Più che un clan nel senso classico del termine, è una struttura affaristico-criminale tentacolare, che monopolizza e distorce l’economia di quattro quartieri e fattura, ogni mese, decine di milioni di euro. La banda del boss Edoardo Contini controlla traffico di stupefacenti, racket, prostituzione, gioco d’azzardo, armi e usura: un campionario completo di reati che alimenta un giro di affari enorme, in cui si mescolano, fino a confondersi del tutto, attività lecite e illecite, business puliti e business sporchi.
Gli uomini di Edoardo ’o romano, così soprannominato per i suoi trascorsi giovanili nella Capitale, si trovano ovunque, tra il Vasto, l’Arenaccia e Poggioreale, con una significativa presenza a Secondigliano e nel vicino quartiere di San Pietro a Patierno, un tempo roccaforte del capozona Salvatore Botta. I sismografi dell’Antimafia hanno registrato, negli ultimi tempi, scosse di assestamento anche a Forcella, il rione al centro della contesa criminale tra quel po’ che resta del vecchio clan Giuliano e gli emergenti dei Mazzarella, dove Patrizio Bosti, numero due della cosca e cognato plenipotenziario di Edoardo Contini, aveva già da tempo iniziato una lunga e silenziosa “colonizzazione”, dimostrata – peraltro – dalla circostanza, ben nota agli inquirenti, che a offrire appoggio alla latitanza di Bosti in Spagna fosse la famiglia Bastone di Forcella.
Nata come “costola” della Nuova famiglia a metà degli anni Ottanta, come recita una richiesta di arresto firmata dall’allora giudice istruttore Bruno D’Urso nei confronti di Gaetano Bocchetti e Salvatore Schisano, nella quale per la prima volta si parla del padrino Edoardo Contini, l’organizzazione ha acquisito un peso strategico nelle dinamiche mafiose cittadine solo alcuni anni dopo, quando è entrata a far parte dell’Alleanza di Secondigliano, il maxi-cartello criminale che ha unito, in una sola direzione di carattere strategico, le famiglie Licciardi, Mallardo e Contini, appunto. E, fin dall’inizio, si intuiscono le diverse aspirazioni dei fondatori.
Il padrino di San Giovanniello, il budello di strade dove è nato, più che del lavoro sporco, di cui si occupano i killer della Masseria Cardone, si specializza infatti nel ramo economico-finanziario, abbandonando coppola e lupara e indossando il doppiopetto.
Per i magistrati della Dda Franco Roberti e Barbara Sargenti, ’o romano è stato «l’ispiratore delle nuove e più agguerrite dinamiche imprenditoriali della camorra, avendo costituito, nel corso degli anni, un vero e proprio impero economico che ha continuato a gestire con ferrea determinazione anche nel corso della latitanza, avvalendosi di un vasto giro di alleanze con altri esponenti apicali delle organizzazioni criminali campane».
L’ombrello dell’“Alleanza” da un lato assicura ai Contini il rispetto e la collaborazione con una sostanziosa fetta del tessuto criminale metropolitano (famiglie di affiliati si sono trasferite, nel corso degli anni, dall’Arenaccia al Cavone, alla Sanità, a Miano, diventando vere e proprie “cellule dormienti”) ma dall’altro li espone alla feroce contrapposizione armata con il cartello Misso, Mazzarella e Sarno, che cerca di arginare lo strapotere dei “secondiglianesi”.
Ne nasce una guerra furibonda, che dilaga in gran parte del capoluogo e vede le bocche di fuoco rivali sfidarsi – a ogni ora del giorno e della notte – in strada a colpi di pistola e mitraglietta. La rottura dei rapporti con i Giuliano di Forcella, a quel tempo comandati ancora da Loigino, apre un doppio fronte di battaglia per i killer dell’Alleanza. Nella seconda metà degli anni Novanta, Napoli assomiglia a una città-stato mediorientale: per annientare i rivali, si ricorre alle autobombe (a Ponticelli e alla Sanità) e ai colpi di bazooka (a Pianura). Nessuno può sottrarsi alla discesa nell’arena, anche se il rischio è molto alto. Il punto più cruento è l’attentato, davanti al carcere di Poggioreale, che porta all’uccisione dell’anziano Francesco Mazzarella, che sosta davanti al portone del penitenziario in attesa della imminente liberazione di suo figlio Vincenzo.
Agli inizi del Duemila, il clan Contini supera la fase più drammatica e avvia una strategia di “inabissamento” che lo porta a scegliere la strada della diplomazia più che della violenza.
I quartieri controllati dalla cosca diventano gli snodi centrali per il traffico di cocaina e assicurano tanti di quei soldi che sarebbe stupido rischiarli per una manciata di banconote in più, entrando in collisione con clan più poveri e disperati. Il segno di questa nuova tattica criminale sta tutto nelle parole di un pentito, che afferma: «So che per le estorsioni a piazza Nazionale, è stato raggiunto un patto tra i Contini e i Mazzarella». Gli acerrimi nemici di un tempo hanno lasciato le rivoltelle nelle fondine e si sono accordati, in ossequio al supremo principio degli affari.
Le lunghe fughe del padrino non impediscono all’organizzazione di continuare a crescere, senza però cadere nell’errore compiuto dai “secondiglianesi” di Gennaro Licciardi; senza cioè tentare l’espansione territoriale incontrollata, per annettere – in preda a una bulimia mafiosa – nuovi quartieri sotto il proprio controllo.
Le inchieste della magistratura colpiscono duramente la cosca di San Giovanniello e, grazie al lavoro dei pm (Gay, Mancuso, Bobbio, De Simone, Narducci), l’ala militare viene quasi completamente smantellata. Le indagini patrimoniali sull’impero economico della famiglia Contini portano a decine di sequestri e confische. Nel giro di pochi, il clan perde ville, appartamenti, aziende di arredamento e abbigliamento, auto e moto di grossa cilindrata, conti correnti, appezzamenti di terreno e quote societarie. Passano allo Stato beni per centinaia di miliardi di lire, che vengono ben presto sostituiti grazie ai flussi ininterrotti di denaro alimentati da un network affaristico nel quale trovano posto non solo gente di strada, ma insospettabili colletti bianchi e imprenditori chiacchierati.
Si scopre così che Edoardo Contini riscuote non solo il pagamento di una tangente dalle ditte vincitrici di lucrosi appalti nelle aree da lui controllate, ma impone l’affidamento di lavori in subappalto ad altre aziende a lui vicine. Un sistema che moltiplica gli introiti e al quale nessuno può sfuggire, se si pensa che, secondo una inchiesta dell’aprile 1994, finanche l’impresa che prese parte alla costruzione di alcuni uffici della Procura della Repubblica partenopea, al Centro direzionale, dovette pagare 300 milioni di lire agli emissari del padrino.
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