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mercoledì 18 novembre 2009

Gli alleati e i nemici dei "faiano"

L’atmosfera velenosa e la violenza che si respirano nelle terre di camorra portano non soltanto alla nascita di grandi imperi criminali e serie infinite di morti e regolamenti di conti. L’atmosfera velenosa e la violenza dei quartieri di camorra si riconoscono anche in tanti altri gesti, spesso piccoli o insignificanti, che indicano il livello di infiltrazione della prepotenza nella vita di tutti i giorni e nei comportamenti di tutti i giorni.
Ne è un esempio un episodio che accade nel gennaio di due anni fa, quando una ragazzina di tredici anni torna a casa, sanguinante, con una vistosa ferita all’occhio destro. Ai medici dell’ospedale “Vecchio Pellegrini”, dove i genitori la accompagnano immediatamente, la giovanissima vittima racconta di essere stata aggredita in via Girardi. La ferita non è grave, se la caverà in una decina di giorni, ma è il contesto in cui è maturato il raid a preoccupare, visto che appena quattro giorni prima un giovane, Luigi Sica, è stato accoltellato a morte.
Le indagini avviate dal commissariato di Montecalvario risolvono il giallo in un paio di giorni: non è stato uno scherzo finito male a provocare la lesione, né è opera di qualche tossicodipendente in crisi di astinenza, ma si tratta di un vero e proprio atto di teppismo nei confronti della tredicenne, affrontata – molletta in pugno – da una ragazzina, di appena un anno più giovane, nipote di uno dei boss dei Quartieri Spagnoli e figlia di un pregiudicato del posto, in carcere per droga.
Una sfida con la lama, proprio come nei film dei guappi di fine Ottocento. La 12enne, che non è imputabile, viene riaffidata alla famiglia, con l’accusa di porto e detenzione di arma da taglio e lesioni.
Il motivo dell’aggressione non si scoprirà mai, ma non è importante. A ben guardare le cronache giudiziarie degli anni scorsi e anche quelle attuali, infatti, nei Quartieri Spagnoli un ruolo di primo piano nella gestione degli affari di camorra viene ricoperto dalle donne, fidanzati e mogli dei boss detenuti o uccisi, che ne prendono il posto e finiscono per diventare veri e propri padrini in gonnella. Il rispetto delle regole e il rispetto di quella strana concezione di sé che i camorristi chiamano onore porta a strane mutazioni, anche nei giovanissimi, convinti – erroneamente – di essere chiamati un giorno a sostituire padri e zii nelle gerarchie criminali locali.

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L’ascesa al potere del clan Di Biasi è contrassegnata da lutti e violenze che non risparmiano nemmeno gli anziani genitori dei boss. Una lunga catena di rappresaglie e vendette che giungono al termine soltanto con l’annientamento dei rivali.
Le alleanze che il gruppo di Montesanto riesce ad allacciare derivano tutte, in realtà, dalla contrapposizione frontale ai Mariano, la famiglia malavitosa più potente dei Quartieri Spagnoli, secondo il vecchio principio: il nemico del mio nemico è mio amico.
Negli anni Ottanta, nascono così i rapporti con gli scissionisti del clan Mariano e con la nascente organizzazione delle Teste matte, che provano a ridimensionare il potere dei Picuozzi a suon di attentati e omicidi; mentre in tempi più recenti, le informative delle forze dell’ordine parlano di un rinnovato interesse dei Sarno e dei Misso nei confronti delle nascenti organizzazioni che, reclutando i vecchi soldati di strada, tentano di imporsi in un territorio ad altissima densità criminale. Gli equilibri sono però talmente fragili e fluidi da rendere impossibile una mappatura reale degli accordi criminali esistenti tra i diversi sodalizi.
Sul fronte delle rivalità, invece, il discorso è ancora più complesso, perché i Di Biasi non solo devono sostenere la guerra contro il cartello dei Mariano, che possono godere dell’appoggio dei Giuliano di Forcella e dei Licciardi-Contini di Secondigliano, ma sono costretti a ribattere, colpo su colpo, pure all’offensiva del gruppo Russo. Una contrapposizione, iniziata come una vera e propria faida familiare, che si trasforma in una mattanza, da una parte e dall’altra. Perché, ad appoggiare i Russo, nei Quartieri Spagnoli, agli inizi degli anni Duemila, si insediano alcune famiglie di pregiudicati del Cavone, fedelissimi del boss Ciro Lepre.
Il clan Lepre, che comanda la zona tra piazza Dante e piazza Mazzini, cerca infatti di riconquistare posizioni nel dedalo di vicoli a ridosso di via Toledo dopo la scissione, avvenuta alcuni anni prima, ad opera di Salvatore Piccirillo, cognato dei Mariano, che assicurava alla cosca una stabile posizione di supremazia nei quartieri di Chiaia e dell’Avvocata. Un’alleanza, quella tra i Lepre e i Russo, che viene ulteriormente rafforzata dal matrimonio che unisce il figlio di Domenico Russo, soprannominato Mimì dei cani, e la figlia di Ciro Lepre.
Lo scontro si allarga così ad altre aree della città, finendo per coinvolgere finanche gli affiliati alla cosca dei Frizziero, decimata dagli arresti e dalle inchieste della magistratura. Una inchiesta del gennaio del 2004, condotta dal pm Raffaele Marino, attuale procuratore aggiunto a Torre Annunziata, descrive proprio la convergenza di interessi criminali tra i Di Biasi e i Frizziero per la gestione del malaffare nell’area della Torretta e di Mergellina. Un business che fa gola a tante organizzazioni, pronte a sfidarsi a viso aperto nel bel mezzo della città.

