lunedì 7 settembre 2009
Il patto politico-mafioso tra Misso e Conte
Il patto di scambio politico-mafioso tra Roberto Conte, ex consigliere regionale della Margherita, e il gruppo criminale di Giuseppe Misso sta tutto in una frase, intercettata nel 2000, tra Gennaro Palmieri, factotum del padrino del rione Sanità, e Ferdinando Avella, suo medico da oltre vent’anni: «Eh, volevo sapere che ti ha detto Conte, come la vede…». «Bene, bene, le premesse sono buone, mo’ dobbiamo vedere se mettete i soldi sulla banca». La risposta è inequivocabile: «I soldi sulla banca arrivano senz’altro…».
È lo stesso pentito Misso a interpretare questa conversazione nel corso dell’interrogatorio del 3 gennaio 2008: «Quando si parla di soldi che arriveranno senz’altro, ritengo che Palmieri voglia rassicurare Avella circa il fatto che arriveranno senz’altro molti voti per Roberto Conte».
Conte sarà eletto, di lì a poco, al consiglio regionale della Campania con oltre 8mila preferenze.
Le motivazioni della sentenza che ha portato alla condanna a due anni e otto mesi per l’ex esponente del Pd insistono, in particolare, proprio sull’elemento pubblico del suo rapporto con il padrino: «La platealità del patto ha determinato di per sé un effetto di conservazione o di rafforzamento dell’organizzazione camorristica la quale ha reso pubblico di avere ancora contatti con il mondo politico, che il suo capo aveva il carisma e la credibilità per relazionarsi con un politico che, per questa ragione, il suo spessore era diverso da quello dei capi degli altri gruppi che non potevano vantare e, soprattutto, rendere pubblici simili accordi… l’effetto di rafforzamento del sodalizio Misso è stato accentuato dal fatto che Conte, sebbene esponente di una piccola forza politica, è stato eletto. Il gruppo criminale, pertanto, ha saputo puntare sulla persona giusta, che, sebbene facesse parte di un piccolo partito, è stato eletto, così rafforzando il suo ruolo criminale nella città». Il piccolo partito a cui allude il giudice sono i Verdi, con i cui vertici Conte ingaggiò più di un duello che lo portarono a querelare Alfonso Pecoraro Scanio e Grazia Francescato per diffamazione, in quanto avrebbero raccolto e portato in sede di giurì nazionale le voci sulle sue amicizie pericolose con malavitosi del rione Sanità.
La querela di Conte fu archiviata, in compenso – però – furono interrogati, in Procura, Casimiro Monti e Stefano Buono, esponenti del partito del Sole che ride, che confermarono i loro dubbi sul fin troppo disinvolto approccio elettorale di Conte (definito «faccendiere») nel quartiere Stella, dove – rileva il giudice – i Verdi non avevano mai avuto accesso né raccolto alcun voto di preferenza.
Monti arrivò addirittura a dichiarare al Questore dell’epoca, Antonio Manganelli, attuale capo della polizia, che «il partito dei Verdi prendeva le distanze» dall’apertura del comitato elettorale di Conte nel feudo del clan Misso, ospitato in un locale un tempo adibito a bisca clandestina.
Poco tempo dopo la denuncia pubblica di Buono, che dalle colonne della stampa locale attaccava il voto di scambio alla Sanità, l’azienda di suo padre fu divorata da un incendio. Doloso.
(Pubblicato sul quotidiano "Il Roma", settembre 2009)
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