giovedì 24 settembre 2009

I clan in provincia di Caserta

Relazione di maggioranza della commissione parlamentare antimafia
XV Legislatura


Con riferimento alla situazione della criminalità organizzata nella provincia di Caserta le novità emerse dalle più recenti investigazioni dimostrano come, pur in un quadro di apparente stabilità, sia in atto una significativa trasformazione della realtà criminale non soltanto sul versante più strettamente militare ma, anche e soprattutto, su quello dei rapporti con il mondo delle imprese e delle istituzioni. Anticipando qui alcune conclusioni, può certamente affermarsi che, malgrado siano stati inflitti colpi durissimi – anche sul piano patrimoniale – a seguito delle attività della polizia giudiziaria e della magistratura, il controllo del territorio resta fortissimo soprattutto per la capacità mimetica dei sodalizi operanti sul territorio, organizzati più sulla falsariga di quelli siciliani che non sullo schema di quelli napoletani. Il gruppo malavitoso che resta il più forte è quello dei casalesi che opera nella quasi totalità della provincia e, in particolare, nell’agro aversano (e cioè in quella zona confinante con la provincia sud di Napoli), in tutta la zona detta dei «mazzoni», su parte del litorale domizio facente parte del comune di Castelvolturno compreso il cosiddetto «Villaggio Coppola». Il clan dei casalesi risulta mantenere formalmente salda la sua struttura unitaria, di tipo piramidale con un gruppo di comando e con una cassa comune in cui confluiscono i proventi illeciti per l’erogazione centralizzata di uno stipendio ai quadri del gruppo. Le leve del comando fino a poco tempo fa erano saldamente nelle mani della diarchia costituita da Francesco Schiavone detto Sandokan e Francesco Bidognetti, i quali, malgrado fossero detenuti in regime di 41bis, riuscivano ad imporre le proprie direttive quantomeno sulle vicende di maggiore rilevanza. Accanto ai due soggetti sopra citati, in una posizione lievemente inferiore, si posizionavano Michele Zagaria e Antonio Iovine, entrambi da lunghissimo tempo latitanti e, pur nella loro autonomia, collegati più strettamente al gruppo Schiavone. Tutti i soggetti citati avevano propri gruppi di riferimento che operavano su specifiche zone di influenza o in particolari settori, pur nella consapevolezza di far parte di una struttura unitaria. La situazione si è, però, negli ultimi tempi significativamente modificata. Il gruppo Bidognetti è ormai da ritenersi in totale rotta. Nel corso di quest’ultimo anno, poi, alla collaborazione di Luigi Diana si sono aggiunte quelle particolarmente importanti del cugino del capo, Domenico Bidognetti detto «bruttaccione», che aveva avuto importanti incarichi di vertice, e poi, persino, della compagna del boss Francesco, Anna Carrino. Se questi dati vengono letti unitamente alle pesantissime condanne (ad esempio, Francesco Bidognetti è stato, nel corso dell’anno, condannato più volte all’ergastolo, così come il figlio Aniello) inflitte a numerosi esponenti del clan, può giungersi alla conclusione di un pesante e definitivo ridimensionamento del gruppo che già da tempo, del resto, era in posizione subordinata rispetto a quello di Schiavone. All’interno del gruppo Schiavone, rimasto sostanzialmente egemone, sono pure in atto importanti movimenti per ricostruire gli equilibri di potere; la leadership di Francesco Schiavone è di fatto offuscata da varie condanne all’ergastolo che hanno riguardato anche il fratello Walter ed il cugino omonimo detto «Cicciariello». All’interno del gruppo sembra farsi strada il figlio di Francesco Schiavone, Nicola, personaggio tuttora incensurato e particolarmente defilato rispetto alle attività di carattere militare ma molto attivo nel campo imprenditoriale con solidi rapporti nel Nord Italia e nell’Europa dell’est. Con l’arresto di uno dei leader incontrastati di quel gruppo, Luigi Guida, detto «Gigino ’o drink», il gruppo era gestito da soggetti minori di non riconosciuto spessore criminale. Il controllo e la gestione del territorio appaiono sempre più monopolizzati dai gruppi di Michele Zagaria e Antonio Iovine. La loro presenza sul territorio, sia pure in situazione di latitanza, li sta facendo assurgere a veri capi del clan, grazie anche alla loro capacità di inserirsi nel tessuto delle relazioni economiche non solo locali. Zagaria e Iovine stanno, infatti, sempre più trasformando i loro gruppi in imprese con una capacità di controllo di interi settori economici (dalle costruzioni, al movimento terra, al ciclo del cemento alla distribuzione dei prodotti), accompagnata dal tentativo di farsi coinvolgere il meno possibile nelle