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Con i soldi incassati dai prestiti a strozzo (con tassi di interesse che potevano arrivare a oltre il 240 per cento della somma iniziale), le femmine d’onore dei Quartieri Spagnoli facevano la bella vita: abiti griffati, appartamenti di lusso e, soprattutto, intere nottate trascorse a giocare al casinò e alle slot machine. È lo scenario desolante che emerge da un’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia che ha portato sotto processo sei donne, tra cui la moglie del boss Luigi Di Biasi, Anna Casella, arrestata dai carabinieri in una sala bingo alle sei meno un quarto del mattino.
Le vittime del giro usurario erano, per lo più, casalinghe, lavoratori precari e disoccupati, che chiedevano in prestito piccole somme per arrivare a fine mese, o per affrontare un periodo di malattia.
Nei confronti di chi non pagava scattavano minacce, attentati e pignoramenti dei mobili. Il sistema utilizzato dalle donne del clan è chiamato, in gergo, del “conto a perdere”: la vittima, mensilmente, versa un importo pari al 10 o al 20 per cento del capitale fino alla sua completa restituzione. Basta saltare una rata, però, e il debito aumenta a dismisura, fino a renderne impossibile l’estinzione.
Ad avviare l’indagine, una denuncia di una donna, con i due figli e i genitori in carcere per droga e un marito disoccupato, che per aver chiesto mille euro di prestito è stata costretta a pagarne 18mila in contanti, perché – per pagare un’usuraia – si era rivolta a una donna del suo stesso giro, manifestando così le proprie difficoltà economiche. La vittima era stata obbligata finanche a regalare alle due una parte del mobilio a parziale risarcimento dell’“errore”.
Le indagini dei militati dell’Arma hanno poi portato a ricostruire il meccanismo infernale del prestito a strozzo e all’arresto di sei donne, nei confronti delle quali alcuni pentiti della cosca dei “faiano” avevano rilasciato dichiarazioni d’accusa.

