non solo verosimile, ma forse addirittura prudenziale.
I TERRITORI CONTROLLATI E LE ROTTE DELLA DROGA – Le indagini raccontano di un vero e proprio “feudo” assoggettato al potere criminale della cosca. Non solo Secondigliano e Scampia, vero “cuore pulsante” dell’organizzazione, ma anche Casavatore, Melito, Arzano, Mugnano, Bacoli e Monte di Procida. Il potere della holding, scrive il pm Giovanni Corona nella richiesta d’arresto del settembre 2002, «arriva fino alle porte di Afragola».
In un verbale del 26 novembre 1998, è il pentito Gaetano Guida a spiegare i sistemi di importazione della sostanza stupefacente a Napoli: «I canali attuali di rifornimento della cocaina da parte del clan Di Lauro e da parte dei clan camorristici in generale, hanno da qualche tempo subito delle modifiche sostanziali. È stato infatti molto perfezionato l’originario sistema di commissionare direttamente in Sud America singoli quantitativi di pochi chili che venivano portati a mezzo di corrieri. Attualmente, infatti, le organizzazioni camorristiche prendono contatto diretto con quelle che sono ormai delle vere e proprie filiali europee dei grandi produttori sudamericani di cocaina. Da qualche tempo, infatti, queste organizzazioni hanno costituito in città come Madrid, Amsterdam e in Belgio dei veri e propri depositi di cocaina, dove fanno giungere, a mezzo di navi, tonnellate di stupefacente. Gli acquirenti della camorra per entrare in contatto con i responsabili di queste “filiali” usano i canali dei magliari. La rete dei magliari, infatti, costituisce ormai un sostegno importantissimo per l’attività dei clan. Dappertutto, in Europa, infatti, sono presenti ormai negozi gestiti da italiani di rivendita di capi di abbigliamento in finta pelle. Quasi tutti questi negozi appartengono ai vari clan, i quali se ne servono per nascondere latitanti o, appunto, per organizzare acquisti e importazioni di droga e armi in Italia. In questi negozi, vi sono peraltro grossi giri di denaro, utili per provvedere tra l’altro al sostentamento dei latitanti. Sono i titolari di questi esercizi a costituire i terminali locali delle organizzazioni camorristiche, i quali, quando serve, provvedono alla trattativa per l’acquisto della droga dalle “filiali”… Anche Di Lauro ha la sua rete di negozi in Europa, oltre ad avere più di una fabbrica in Italia. So che uno di questi negozi, si trova a Parigi ed è gestito da un cognato di Aniello La Monica, che è rimasto con Di Lauro. Sempre a Parigi, Di Lauro ha un altro negozio gestito da tale Enrico Petersen. Costui, negli anni Ottanta, era titolare di un locale nella zona di Posillipo, che peraltro fu incendiato proprio da me. Altri negozi di abbigliamento, Di Lauro li ha in Olanda. Ancora, so che Di Lauro ha investito molti soldi in Grecia…».
LA STRUTTURA DELLA COSCA – Prima della faida e del consequenziale passaggio del comando nelle mani del figlio maggiore, Cosimo, il gruppo era strutturato come un’azienda: un consiglio di amministrazione, al quale partecipavano i vari soci del boss (Rosario Pariante, Raffaele Abbinante, Enrico D’Avanzo, Maurizio Prestieri), presieduto dallo stesso Paolo Di Lauro, che sovrintendeva al controllo e alla gestione di trenta piazze di spaccio, ognuna affidata a un responsabile, da cui dipendono da un punto di vista funzionale e organizzativo gli spacciatori, le vedette, i custodi dello stupefacente e i fiancheggiatori. Ogni piazza di spaccio aveva una propria contabilità ed era obbligata ad acquistare la droga da vendere al dettaglio solo presso il sistema-Di Lauro, che lucrava una maggiorazione del cinque per cento circa rispetto al prezzo di mercato.
Al ramo commerciale, specializzato negli stupefacenti, il clan aveva affiancato un potente “braccio armato” – composto da killer spregiudicati in grado di tenere testa alle più agguerrite organizzazioni criminali della Campania – e un “braccio finanziario”, che resta, tuttora, l’oggetto misterioso nelle indagini sul clan Di Lauro. La chiave del forziere, in pratica, che custodisce i segreti dell’impero economico costruito in vent’anni di crimine dal boss che amava giocare a poker.
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