attività «sporche», interloquendo con l’imprenditoria e con le istituzioni anche di altre realtà non solo campane. Secondo quanto emerso dall’audizione dei sostituti della Procura distrettuale di Napoli in data 30 luglio 2007, da questo quadro criminale in evoluzione (…) potrebbero scaturire anche gravi fatti di sangue contro esponenti delle istituzioni, per la necessità dei nuovi vertici del gruppo sia di dimostrare la capacità di imporsi sul territorio sia di dare «soddisfazione» ai numerosi detenuti condannati con pene pesantissime sia, infine, di impedire nuove scelte collaborative. Del resto, è recente la conclusione del più importante dibattimento riguardante il clan (noto come Spartacus I): con la sentenza, emessa dopo oltre sei anni di dibattimento, sono stati inflitti centinaia di anni di carcere, oltre 20 ergastoli e confiscati beni per svariati milioni di euro. In questo senso va rimarcata l’importante attività di indagine conclusa dalla DdA con riferimento al gruppo Zagaria, che oltre a portare all’arresto dei tre fratelli del latitante e di numerosi affiliati, ha fatto emergere infiltrazioni nel Nord Italia, dove il clan aveva investito nel settore delle costruzioni fino ad arrivare a gestire un cantiere nella centralissima zona di via S. Lucia di Milano. Nell’indagine sono stati arrestati vari imprenditori, fra cui due immobiliaristi di Parma – di recente anche condannati per partecipazione ad associazione camorristica – e sequestrate varie società immobiliari tutte operative al Centro Nord. Il gruppo Zagaria, del resto, era risultato il gestore della distribuzione, in sistema di illegale monopolio, del latte per l’intera provincia di Caserta per conto di uno dei principali gruppi italiani in esso operanti. L’esito del processo, assai negativo per il clan, potrebbe dare la stura ad una ripresa di azioni violente anche eclatanti. La Direzione distrettuale antimafia di Napoli ha evidenziato come sia in atto un impegno significativo per giungere alla cattura dei due latitanti di spicco, e cioè i citati Zagaria e Iovine; il loro arresto rappresenterebbe soprattutto in questa fase un indebolimento del clan che potrebbe persino essere fatale. Dalle indagini è emerso che il clan dei casalesi è particolarmente infiltrato nelle istituzioni politiche e burocratiche della provincia e capace di condizionare il voto soprattutto con riferimento alle elezioni amministrative. Lo dimostrano in modo inequivoco le numerose commissioni d’accesso predisposte dalla Prefettura di Caserta e i numerosi scioglimenti di comuni della provincia. È prepotentemente ritornato anche il voto di scambio – effettuato, in alcuni casi, direttamente con esponenti della criminalità organizzata – sia con il pagamento di somme di denaro sia con la promessa di favori e di posti di lavoro. Preoccupante è quanto emerso con riferimento ad uno dei comuni simbolo del potere del clan, San Cipriano d’Aversa; le indagini hanno dimostrato come era stato assunto da tempo come vigile urbano il fratello del latitante Antonio Iovine, e costui svolgeva di fatto un ruolo di vera e propria dirigenza dell’ufficio, all’interno del quale venivano svolte illecite attività e consumata droga. Pure preoccupante è quanto è stato acclarato nelle indagini su uno dei settori più lucrosi fra quelli connessi al denaro pubblico e cioè la gestione del sistema rifiuti. Il clan dei casalesi era stato in passato indicato come particolarmente attivo nel trasporto e smaltimento di rifiuti tossici ed erano emersi legami persino fra la massoneria deviata ed il sodalizio, finalizzati a far giungere tonnellate di rifiuti tossici e speciali dal nord al sud. La DdA ha dimostrato come il clan si sia infiltrato anche nel settore della raccolta legale dei rifiuti. È emblematica l’indagine sul consorzio di comuni Ce 4, operante nei comuni di Mondragone ed in altri del litorale domizio; sono stati arrestati per reati associativi o comunque per delitti collegati alle attività del clan sia gli imprenditori, partner privati della società mista che doveva occuparsi della raccolta dei rifiuti, sia i vertici del Consorzio, sia numerosi affiliati del clan. Sono state segnalate strane compravendite di terreni nella zona di Villa Literno, terreni successivamente affittati al Commissariato di Governo per il ricovero provvisorio di ecoballe con pagamenti di prezzi molto elevati e senza che il posizionamento dei rifiuti scatenasse alcuna polemica in popolazioni in altre occasioni apparse pronte ad azioni anche di forza per evitare aperture di discariche, siti di stoccaggio eccetera. I soggetti che hanno stipulato i contratti di locazione sono risultati in molti casi