I profili dei padrini Di Biasi

Il personaggio più rappresentativo della cosca dei “faiano”, è certamente Ciro Di Biasi. Sfuggito a un agguato il 16 maggio 1990, nel night “San Francisco”, in piazza Municipio, in cui viene ucciso il suo guardaspalle Umberto Festa, diventa in pochi anni l’antagonista principale del clan Mariano, al quale contende i traffici illeciti nei Quartieri Spagnoli e nella zona di Montesanto. La sua carriera criminale è caratterizzata da numerosi arresti e altrettante scarcerazioni e obblighi di soggiorno al nord, ai quali il boss difficilmente si attiene.
Come capo è in realtà atipico, perché non disdegna di scendere in strada in prima persona a regolare i conti e a taglieggiare le vittime del racket, come dimostra l’indagine a suo carico, risalente al giugno del 1993, nella quale si racconta del sistema utilizzato da Di Biasi per estorcere denaro e gioielli a ballerine extracomunitarie, facendole dapprima avvicinare dalla propria compagna marocchina, con l’intento di metterle in guardia da lui, e poi minacciandole, pistola in pugno, per derubarle dei preziosi. Condotta, peraltro, non nuova visto che, già negli anni Ottanta, il boss era finito in manette perché non aveva pagato sontuosi banchetti in uno dei più noti ristoranti di Chiaia, a cui erano invitate decine di persone.
Insieme a lui, al vertice del clan ci sono i fratelli Gianfranco e Antonio, entrambi deceduti in circostanze drammatiche.
Il primo si toglie la vita, nel dicembre del 1997, lanciandosi dal primo piano dell’Hotel Potenza, alla Ferrovia, dove ha fittato una stanza. Ma è un suicidio che desta subito perplessità tra gli inquirenti, vista l’abilità della vittima nei salti e nelle fughe. Gianfranco Di Biasi, infatti, era stato protagonista, appena un anno prima, di una rocambolesca evasione dal commissariato di Montecalvario con ancora le manette ai polsi. Spinto a terra un ispettore, l’uomo era saltato in strada passando attraverso una finestra aperta. Gianfranco Di Biasi, soprannominato ’o pazzo, verrà catturato, due mesi dopo, in spiaggia a Scauri, da dieci poliziotte in tuta da jogging.
Il secondo, invece, viene ammazzato nel maggio del 1998, mentre si appresta a salire nella sua auto, davanti all’abitazione in via Portacarrese, a Montecalvario. L’uomo, che all’anagrafe di camorra era conosciuto con il soprannome di “pavesino”, non ha via di scampo. Il vicolo cieco nel quale è parcheggiata la sua Fiat Uno gli impedisce qualsiasi possibilità di fuga. Erano passate appena nove ore dall’agguato a Luigi Vastarella, capozona della Sanità per conto dell’Alleanza di Secondigliano, trucidato sulle scale del commissariato Dante, dopo la firma nel registro dei sorvegliati speciali.
La guerra tra le bande dei Quartieri, agli inizi degli anni Novanta, vede protagonista anche la figura di Salvatore Terracciano, soprannominato ’o nirone, coinvolto nell’inchiesta sulla strage del Molosiglio dal pentito Pasquale Frajese, quale killer del clan Mariano. Assolto da quell’accusa, Terracciano – insieme alla sorella Anna, detta ’a masculona, e al fratello Franco – darà vita a una propria organizzazione, attiva nel rione della Pignasecca nella gestione nella vendita di droga, nel racket e nell’usura, ritenuta dagli inquirenti vicina agli scissionisti dei Quartieri Spagnoli, capeggiati da Antonio Ranieri e Salvatore Cardillo.
Di Salvatore Terracciano si occuperanno le cronache giudiziarie l’8 giugno del 1992, quando i residenti del Comune di Pietramelara, in provincia di Caserta, scendono in piazza contro il soggiorno obbligato del boss. Dirà il sindaco: «Bisogna revocare il provvedimento del Tribunale, perché la gente ha paura delle conseguenze che potrebbero derivare al nostro piccolo centro dalla presenza di un elemento della malavita organizzata napoletana». Ma Terracciano si era già dato alla macchia.

La camorra dei "faiano"

