lunedì 22 giugno 2009

Il cartello dello scorpione


Lo scorpione è furbo. Lo scorpione è pericoloso. Lo scorpione sa mimetizzarsi bene. N’è passato di tempo da quando, poco più che trentenne, organizzava gli sbarchi di hashish sulle coste di Bacoli per rifornire il clan dell’amico Paolo Di Lauro. Gli spacciatori di Secondigliano non avevano problemi a vendere – ogni giorno – centinaia, migliaia di stecchette di «fumo» ai giovani napoletani. Bastava guardare il simbolo impresso sulle «mattonelle» di droga da 250 grammi: quell’animale che spalancava le chele e puntava la coda acuminata era sinonimo di qualità, di merce di prima scelta. E quindi di denaro, montagne di denaro. Libano e Afghanistan, alla fine degli anni Ottanta, sono le capitali mondiali dell’hashish: è lì che inizia la scalata di Raffaele Amato nel traffico internazionale di stupefacenti. Con i finanziamenti e le coperture di Ciruzzo ’o milionario, diventa uno dei più importanti narcos d’Europa e dà vita al «cartello dello scorpione». Tutti i gruppi criminali che trattano droga hanno un simbolo, un marchio di fabbrica: serve per differenziarsi, per conquistare e mantenere le quote di mercato. E Amato, pur senza aver studiato economia, si dimostra fin da subito un ottimo uomo marketing: conquista il monopolio, in Campania, per l’importazione di hashish ed eroina, andando a comprare, direttamente all’estero, i terreni coltivati a oppio e canapa. In poco tempo, diventa il «ministro del Commercio» della holding criminale di Secondigliano: a metà degli anni Novanta, l’incontro con i grandi trafficanti colombiani lo catapulta nel business che conta. La cocaina. Dalla Spagna inonda di polvere bianca i ghetti controllati dal clan, che macina guadagni stratosferici. Si muove tra Madrid e Barcellona, senza grossa difficoltà. Impara la lingua e le usanze locali. Il cartello, ormai, non ha rivali sulla piazza partenopea. E lo scorpione inizia a diventare un simbolo, un segnale di appartenenza che gli affiliati più giovani esibiscono con orgoglio sui muscoli o sulle targhe delle auto, dove – accanto ai numeri e alle lettere identificativi – spunta la sagoma affusolata del silenzioso killer del deserto.
Poi, arrivano la faida e il tempo dell’odio contro la dittatura di Cosimo Di Lauro, con oltre settanta morti lasciati sull’asfalto. La fuga dopo la clamorosa scarcerazione del 2006 segna il mutamento delle tecniche di latitanza del capo degli «spagnoli»: addio alle auto di lusso e ai guardaspalle armati. Si muove da solo, Amato, utilizzando bus e metropolitana. Come i terroristi baschi dell’Eta e, prima di loro, gli uomini delle Brigate rosse. Cerca l’anonimato nella folla, il padrino, finché da Napoli non vengono sguinzagliati segugi dal fiuto fino che lo braccano fino all’ultimo viaggio. I poliziotti della Squadra mobile e, in particolare, quelli della sezione Narcotici arrivano a lui seguendo le scie di altri trafficanti di droga. È un giorno come tanti altri, quando lo scorpione in trappola non riesce a trovare un nuovo anfratto in cui rifugiarsi e abbassa l’aculeo avvelenato.
Dopo quarantott’ore, il colpo di grazia: oltre sessanta arresti tra capi e gregari del suo clan, dove la moda dei tatuaggi ha sostituito lo scorpione con la minacciosa frase: «Don’t touch my family». «Non toccare la mia famiglia».
(Pubblicato sul quotidiano "Il Roma", giugno 2009)

martedì 9 giugno 2009

Nicola Panaro superlatitante casalese


Con Nicola Panaro, sale a quota quattro la pattuglia di super-latitanti casertani (nello speciale elenco del ministero dell’Interno già ci sono Michele Zagaria, Antonio Iovine e Mario Caterino) a cui dà la caccia il gruppo speciale interforze del Viminale. Quarantuno anni, nato a Casal di Principe, è ricercato dal 2003 per associazione mafiosa ed estorsione; deve scontare nove anni e quattro mesi di reclusione ed è ritenuto, sulla scorta delle informative delle forze dell’ordine, componente del direttivo che guida il cartello malavitoso di Terra di Lavoro.
La prima inchiesta nella quale resta coinvolto insieme ad altri esponenti del gruppo casalese risale al 1996, quando la Dda spicca nei suoi confronti un mandato di cattura per racket e camorra. I poliziotti riescono ad arrestarlo soltanto tre anni dopo, sorprendendolo (è il 27 marzo 1999) in un appartamento, mentre è a cena con la moglie. Gli agenti raggiunsero l’abitazione dopo aver scavalcato un alto muro di cinta di un edificio che, dall’esterno, appariva ancora in costruzione. Davanti al portone del palazzo era stato inoltre parcheggiato un camion carico di prodotti per l’edilizia e materiale di risulta per sviare l’attenzione degli investigatori.
Nel 2002, Panaro – nipote del boss Francesco Schiavone «Sandokan» – fa perdere le tracce dopo la scarcerazione, disposta dalla prima sezione della Corte d’assise di Santa Maria Capua Vetere, al termine del processo Scalzone, nel quale era imputato con l’accusa di omicidio. L’imprenditore edile Aldo Scalzone, noto come l’«avvocato», era stato ucciso nel 1991 a San Cipriano d’Aversa perché ritenuto un confidente della polizia; gli avvocati di Panaro riuscirono però a dimostrare che nessuno dei cinque pentiti alla base delle indagini aveva fatto esplicito riferimento al loro assistito, ottenendone – al termine del dibattimento – l’assoluzione e il ritorno in libertà. Da allora, Nicola Panaro scompare dalla circolazione.
Di lui si sa soltanto che gestisce le paranze di estorsori che rastrellano la provincia di Caserta ogni mese ed è a lui che «copertone», il contabile dei Casalesi arrestato nel settembre scorso, relazionava sull’andamento dei flussi di cassa del clan, che eroga – ogni mese – stipendi per oltre 300mila euro.
(pubblicato sul quotidiano "Il Roma")