imparentati ad esponenti del clan. Si tratta di elementi che, letti unitariamente, dimostrano come il clan dei casalesi abbia ottenuto sistematici vantaggi dalla gestione dell’emergenza rifiuti grazie evidentemente anche a connivenze delle istituzioni politiche e burocratiche. Per quanto riguarda le altre zone del casertano, partendo dal litorale domizio, va segnalato che a Mondragone, dopo la totale eliminazione del sodalizio facente capo alla famiglia La Torre ed alla scelta di collaborare effettuata dal capo di quel gruppo, si è ricostituito un gruppo criminale che ha recuperato vecchi affiliati di seconda fila. Il nuovo gruppo ha iniziato una violenta campagna di attentati contro esercizi. Nell’indagine è risultato coinvolto anche il sindaco di Mondragone, di recente dimessosi dall’incarico, che avrebbe beneficiato durante l’ultima campagna elettorale del sostegno elettorale e di assunzioni di favore da parte del consorzio e della società mista. L’investigazione ha sfiorato anche il Commissariato straordinario di governo per l’emergenza dei rifiuti, nel cui ufficio è risultato essere stato assunto un tecnico sponsorizzato dai vertici della società mista. La scarsissima forza del gruppo – e soprattutto l’assenza di una vera rappresentanza esterna – lo rende di fatto ormai assoggettato a quello casalese che è già in grado di gestire in zona le più importanti vicende estorsive. Nella zona di Sessa Aurunca opera il tradizionale gruppo diretto da Mario Esposito (detenuto in regime di 41bis) e da Gaetano Di Lorenzo (arrestato in Spagna dopo una lunga latitanza e solo di recente estradato e sottoposto al regime di 41bis). Il gruppo, rispetto, al passato appare significativamente indebolito. Nella zona di Marcianise-Maddaloni, a confine sia con il napoletano sia con il beneventano, opera il clan Belforte; si tratta di un gruppo – l’unico della zona – erede della Nco di Cutolo, ma oggi anch’esso alleato – quantomeno non più contrapposto – con i casalesi; la zona su cui esercita il suo predominio criminale è caratterizzata da un importante sviluppo industriale e commerciale; vi sono, infatti, un importante interporto ed un centro orafo di notorietà nazionale (il consorzio Tarì). È un gruppo che ha subito nell’ultimo periodo colpi durissimi che lo hanno decisamente ridimensionato anche se non completamente eliminato. Nella zona fra Marcianise e Caserta stava nascendo un nuovo gruppo criminale che per forza e capacità di espandersi sul territorio era destinato a diventare molto potente; si tratta di un cartello fra clan facente capo a Antimo Perreca. Costui, scarcerato nel 2003 dopo essere stato condannato nel processo cosiddetto «Spartacus II» come partecipe del clan dei casalesi e capozona di Recale, stava mettendo a frutto tutta una serie di rapporti e conoscenze consolidati in carcere. Perreca era riuscito, infatti, a stringere un’alleanza di ferro con il gruppo di San Felice a Cancello facente capo alla famiglia Massaro con il neonato gruppo Fragnoli di Mondragone e, grazie all’alleanza anche con il gruppo Pagnozzi – operante in San Martino Valle Caudina – aveva iniziato ad espandersi nella zona di Benevento ed in parte dell’Avellinese. Perreca aveva, inoltre, creato un forte legame con uno dei potenti gruppi camorristici napoletani operanti soprattutto nel settore dello spaccio e cioè quello dei Birra di Ercolano. Il gruppo che non si poneva – almeno in questa prima fase – in alternativa a quello casalese aveva l’obiettivo ulteriore di scalzare i Belforte da Marcianise in modo da impossessarsi delle numerose attività illecite presenti in quel contesto. L’operazione non sembra, però, andata a buon fine perché, a seguito dell’emissione di ordinanze cautelari nei confronti del gruppo Massaro, hanno deciso di collaborare con la giustizia alcuni esponenti di primo piano del gruppo. L’opzione collaborativa ha permesso di conoscere in tempo i piani criminali di Perreca che è stato raggiunto da ordinanza cautelare per omicidio. Nell’alto casertano – nella zona di Pignataro – opera un gruppo (costituito dalle famiglie Papa, Ligato e Lubrano) che in passato era strettamente collegato con la famiglia mafiosa dei Nuvoletta di Marano e con i corleonesi di Riina. Il gruppo è risultato fortemente indebolito sia dall’omicidio del figlio del capo storico Lubrano, sia dalla definitiva condanna all’ergastolo per l’omicidio Imposimato inflitta allo stesso Lubrano, sia – infine – dall’arresto di Raffaele Ligato, anch’esso condannato in primo grado all’ergastolo per l’omicidio Imposimato.
(Tratto dal libro "Attacco allo Stato", ForumItalia edizioni)

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