L’atmosfera velenosa e la violenza che si respirano nelle terre di camorra portano non soltanto alla nascita di grandi imperi criminali e serie infinite di morti e regolamenti di conti. L’atmosfera velenosa e la violenza dei quartieri di camorra si riconoscono anche in tanti altri gesti, spesso piccoli o insignificanti, che indicano il livello di infiltrazione della prepotenza nella vita di tutti i giorni e nei comportamenti di tutti i giorni.
Ne è un esempio un episodio che accade nel gennaio di due anni fa, quando una ragazzina di tredici anni torna a casa, sanguinante, con una vistosa ferita all’occhio destro. Ai medici dell’ospedale “Vecchio Pellegrini”, dove i genitori la accompagnano immediatamente, la giovanissima vittima racconta di essere stata aggredita in via Girardi. La ferita non è grave, se la caverà in una decina di giorni, ma è il contesto in cui è maturato il raid a preoccupare, visto che appena quattro giorni prima un giovane, Luigi Sica, è stato accoltellato a morte.
Le indagini avviate dal commissariato di Montecalvario risolvono il giallo in un paio di giorni: non è stato uno scherzo finito male a provocare la lesione, né è opera di qualche tossicodipendente in crisi di astinenza, ma si tratta di un vero e proprio atto di teppismo nei confronti della tredicenne, affrontata – molletta in pugno – da una ragazzina, di appena un anno più giovane, nipote di uno dei boss dei Quartieri Spagnoli e figlia di un pregiudicato del posto, in carcere per droga.
Una sfida con la lama, proprio come nei film dei guappi di fine Ottocento. La 12enne, che non è imputabile, viene riaffidata alla famiglia, con l’accusa di porto e detenzione di arma da taglio e lesioni.
Il motivo dell’aggressione non si scoprirà mai, ma non è importante. A ben guardare le cronache giudiziarie degli anni scorsi e anche quelle attuali, infatti, nei Quartieri Spagnoli un ruolo di primo piano nella gestione degli affari di camorra viene ricoperto dalle donne, fidanzati e mogli dei boss detenuti o uccisi, che ne prendono il posto e finiscono per diventare veri e propri padrini in gonnella. Il rispetto delle regole e il rispetto di quella strana concezione di sé che i camorristi chiamano onore porta a strane mutazioni, anche nei giovanissimi, convinti – erroneamente – di essere chiamati un giorno a sostituire padri e zii nelle gerarchie criminali locali.
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L’ascesa al potere del clan Di Biasi è contrassegnata da lutti e violenze che non risparmiano nemmeno gli anziani genitori dei boss. Una lunga catena di rappresaglie e vendette che giungono al termine soltanto con l’annientamento dei rivali.
Le alleanze che il gruppo di Montesanto riesce ad allacciare derivano tutte, in realtà, dalla contrapposizione frontale ai Mariano, la famiglia malavitosa più potente dei Quartieri Spagnoli, secondo il vecchio principio: il nemico del mio nemico è mio amico.
Negli anni Ottanta, nascono così i rapporti con gli scissionisti del clan Mariano e con la nascente organizzazione delle Teste matte, che provano a ridimensionare il potere dei Picuozzi a suon di attentati e omicidi; mentre in tempi più recenti, le informative delle forze dell’ordine parlano di un rinnovato interesse dei Sarno e dei Misso nei confronti delle nascenti organizzazioni che, reclutando i vecchi soldati di strada, tentano di imporsi in un territorio ad altissima densità criminale. Gli equilibri sono però talmente fragili e fluidi da rendere impossibile una mappatura reale degli accordi criminali esistenti tra i diversi sodalizi.
Sul fronte delle rivalità, invece, il discorso è ancora più complesso, perché i Di Biasi non solo devono sostenere la guerra contro il cartello dei Mariano, che possono godere dell’appoggio dei Giuliano di Forcella e dei Licciardi-Contini di Secondigliano, ma sono costretti a ribattere, colpo su colpo, pure all’offensiva del gruppo Russo. Una contrapposizione, iniziata come una vera e propria faida familiare, che si trasforma in una mattanza, da una parte e dall’altra. Perché, ad appoggiare i Russo, nei Quartieri Spagnoli, agli inizi degli anni Duemila, si insediano alcune famiglie di pregiudicati del Cavone, fedelissimi del boss Ciro Lepre.
Il clan Lepre, che comanda la zona tra piazza Dante e piazza Mazzini, cerca infatti di riconquistare posizioni nel dedalo di vicoli a ridosso di via Toledo dopo la scissione, avvenuta alcuni anni prima, ad opera di Salvatore Piccirillo, cognato dei Mariano, che assicurava alla cosca una stabile posizione di supremazia nei quartieri di Chiaia e dell’Avvocata. Un’alleanza, quella tra i Lepre e i Russo, che viene ulteriormente rafforzata dal matrimonio che unisce il figlio di Domenico Russo, soprannominato Mimì dei cani, e la figlia di Ciro Lepre.
Lo scontro si allarga così ad altre aree della città, finendo per coinvolgere finanche gli affiliati alla cosca dei Frizziero, decimata dagli arresti e dalle inchieste della magistratura. Una inchiesta del gennaio del 2004, condotta dal pm Raffaele Marino, attuale procuratore aggiunto a Torre Annunziata, descrive proprio la convergenza di interessi criminali tra i Di Biasi e i Frizziero per la gestione del malaffare nell’area della Torretta e di Mergellina. Un business che fa gola a tante organizzazioni, pronte a sfidarsi a viso aperto nel bel mezzo della città.
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Con i soldi incassati dai prestiti a strozzo (con tassi di interesse che potevano arrivare a oltre il 240 per cento della somma iniziale), le femmine d’onore dei Quartieri Spagnoli facevano la bella vita: abiti griffati, appartamenti di lusso e, soprattutto, intere nottate trascorse a giocare al casinò e alle slot machine. È lo scenario desolante che emerge da un’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia che ha portato sotto processo sei donne, tra cui la moglie del boss Luigi Di Biasi, Anna Casella, arrestata dai carabinieri in una sala bingo alle sei meno un quarto del mattino.
Le vittime del giro usurario erano, per lo più, casalinghe, lavoratori precari e disoccupati, che chiedevano in prestito piccole somme per arrivare a fine mese, o per affrontare un periodo di malattia.
Nei confronti di chi non pagava scattavano minacce, attentati e pignoramenti dei mobili. Il sistema utilizzato dalle donne del clan è chiamato, in gergo, del “conto a perdere”: la vittima, mensilmente, versa un importo pari al 10 o al 20 per cento del capitale fino alla sua completa restituzione. Basta saltare una rata, però, e il debito aumenta a dismisura, fino a renderne impossibile l’estinzione.
Ad avviare l’indagine, una denuncia di una donna, con i due figli e i genitori in carcere per droga e un marito disoccupato, che per aver chiesto mille euro di prestito è stata costretta a pagarne 18mila in contanti, perché – per pagare un’usuraia – si era rivolta a una donna del suo stesso giro, manifestando così le proprie difficoltà economiche. La vittima era stata obbligata finanche a regalare alle due una parte del mobilio a parziale risarcimento dell’“errore”.
Le indagini dei militati dell’Arma hanno poi portato a ricostruire il meccanismo infernale del prestito a strozzo e all’arresto di sei donne, nei confronti delle quali alcuni pentiti della cosca dei “faiano” avevano rilasciato dichiarazioni d’accusa.
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