sabato 14 novembre 2009

La storia del clan Mariano

I Quartieri Spagnoli sono un apparente piccolo “feudo” di camorra, al comando del quale – nel corso degli anni – si sono avvicendati, spesso dopo cruenti faide, gruppi criminali più o meno organizzati, molti dei quali sono stati distrutti dalle indagini della magistratura.
La «colonizzazione» mafiosa del labirinto di stradine che sovrasta via Toledo e piazza Trieste e Trento inizia a metà degli anni Ottanta con i tre fratelli Mariano, Ciro, Marco e Salvatore.
Gli accordi con la famiglia Giuliano e, successivamente, con i Licciardi e i Contini consentono al clan di prosperare in relativa solitudine: controllare i Quartieri Spagnoli significa, anzitutto, poter rastrellare in tranquillità le molte e ricche attività commerciali di Chiaia e approfittare di un territorio tutto sommato inaccessibile ai nemici e alle forze dell’ordine, nel quale stoccare e smerciare migliaia di dosi di eroina, protetti da invisibili vedette e dall’oscurità dei vicoli.
Fin da subito, l’economia del clan appare florida e permette il rafforzamento dei sistemi di difesa attiva, con l’acquisto di partite di armi e la costituzione di batterie di “picchiatori” – nel gergo camorristico così si chiamano a quel tempo i killer – capaci di tenere testa agli eventuali rivali. Ogni settimana, la cosca incassa decine e decine di milioni, a cui si aggiungono i proventi del lotto clandestino e del totonero, che i “quartierani” dividono in parti uguali con Forcella e con l’Alleanza di Secondigliano, e il pizzo sui femminielli che ricevono i clienti nei bassi e in postriboli fronte strada.
L’unico gruppo che si contrappone inizialmente ai piani di espansione dei Mariano è capeggiato dall’ex cutoliano Mario Savio, soprannominato ’o bellillo, che ben presto però emigra a Milano ed esce dai giochi delle alleanze e delle vendette perché arrestato e condannato all’ergastolo per omicidio.
La forza del clan Mariano consiste nell’esercito di giovani sbandati che cercano sostegno economico e folli sogni di gloria nella vita di strada; le bande di killer presidiano il bunker a ogni ora del giorno e della notte, mentre le paranze di estorsori raccolgono il pizzo. Gli affiliati finiti in carcere vengono stipendiati ugualmente dall’organizzazione, che provvede anche a pagare gli onorari degli avvocati impegnati nei processi. È un meccanismo di assistenza che nasce e si sviluppa proprio per evitare eventuali desideri di collaborazione con la giustizia.
Il più carismatico dei fratelli, Ciro, coltiva con cura quasi maniacale il culto della sua personalità, tant’è che uno dei primi pentiti della cosca, Pasquale Frajese, dirà ai magistrati antimafia: «Eravamo tutti innamorati di Mariano». A quell’epoca, è facile incrociarlo nei night di piazza Municipio, o nei locali di Mergellina, attorniato dai guardaspalle e avvinghiato alle generose curve di spogliarelliste e prostitute d’alto bordo.
A metà degli anni Novanta, il potere della famiglia dei “Picuozzi” si rafforza ancora, tanto da arrivare a controllare corso Vittorio Emanuele, il Rettifilo e la zona del Museo Nazionale, oltre a una porzione di Fuorigrotta. Una espansione che comporta, però, le prime difficoltà di gestione degli affiliati e il sorgere di motivi di scontro interno, culminati nella prima tragica scissione ad opera di Antonio Ranieri e Salvatore Cardillo, che accuseranno i vertici del clan di non aver pagato le quote pattuite per una compravendita di armi. È uno scossone, all’interno degli equilibri perfetti dell’organizzazione, che provoca le prime fratture nelle fondamenta di paura e omertà su cui poggia la sopravvivenza stessa della cosca.
