domenica 18 aprile 2010

Tornano le "bionde". Dalla Cina...

Gli occhi s’infiammano all’improvviso, sul volto segnato dalle rughe e dal sole, al ricordo delle avventurose traversate nel golfo di Napoli. Era il tempo del contrabbando via mare, delle casse di Marlboro raccolte tra le onde e degli scafi blu che fendevano la spuma come una freccia scoccata da un arco in tensione. Oggi, Luciano non vive più commerciando «sigarette fuorilegge». Passa il suo tempo seduto a un bar di Santa Lucia, il rione di pescatori che, tra gli anni Settanta e Ottanta, divenne il «quartier generale» dei contrabbandieri napoletani, ma non dimentica quelle emozioni: «Guadagnavamo un milione di lire a viaggio. Una cifra enorme, ma anche il rischio era alto. Dovevamo imbarcare il carico al largo di Capri, solitamente di notte o all’alba. Il tempo a disposizione era sempre poco; spesso il capitano della nave-madre buttava in mare le casse e si allontanava, per evitare di incrociare i finanzieri. Era compito nostro, poi, andare a recuperarle tra mille difficoltà…».
L’industria delle «bionde», che ai tempi d’oro era soprannominata la «Fiat del Sud» per fatturato e numero di «dipendenti», era stata data per spacciata troppo presto. Le inchieste, gli arresti, i sequestri l’avevano indebolita sì, ma non smantellata. Tant’è che è tornata a macinare profitti da record e a impiegare un esercito di giovani disoccupati. Se ne sono accorti, per primi, gli investigatori della guardia di finanza di Napoli che, nel corso del 2009, hanno confiscato 33 tonnellate di sigarette di contrabbando e 77 automezzi usati per il trasporto. Sì, perché ora le «bionde» non viaggiano più lungo le invisibili autostrade del mare. Meglio quelle d’asfalto, dove è più facile confondersi nel traffico e tra gli ignari automobilisti, magari guidando una roulotte o un anonimo tir o – addirittura – vecchie Fiat fuori produzione, con le ruote schiacciate dal peso delle stecche nascoste nel portabagagli o nell’imbottitura della carrozzeria.
Le precauzioni per evitare i controlli e i posti di blocco sono infinite; spesso si parte nelle ore di punta, scegliendo con cura il tragitto e affiancando all’autista una donna, così da simulare una coppia in vacanza. Non sempre, però, il trucchetto funziona. Ed è per questo che ogni carico non supera mai i cinquecento chili, per ammortizzare la perdita in caso di sequestro. Sono cambiate anche le rotte, rispetto agli avventurosi Settanta: oggi i contrabbandieri non arrivano più dai Balcani, o dall’Albania, ma dall’est Europa. E, ad ogni passaggio di frontiera, il guadagno si fa sempre un po’ più sostanzioso: un pacchetto, prodotto a basso costo in Ucraina, arriva in Polonia a 70 centesimi. I «broker» lo comprano nei depositi di stoccaggio di Varsavia a 1,50 euro e lo rivendono ai grossisti a 2,50 euro. I fumatori lo acquistano a 3 euro sulle bancarelle che stanno rispuntando un po’ ovunque, a Napoli come nell’hinterland vesuviano, risparmiando 1,50 euro sul prezzo del tabaccaio. Non poco, in tempo di crisi.
La vera novità, però, è che il mercato del contrabbando di tabacco si è scoperto classista: la merce non è uguale per tutti. Esiste un doppio canale di vendita: uno dedicato agli immigrati e l’altro agli italiani. La differenza, manco a dirlo, sta nella qualità: le sigarette a basso costo sono fabbricate con scarti di lavorazione, provenienti da aree contaminate dell’ex Unione Sovietica. Un pericolo enorme per la salute, tant’è che il Consiglio nazionale delle ricerche di Roma, su richiesta dell’autorità giudiziaria partenopea, sta analizzando il livello di tossicità contenuto nelle «sigarette dei poveri». Il sospetto è che possano far aumentare il rischio di tumori e malattie cardiovascolari.
Negli ultimi mesi, le indagini della magistratura hanno contribuito a svelare questo gigantesco meccanismo economico, i cui proventi vengono calcolati nell’ordine di decine di milioni di euro all’anno. Soldi che vanno a gonfiare i forzieri della criminalità organizzata, impegnata a gestire le fasi di approvvigionamento e vendita al dettaglio, in collaborazione con le mafie straniere, e che, agli occhi degli inquirenti, assumono il valore di vere e proprie «impronte digitali». Seguendo le centinaia di assegni che i contrabbandieri hanno girato alle banche di Varsavia e setacciando i conti correnti dei capi dell’organizzazione, i pm antimafia sono stati infatti in grado di ricostruire una fitta rete di rapporti d’affari illeciti che unisce i Paesi dell’ex «cortina di ferro» alla Cina comunista, dove – raccontano le ultime inchieste di Napoli e di Lecce – i pacchetti di contrabbando vengono addirittura confezionati con tanto di marchio del Monopolio di Stato. Una difficoltà ulteriore e imprevista, dal momento che le partite contraffatte potrebbero facilmente inserirsi nei circuiti ufficiali di vendita, provocando seri danni alle finanze pubbliche.
Ormai, è una lotta in campo internazionale, che comporta l’adozione dei sistemi di investigazione usati, solitamente, per le indagini antidroga: intercettazioni telefoniche e ambientali, pedinamenti con il Gps e riscontri incrociati alle dichiarazioni dei pentiti, che rivelano ruoli e organigrammi dei gruppi criminali che fanno affari con le «bionde». Nelle telefonate spiate dalle forze dell’ordine, le sigarette diventano «mozzarelle», «profumi», «camicie»: un frasario sterminato per cercare di nascondere la puzza di nicotina alle narici dei segugi.
(Pubblicato su "Il Sole24Ore Sud", 14 aprile 2010)

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