I gruppi criminali di seconda generazione, che hanno provato a sostituirsi ai Mariano nella gestione degli affari illeciti nei Quartieri Spagnoli e a Chiaia, hanno conquistato – ciascuno – un proprio spazio operativo, senza però mai riuscire a imporsi sul territorio in maniera completa e definitiva, come accaduto – tra la metà degli anni Ottanta e metà degli anni Novanta – al clan dei “Picuozzi”.
Nuove tensioni sono nate, negli ultimi tempi, per la scarcerazione di vecchi malavitosi, che hanno scontato lunghi periodi di detenzione e, una volta usciti, si sono rimessi in circolazione.
Un processo simile è accaduto ai Mariano, con la liberazione di Marco Mariano, che ha acceso i conflitti con la famiglia Ricci, sostenuta dai Sarno, e con quelle di Luigi e Mario Di Biasi, indicati dagli inquirenti come i nuovi punti di riferimento nell’area di Montecalvario.
CLAN DI BIASI – Il gruppo dei Di Biasi si afferma agli inizi degli anni Novanta, quando i fratelli Ciro, Gianfranco e Antonio, armi in pugno, partono all’assalto della roccaforte dei Mariano. I loro affari sono limitati al racket delle estorsioni, allo sfruttamento della prostituzione e all’usura. Il soprannome dei componenti del sodalizio, i cosiddetti “faiano”, è la storpiatura dialettale del nome di un animale selvatico. Pur senza un numeroso esercito, i Di Biasi riescono a conquistare, vicolo dopo vicolo, piazzetta dopo piazzetta, spazi importante per l’avvio del mercato della droga, che consente loro di ottenere i primi capitali da reinvestire e ripulire.
Il più carismatico degli otto fratelli, Ciro Di Biasi, scamperà più volte alle trappole tesegli dagli avversari nel corso degli anni. Ferito gravemente nel corso di un agguato, Ciro Di Biasi confidò all’allora sostituto procuratore Franco Roberti i nomi di esecutori e mandanti del tentato omicidio, convinto di essere sul punto di morire, salvo poi ritrattare una volta ripresosi e chiamato a testimoniare, in aula, sulle sue dichiarazioni registrate di nascosto nel letto d’ospedale.
Un altro fratello, Giuseppe, era soprannominato ’o professore, perché – per un breve periodo – era stato iscritto alla facoltà di Giurisprudenza dell’università “Federico II”.
CLAN TERRACCIANO – Più che una cosca, è una famiglia che ha fatto dell’illegalità e della violenza il carattere distintivo della propria attività. Nell’aprile del 2006, una inchiesta della Dda di Napoli, condotta dai pm Raffaele Marino e Sergio Amato, scoperchia gli affari illeciti del sodalizio, mandando in galera dodici persone, tutte imparentate tra di loro, che formavano il nucleo principale della famiglia. Fratelli, sorelle, cognati e zii che gestivano, nel cuore della vecchia Napoli, il commercio di stupefacenti, il gioco d’azzardo, l’usura e il pizzo. In quell’occasione, finì in carcere anche Salvatore Terracciano, detto ’o nirone, già killer dei Mariano che, uscito indenne da una serie di lunghi e articolati processi per omicidio, ottiene la liberazione in concomitanza con il declino del suo originario clan. Resosi autonomo, fondò un proprio gruppo e si avvicinò all’Alleanza di Secondigliano, a quel tempo cartello incontrastato del crimine nella città di Napoli. Ne seguirono gli scontri con i superstiti dei “Picuozzi” e con la famiglia Russo, il cui padrino – Domenico Russo, soprannominato Mimì dei cani – venne ammazzato nel 1999, all’uscita da una salumeria.
Ma è soprattutto il legame parentale tra i componenti a rendere sempre più forte il clan Terracciano. Prendono di mira tutti coloro che tentano di sfuggire al loro controllo: in particolare, una famiglia il cui unico torto era quello di avere un parente che frequentava i figli di Mimì dei cani, l’avversa famiglia Russo. È la donna della famiglia che subisce continue minacce a raccontare agli inquirenti una storia fatta di violenza e intimidazioni. Vessazioni, quelle messe in atto dai Terracciano, che incendiano la loro porta di casa, sparano a suo figlio, chiedono al marito 1000 euro a settimana per la sua illecita attività di ricettatore di ciclomotori rubati.
CLAN LEPRE – L’esordio criminale di Ciro Lepre, detto ’o sceriffo, risale al 17 ottobre del 1991, quando - insieme a un pregiudicato dei Quartieri Spagnoli – viene fermato da una pattuglia della polizia. A quel tempo, il nome di Ciro Lepre fa parte della lunga lista di affiliati del clan Mariano. Grazie alla fiducia del vice di Ciro Mariano, Enzo Romano, riesce a ottenere il ruolo di capozona nel Cavone, dove – in pochi anni – riesce a formare un proprio gruppo indipendente. Il clan inizia a caratterizzarsi, fin da subito, per le puntuali azioni di “rastrellamento” nei confronti di piccole attività commerciali e negozi di piazza Dante; in un’occasione, nell’agosto del 2000, gli estorsori del clan Lepre si presentarono due volte, nello stesso mese, dalle vittime per chiedere altri soldi in quanto gli onorari degli avvocati del boss stavano salendo vertiginosamente.
Il bunker del gruppo viene posizionato, strategicamente, in via Francesco Saverio Correra, dove il 14 gennaio di tre anni fa, un commando di killer cerca di ammazzare il padrino, scaricandogli addosso un intero caricatore di pistola. Lepre, però, riesce a scampare all’agguato e resta ferito, in maniera non grave, al volto. L’anno dopo, sarà arrestato perché, per la settimana volta, aveva violato gli obblighi della sorveglianza, facendosi trovare dalle forze dell’ordine in compagnia di pregiudicati o appartenenti ad organizzazioni camorristiche.
Il clan, messo in difficoltà dalle inchieste della procura partenopea, ha subito un ulteriore scacco con l’arresto del fratello di Ciro Lepre, Patrizio, detto ’o ninnillo, e del braccio destro di questi, Luigi Cianciulli, detto bibì, accusati di aver imposto il pagamento della tassa della tranquillità a un commerciante di piazza Dante e a un venditore ambulante della Pignasecca.