Quindici, in origine. Il clan nasce da una banda di quindici malviventi che – rivela una relazione dei carabinieri della compagnia Vomero del dicembre 1982 – impone il pagamento della mazzetta a commercianti e professionisti e gestisce il lotto nero e le scommesse clandestine, investendone il ricavato in un lucroso traffico di stupefacenti.
Il capo si chiama Giovanni Alfano, ha 25 anni ed è soprannominato Giovanni ’o russo. Il suo braccio destro è Antonio Capuano e ha 27 anni. Le indagini dell’epoca dicono che sono collegati alla Nuova famiglia e che sono spregiudicati e che sono pericolosi. Non guardano in faccia a nessuno, quando c’è da guadagnare qualcosa. E questo lo dimostrano i fatti (e i reati) loro contestati.
Di lì a poco, uno della banda finisce coinvolto nel duplice omicidio di Giuseppe Longo e Guido Merillo, entrambi affiliati alla Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo, e altri due picciotti devono scappare dalla magistratura che li vuole ai ceppi per il sequestro di un ricco commerciante dell’Arenella, tenuto in ostaggio per quindici ore come rappresaglia al rifiuto di una maxi-tangente di 500 milioni di lire, poi ridotta a duecento. Alla fine, il commerciante accetterà quest’ultima offerta, strappando anche la dilazione del pagamento e, cosa più importante, tornando a casa sano e salvo.
Due anni dopo, Alfano si trova ricoverato in un letto d’ospedale con ferite d’arma da fuoco al volto e al petto: è caduto in un agguato in via Pigna. Doveva ammazzare il boss Giacomo Cavalcanti, rischia di morire lui, invece. La sparatoria si verifica verso le 20, tra la folla, a poca distanza dall’ingresso di un cinema. Guarisce dopo un mese di ospedale e, quando ritorna in strada, è a tutti gli effetti un uomo d’onore. Gli anni Novanta lo vedono protagonista della «colonizzazione» criminale del Vomero e della Torretta, dove si stabilisce per un certo periodo a vivere. Il matrimonio con Adele Frizziero gli spalanca le porte del malaffare in uno dei territori più ricchi di Napoli, Mergellina e Chiaia, mentre il cognato, Orlando Frizziero, diventa il suo uomo di fiducia per il traffico di droga nel salotto buono della città.
Le riunioni del vertice del gruppo si tengono in un appartamento a piazza Vanvitelli: la cosca conquista, in poco tempo, anche il controllo di un vasto giro di usura che assicura introiti da capogiro. Nel 1993, Alfano è ricercato da polizia e carabinieri per una sfilza di reati e per una condanna a tre anni di reclusione per racket e porto d’armi. Gli dà la caccia, a quel tempo, il pm Giuseppe Narducci, che ricostruisce le relazioni e gli affari dell’organizzazione in una inchiesta chiamata, appunto, «Operazione Vanvitelli».
I pentiti Antonio Buonocore e Nunzio Perrella rivelano che Alfano ha rapporti con i capi dell’Alleanza di Secondigliano, Gennaro Licciardi, Edoardo Contini e Francesco Mallardo, e con il famigerato Francesco Bidognetti, padrino dei Casalesi.
Il 26 luglio 1997 gli uomini della Squadra mobile lo catturano nella sua abitazione, in via Piedigrotta. È accusato di essere il mandante della sparatoria in cui cade, vittima innocente, Silvia Ruotolo: era ritornato in libertà sei mesi prima, grazie a un’assoluzione. Alfano era stato arrestato, quattro anni prima, in una villetta ad Acciaroli, in provincia di Salerno, mentre si trovava in vacanza con la moglie, i tre figli e un nipote.
Con il padrino in carcere, il clan si scompagina: alcuni killer della cosca decidono di passare dalla parte dello Stato e raccontano anni di attività criminali al Vomero e alla Torretta. Arrivano le prime condanne, per droga (24 anni) e per estorsione (20 anni), a cui si aggiungerà l’ergastolo per l’omicidio della giovane mamma a Salita Arenella.
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