La guerra contro i Di Biase, altra storica famiglia di malavita originaria dei Quartieri Spagnoli, che lascia sull’asfalto macchiato di sangue oltre dieci morti, è l’errore strategico che porta alla distruzione dell’organizzazione.
Gli omicidi a catena sortiscono, infatti, un immediato effetto: la magistratura punta i riflettori sui torbidi affari che si consumano nel buio dei vicoli dei Quartieri Spagnoli e inizia a indagare.
I risultati, naturalmente, non tardano ad arrivare. Il pm Federico Cafiero De Raho, ben prima di smantellare i Casalesi con la monumentale inchiesta “Spartacus”, ricostruisce l’organigramma della cosca dei “Picuozzi” e ordina decine di arresti, avvalendosi delle testimonianze rese dalla pentita Carmela Palazzo, soprannominata “Cerasella”, che così riesce a vendicarsi degli assassini di suo fratello, ammazzato nel corso di una sparatoria.
Il boss Ciro Mariano viene arrestato in un ristorante di Roma, mentre è a pranzo con alcuni uomini d’affari della Capitale. Il suo tentativo di mimetizzarsi all’ombra del Colosseo non è servito.
Le cronache giudiziarie dell’epoca raccontano il tentativo, da parte del padrino, di acquistare – attraverso un complesso gioco di scatole cinesi e prestiti concessi da prestanome – la metà del Teatro Politeama, per una cifra vicina ai 250 milioni di lire. E insieme a lui finiscono in galera, nel giro di pochi anni, luogotenenti e gregari del sodalizio, oltre agli altri due fratelli, Marco e Salvatore.
Le durissime condanne, confermate in Appello e in Cassazione, impediscono qualsiasi altra possibilità di riorganizzazione della cosca. Dalla fine degli anni Novanta, dunque, i Quartieri Spagnoli non hanno più padrone.
Il vuoto lasciato nelle dinamiche criminali cittadine porta, com’è ovvio, a nuovi assetti delinquenziali nella zona, che finisce dapprima sotto il controllo dei Russo-Lepre (alleanza nata grazie matrimonio tra la figlia di Ciro Lepre e il figlio del boss Domenico Russo, soprannominato Mimì dei cani), che vedono nel padrino Giuseppe Misso il loro naturale referente, e poi dei Di Biase, dei Terracciano e dei Ricci, questi ultimi con la collaborazione dei Sarno di Ponticelli.
L’esiguità degli affiliati e la mancanza di una organizzazione radicata sul territorio, dove hanno continuato nel frattempo a operare in libertà frammenti del clan Mariano e nuove bande, come le “Teste matte”, hanno impedito la crescita di una leadership camorristica capace di prendere le redini del malaffare locale e di imporre una tregua alla filiera di attentati, agguati e intimidazioni che, da dieci anni almeno, scandiscono le successioni allo scettro.
Il risultato è che l’area è particolarmente pericolosa, per non dire esplosiva, dal momento che rappresenta un obiettivo di conquista di sicuro “prestigio” nel mondo del crimine partenopeo. Un pentito disse, infatti: «Controllare i Quartieri Spagnoli significa controllare il centro di Napoli».

1 commento:

  1. Essendo nato e cresciuto nei quartieri spagnoli ho conosciuto in prima persona tanti camorristi e 50 anni dopo ho appreso da terzi le mie origini che sono collegate ad essi ma non e' per questo che commento ma per precisare che il clan Terracciano non e' nato negli anni 80 e che gia' esisteva negli anni 50 e chissa' da quando!Io ricordo molti nomi del clan,c'era Peppe e cemmeraglie,Sisina a pachiochia,o'nevaioule,pascalotto magniaricotta etc etc...
    Per motivi personali ancora oggi sono in cerca di dati ma essendo trascorso troppo tempo diventa sempre piu' difficile risalire nel tempo.Ho commentato per precisare e magari essere utile!

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