mercoledì 18 novembre 2009

I profili dei padrini Di Biasi

Il personaggio più rappresentativo della cosca dei “faiano”, è certamente Ciro Di Biasi. Sfuggito a un agguato il 16 maggio 1990, nel night “San Francisco”, in piazza Municipio, in cui viene ucciso il suo guardaspalle Umberto Festa, diventa in pochi anni l’antagonista principale del clan Mariano, al quale contende i traffici illeciti nei Quartieri Spagnoli e nella zona di Montesanto. La sua carriera criminale è caratterizzata da numerosi arresti e altrettante scarcerazioni e obblighi di soggiorno al nord, ai quali il boss difficilmente si attiene.
Come capo è in realtà atipico, perché non disdegna di scendere in strada in prima persona a regolare i conti e a taglieggiare le vittime del racket, come dimostra l’indagine a suo carico, risalente al giugno del 1993, nella quale si racconta del sistema utilizzato da Di Biasi per estorcere denaro e gioielli a ballerine extracomunitarie, facendole dapprima avvicinare dalla propria compagna marocchina, con l’intento di metterle in guardia da lui, e poi minacciandole, pistola in pugno, per derubarle dei preziosi. Condotta, peraltro, non nuova visto che, già negli anni Ottanta, il boss era finito in manette perché non aveva pagato sontuosi banchetti in uno dei più noti ristoranti di Chiaia, a cui erano invitate decine di persone.
Insieme a lui, al vertice del clan ci sono i fratelli Gianfranco e Antonio, entrambi deceduti in circostanze drammatiche.
Il primo si toglie la vita, nel dicembre del 1997, lanciandosi dal primo piano dell’Hotel Potenza, alla Ferrovia, dove ha fittato una stanza. Ma è un suicidio che desta subito perplessità tra gli inquirenti, vista l’abilità della vittima nei salti e nelle fughe. Gianfranco Di Biasi, infatti, era stato protagonista, appena un anno prima, di una rocambolesca evasione dal commissariato di Montecalvario con ancora le manette ai polsi. Spinto a terra un ispettore, l’uomo era saltato in strada passando attraverso una finestra aperta. Gianfranco Di Biasi, soprannominato ’o pazzo, verrà catturato, due mesi dopo, in spiaggia a Scauri, da dieci poliziotte in tuta da jogging.
Il secondo, invece, viene ammazzato nel maggio del 1998, mentre si appresta a salire nella sua auto, davanti all’abitazione in via Portacarrese, a Montecalvario. L’uomo, che all’anagrafe di camorra era conosciuto con il soprannome di “pavesino”, non ha via di scampo. Il vicolo cieco nel quale è parcheggiata la sua Fiat Uno gli impedisce qualsiasi possibilità di fuga. Erano passate appena nove ore dall’agguato a Luigi Vastarella, capozona della Sanità per conto dell’Alleanza di Secondigliano, trucidato sulle scale del commissariato Dante, dopo la firma nel registro dei sorvegliati speciali.
La guerra tra le bande dei Quartieri, agli inizi degli anni Novanta, vede protagonista anche la figura di Salvatore Terracciano, soprannominato ’o nirone, coinvolto nell’inchiesta sulla strage del Molosiglio dal pentito Pasquale Frajese, quale killer del clan Mariano. Assolto da quell’accusa, Terracciano – insieme alla sorella Anna, detta ’a masculona, e al fratello Franco – darà vita a una propria organizzazione, attiva nel rione della Pignasecca nella gestione nella vendita di droga, nel racket e nell’usura, ritenuta dagli inquirenti vicina agli scissionisti dei Quartieri Spagnoli, capeggiati da Antonio Ranieri e Salvatore Cardillo.
Di Salvatore Terracciano si occuperanno le cronache giudiziarie l’8 giugno del 1992, quando i residenti del Comune di Pietramelara, in provincia di Caserta, scendono in piazza contro il soggiorno obbligato del boss. Dirà il sindaco: «Bisogna revocare il provvedimento del Tribunale, perché la gente ha paura delle conseguenze che potrebbero derivare al nostro piccolo centro dalla presenza di un elemento della malavita organizzata napoletana». Ma Terracciano si era già dato alla macchia.

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