giovedì 21 maggio 2009

Il fantasma di Corleone


Sono passati tre anni da quando il «fantasma» si materializzò in una masseria di Contrada dei Cavalli, nel Corleonese: era l’11 aprile 2006 e «Zu’ Binu» fu trascinato fuori dal cono d’ombra che l’aveva protetto per quasi mezzo secolo dagli uomini della Squadra mobile di Palermo e del Servizio centrale operativo. Da allora, non è più l’imprendibile capo della mafia siciliana che beffa investigatori e magistrati riuscendo a evitare la cattura con una puntualità sospetta e sconcertante, ma è un anziano detenuto super-protetto del carcere di Novara. Un anziano detenuto che la fortuna – qualunque divisa essa abbia indossato in questi decenni – ha assistito in maniera così frequente da lasciare l’atroce dubbio della connivenza.
L’ultima volta era stato il 19 settembre del 2004. Era una domenica, e Francesco Pastoia, un fedelissimo di Bernardo Provenzano, doveva incontrarsi con il superboss. Gli investigatori lo sapevano e lo tenevano d’occhio, convinti di essere finalmente vicini alla cattura della primula rossa di Corleone. Anche quel giorno, però, il capo di Cosa Nostra sfuggì all’ultimo minuto, come una vecchia volpe, agli uomini che gli davano la caccia. Seguito e filmato dai segugi dell’antimafia, Siamo a Ciminna, in provincia di Palermo. Il boss viaggia in auto con il suo autista, Angelo Tolentino, insieme guardano nello specchietto retrovisore e impallidiscono. Due giorni dopo, gli investigatori apprendono della cattura, anche stavolta solo sfiorata, da una intercettazione: «L’altro ieri per tanto non ho attummuliato - confida Tolentino a un amico - tanto tanto che ho detto: stavolta è finita...». Pochi minuti dopo, zu’ Binu era già in salvo. Altro arresto sfiorato, quando si pente Nino Giuffrè, ex braccio destro del superboss. E’ sempre Angelo Tolentino che parla, il giorno prima che i giornali pubblicassero la notizia della collaborazione. «Ieri mi arrivò una brutta notizia... - dice Tolentino, sempre intercettato - speriamo che fosse... altrimenti l’avrebbero già preso». Vicini all’arresto arrivarono anche i poliziotti il 31 gennaio 2001 a Mezzojuso. In un casolare, tenuto d’occhio anche dai carabinieri, dove erano sicuri di trovare Provenzano, i poliziotti bloccarono invece il boss di Misilmeri Benedetto Spera in compagnia di un medico. Provenzano, a quanto pare, c’era. Ma era a qualche centinaio di metri, in un casolare e riuscì a dileguarsi nel giro di pochi minuti, nonostante l’intera zona fosse cinta letteralmente d’assedio. Provenzano fu fermato tempo dopo in contrada Traversa, nei pressi di Casteldaccia, mentre circolava su una vecchia “850”, carica di balle di fieno, con un apparente contadino. Il boss, munito di documenti falsi, non fu riconosciuto e sfuggì clamorosamente alla cattura. Gli identikit realizzati al computer dagli esperti di polizia e carabinieri, infatti, pur essendo molto realistici non erano sufficienti.
Gli investigatori, la faccia di Bernardo Provenzano, potranno vederla solo all’alba dell’11 aprile del 2006, dopo averlo inseguito per montagne e vallate, boschi e frutteti, masserie e negozi del centro cittadino. Lui, da solo, contro lo Stato. Una lotta impari che pure è durata ben oltre l’immaginabile e che ha alimentato una leggenda che supera pure la cronaca giudiziaria e diventa mito. Alla pistola poteva tranquillamente rinunciare, il boss, tanto il suo ramificato servizio di protezione gli guardava le spalle, ma alla macchina per scrivere no. Quando gli uomini della Mobile gli sono saltati addosso, scaricando una rabbia covata per 43 anni, Bernardo Provenzano si accingeva a rispondere a un “pizzino” della moglie. Nella lunga latitanza la macchina per scrivere era diventata ormai la sua inseparabile compagna di vita. Bernardo Provenzano aveva imparato a usarla con la stessa abilità con cui, raccontano i molti amici che lo hanno tradito, “sparava come un dio”. Dai tasti di quella macchina, trovata pronta all’uso nel covo del boss, sono partiti ordini, minacce, “consigli”, perfino parole premurose e affettuose. Lui, che sentiva sempre più il fiato della giustizia sul collo, non usava il telefono. Non aveva cellulari. Ricorreva, con prudenza metodica e intelligente, ai bigliettini per comunicare con i suoi uomini e con la sua famiglia. Aveva con il tempo messo su un sistema, arcaico ma efficace, che il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso ha chiamato il “Ministero delle poste e delle comunicazioni” al quale il padrino di Cosa nostra affidava pensieri e segreti della sua latitanza. Tutte le inchieste che hanno aggredito e perforato la rete di collegamenti di Provenzano hanno rivelato l’opera oscura di un piccolo esercito di postini di assoluta fiducia. Il capo li utilizzava imponendo loro comportamenti prudenti e all’apparenza stravaganti. Quando, nel 2005, sono stati arrestati cinquanta suoi fiancheggiatori i carabinieri hanno, per esempio, ricostruito il percorso tortuoso, da Modena a Vittoria, da Agrigento a Caltanissetta degli uomini incaricati della consegna dei “pizzini” del boss. Pochi tra i postini coinvolti nel reticolo comunicativo di Provenzano si conoscevano tra loro, perché una delle misure di cautela era proprio quella di creare sempre nuovi “filtri” tra sé e le persone incaricate del servizio di recapito dei suoi messaggi. I vari passaggi di mano dei bigliettini finivano poi per cancellare ogni traccia e soprattutto impedivano a ciascun “postino” di conoscere il luogo dell’ultima consegna. Fino al blitz finale.
(pubblicato su Terra, aprile 2009)

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