mercoledì 18 novembre 2009

La camorra dei "faiano"

I gruppi criminali di seconda generazione, che hanno provato a sostituirsi ai Mariano nella gestione degli affari illeciti nei Quartieri Spagnoli e a Chiaia, hanno conquistato – ciascuno – un proprio spazio operativo, senza però mai riuscire a imporsi sul territorio in maniera completa e definitiva, come accaduto – tra la metà degli anni Ottanta e metà degli anni Novanta – al clan dei “Picuozzi”.
Nuove tensioni sono nate, negli ultimi tempi, per la scarcerazione di vecchi malavitosi, che hanno scontato lunghi periodi di detenzione e, una volta usciti, si sono rimessi in circolazione.
Un processo simile è accaduto ai Mariano, con la liberazione di Marco Mariano, che ha acceso i conflitti con la famiglia Ricci, sostenuta dai Sarno, e con quelle di Luigi e Mario Di Biasi, indicati dagli inquirenti come i nuovi punti di riferimento nell’area di Montecalvario.
CLAN DI BIASI – Il gruppo dei Di Biasi si afferma agli inizi degli anni Novanta, quando i fratelli Ciro, Gianfranco e Antonio, armi in pugno, partono all’assalto della roccaforte dei Mariano. I loro affari sono limitati al racket delle estorsioni, allo sfruttamento della prostituzione e all’usura. Il soprannome dei componenti del sodalizio, i cosiddetti “faiano”, è la storpiatura dialettale del nome di un animale selvatico. Pur senza un numeroso esercito, i Di Biasi riescono a conquistare, vicolo dopo vicolo, piazzetta dopo piazzetta, spazi importante per l’avvio del mercato della droga, che consente loro di ottenere i primi capitali da reinvestire e ripulire.
Il più carismatico degli otto fratelli, Ciro Di Biasi, scamperà più volte alle trappole tesegli dagli avversari nel corso degli anni. Ferito gravemente nel corso di un agguato, Ciro Di Biasi confidò all’allora sostituto procuratore Franco Roberti i nomi di esecutori e mandanti del tentato omicidio, convinto di essere sul punto di morire, salvo poi ritrattare una volta ripresosi e chiamato a testimoniare, in aula, sulle sue dichiarazioni registrate di nascosto nel letto d’ospedale.
Un altro fratello, Giuseppe, era soprannominato ’o professore, perché – per un breve periodo – era stato iscritto alla facoltà di Giurisprudenza dell’università “Federico II”.
CLAN TERRACCIANO – Più che una cosca, è una famiglia che ha fatto dell’illegalità e della violenza il carattere distintivo della propria attività. Nell’aprile del 2006, una inchiesta della Dda di Napoli, condotta dai pm Raffaele Marino e Sergio Amato, scoperchia gli affari illeciti del sodalizio, mandando in galera dodici persone, tutte imparentate tra di loro, che formavano il nucleo principale della famiglia. Fratelli, sorelle, cognati e zii che gestivano, nel cuore della vecchia Napoli, il commercio di stupefacenti, il gioco d’azzardo, l’usura e il pizzo. In quell’occasione, finì in carcere anche Salvatore Terracciano, detto ’o nirone, già killer dei Mariano che, uscito indenne da una serie di lunghi e articolati processi per omicidio, ottiene la liberazione in concomitanza con il declino del suo originario clan. Resosi autonomo, fondò un proprio gruppo e si avvicinò all’Alleanza di Secondigliano, a quel tempo cartello incontrastato del crimine nella città di Napoli. Ne seguirono gli scontri con i superstiti dei “Picuozzi” e con la famiglia Russo, il cui padrino – Domenico Russo, soprannominato Mimì dei cani – venne ammazzato nel 1999, all’uscita da una salumeria.
Ma è soprattutto il legame parentale tra i componenti a rendere sempre più forte il clan Terracciano. Prendono di mira tutti coloro che tentano di sfuggire al loro controllo: in particolare, una famiglia il cui unico torto era quello di avere un parente che frequentava i figli di Mimì dei cani, l’avversa famiglia Russo. È la donna della famiglia che subisce continue minacce a raccontare agli inquirenti una storia fatta di violenza e intimidazioni. Vessazioni, quelle messe in atto dai Terracciano, che incendiano la loro porta di casa, sparano a suo figlio, chiedono al marito 1000 euro a settimana per la sua illecita attività di ricettatore di ciclomotori rubati.
CLAN LEPRE – L’esordio criminale di Ciro Lepre, detto ’o sceriffo, risale al 17 ottobre del 1991, quando - insieme a un pregiudicato dei Quartieri Spagnoli – viene fermato da una pattuglia della polizia. A quel tempo, il nome di Ciro Lepre fa parte della lunga lista di affiliati del clan Mariano. Grazie alla fiducia del vice di Ciro Mariano, Enzo Romano, riesce a ottenere il ruolo di capozona nel Cavone, dove – in pochi anni – riesce a formare un proprio gruppo indipendente. Il clan inizia a caratterizzarsi, fin da subito, per le puntuali azioni di “rastrellamento” nei confronti di piccole attività commerciali e negozi di piazza Dante; in un’occasione, nell’agosto del 2000, gli estorsori del clan Lepre si presentarono due volte, nello stesso mese, dalle vittime per chiedere altri soldi in quanto gli onorari degli avvocati del boss stavano salendo vertiginosamente.
Il bunker del gruppo viene posizionato, strategicamente, in via Francesco Saverio Correra, dove il 14 gennaio di tre anni fa, un commando di killer cerca di ammazzare il padrino, scaricandogli addosso un intero caricatore di pistola. Lepre, però, riesce a scampare all’agguato e resta ferito, in maniera non grave, al volto. L’anno dopo, sarà arrestato perché, per la settimana volta, aveva violato gli obblighi della sorveglianza, facendosi trovare dalle forze dell’ordine in compagnia di pregiudicati o appartenenti ad organizzazioni camorristiche.
Il clan, messo in difficoltà dalle inchieste della procura partenopea, ha subito un ulteriore scacco con l’arresto del fratello di Ciro Lepre, Patrizio, detto ’o ninnillo, e del braccio destro di questi, Luigi Cianciulli, detto bibì, accusati di aver imposto il pagamento della tassa della tranquillità a un commerciante di piazza Dante e a un venditore ambulante della Pignasecca.

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