di Rocco Traisci
Sapevano di essere indagati. E i capi del direttivo scanzanese avevano deciso di inviare in Germania Raffaele Polito per una plastica facciale. Insieme a Cavaliere, il futuro collaboratore di giustizia era in odore di arresto e solo una nuova identità lo avrebbe messo al riparo dalla morte. A raccontare il clamoroso retroscena, proprio il pentito: “Incontrai Enzo D’Alessandro e Salvatore Belviso a Rimini, presso il centro commerciale ‘Le Befane’, nei giorni in cui ero latitante volontario a Ravenna. Enzo mi prese in disparte e mi disse che io e Cavaliere eravamo stati riconosciuti come esecutori del delitto Tommasino. Mi disse senza problemi che avrebbe dovuto ucciderci per salvaguardare gli interessi della cosca”. Ma si trattò solo di una minaccia, per impaurire un ragazzo che solo da un anno e mezzo aveva giurato fedeltà alla cosca e che poteva rappresentare l’anello debole della catena. Ci vide giusto, il boss. Sospettava pentimenti e collaborazioni, ma non se la sentì di eliminarlo subito. E così gli propose un viaggio in Germania, dove avrebbe continuato la sua latitanza: “Disse che dovevo effettuare un intervento chirurgico per modificare alcuni tratti del mio volto e rendermi così irriconoscibile ai poliziotti che mi davano la caccia”. Cavaliere, no. Renato era considerato un capo, invulnerabile a qualsiasi pressione esterna, affiliato di lungo corso, insomma una garanzia. Eppure anche lo ‘zio’ cadde in errore: il 10 marzo, poco dopo la mezzanotte, Cavaliere veniva controllato dalla polizia giudiziaria ad Acquapendente, sulla A1 all’altezza di Viterbo. Era a bordo di una Fiat Marea in compagnia di uno dei napoletani che avevano organizzato il rifugio a Pian Castagnaio di Polito.
Era la stessa auto che il giorno prima era stata fermata a Scanzano dai poliziotti stabiesi: in quel frangente Belviso e Cavaliere furono beccati mentre trasferivano valigie e borsoni nella Fiat Marea.
Quell’episodio rappresentò la punta dell’iceberg per la chiusura dell’inchiesta. Già da alcuni mesi a Scanzano l’aria che tirava dopo l’omicidio Mascolo era diventata plumbea. La rete di intercettazioni era stata lanciata quasi a casaccio tra Scanzano e Santa Caterina e qualsiasi discorso compromettente avrebbe potuto rappresentare un indizio nelle mani degli investigatori. Che fare? Già a gennaio l’opera di ‘pulizia’ non era stata ancora completata, c’erano ancora due o tre cose da sistemare. Soprattutto la faccenda Tommasino, qualsiasi fosse stato il movente, non poteva più essere rinviata. Lo stesso Pasquale d’Alessandro si trovò costretto a rendersi irreperibile: da dicembre in poi - dopo il delitto Mascolo, appunto - non si sarebbe presentato più in commissariato per assolvere l’obbligo di firma. Ma valeva la pena rischiare. La Dda aveva già incardinato un’inchiesta penale a carico del clan D’Alessandro, le informative della polizia schizzavano in procura a cadenza quasi quotidiana, i carabinieri ascoltavano testimoni, prendevano informazioni, mettevano a soqquadro i quartieri della camorra stabiese. Insomma, la tensione si tagliava con il coltello. Da qui - secondo gli inquirenti - sarebbe maturata la clamorosa decisione di sgombrare il campo da pericolosi colpi di scena e infatti quando il 3 febbraio i riflettori delle cronache nazionali si concentrarono sul delitto Tommasino, anche i D’Alessandro si resero conto che solo un passo indietro avrebbe potuto limitare i danni giudiziari. Eliminare o far scomoparire i killer sotto inchiesta, per ritardare il corso degli eventi, prendere tempo e soprattutto riflettere.
(Tratto da www.metropolisweb.it)
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento